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venerdì 29 febbraio 2008

Suite Habana, abita qui la malinconia

Ideazione.com
29 febbraio 2008

Ogni tanto, quando i nostri mass media decidono che è giunto il momento, Cuba torna di moda. E’ successo nei giorni scorsi con le dimissioni di Fidel Castro e “l’elezione” del fratello Raul. Come sempre ci si è divisi tra filocastristi e anticastristi, difendendo da un lato l’unicità di una rivoluzione socialista ferrea e longeva, e dall’altro contestando l’innegabile e assoluta mancanza di democrazia e libertà nell’isola caraibica. Ma Cuba è sempre lì, adagiata al largo della Florida. Non è una novella Atlantide che scompare e riappare secondo le preferenze dell’intellighentsia occidentale. E a Cuba vivono dieci milioni di persone, schiacciate da una povertà sempre più evidente e dal peso di una dittatura asfittica. Ci sono pochi modi per rendersi conto della vera e quotidiana realtà cubana.Uno di questi è il cinema, strumento molto apprezzato, per ovvi motivi propagandistici, dalle dittature di ogni colore, e che quindi gode di un certo (seppur relativo) grado di libertà.
Capita, dunque, che anche il ferreo regime castrista si lasci scappare un film particolarmente esemplicativo della realtà cubana. E’ un film di qualche anno fa (2003), una via di mezzo tra documentario e cinema neorealista. La “trama” è semplice: una giornata per le vie di una città bella e struggente, alle prese con miseria, speranza e rassegnazione. Non ci sono attori né copioni; i protagonisti mostrano alle telecamere solo quello che fanno ogni giorno, senza invenzioni né artifici cinematografici. Conosciamo quindi Francisquito, bambino affetto dalla sindrome di Down, e suo padre Francisco, ex architetto che è diventato muratore, allorquando, rimasto vedovo, ha dovuto occuparsi del figlio. Oppure seguiamo la doppia vita di un giovane dipendente ospedaliero che di notte si trasforma in una luccicante (ma alquanto malinconica) drag queen. E ancora la triste felicità di Juan Carlos, vincitore del grottesco sorteggio che ogni anno permette a qualche centinaio di cubani di lasciare l’isola con destinazione Miami, a patto che non tornino più indietro. Ma il personaggio più emblematico di tutto il film è Amanda, settantanovenne triste che vende noccioline americane a pochi pesos. E’ l’unico personaggio che, nelle didascalie che chiudono il film, non ha un sogno, o meglio non ce l’ha più. E’ il simbolo di una Cuba rassegnata, defraudata da ogni speranza e prospettiva futura. Una Cuba vecchia e vicina alla morte che non vede spiragli, né vie d’uscita.
Qualcuno a questo punto si chiederà come ha fatto il regista Fernando Perez a girare (per giunta sotto il patrocinio dell’Istituto cubano di arte cinematografica) un film così realista, a tratti critico e straziante. Ebbene, il film è stato presentato al mondo come esaltazione del carattere cubano, dell’arte di apprezzare le piccole cose, di accontentarsi e di lottare giorno dopo giorno per vivere. E il regime ci è cascato, se è vero come è vero che la pellicola ha girato i festival di mezzo mondo e ha vinto addirittura undici Coral al festival del cinema dell’Avana. E i cubani? Come hanno reagito a questo struggente affresco di una realtà che purtroppo conoscono benissimo? Semplicemente non hanno reagito, perché a Cuba Suite Habana non è stato mai proiettato, se non in occasioni ufficiali alla presenza di pochi notabili del regime. Nonostante la prorompente libertà del mezzo cinematografico, quello castrista è pur sempre un regime dittatoriale, e la censura vigila e colpisce. Ma almeno il mondo occidentale ha potuto rendersi conto di come vivono i cubani, ha visto le case fatiscenti, la mancanza persino dei servizi igienici più elementari. Suite Habana ci permette per una volta di non fidarci dei racconti entusiastici dei Gianni Minà o dei Diego Armando Maradona. Le immagini parlano, anzi urlano, senza spirito apologetico né, dall’altro lato, anticastrismo a prescindere.
E la tristezza che alla fine assale lo spettatore (almeno quello sinceramente democratico e non ideologico) è frutto, oltre che delle eloquentissime immagini, anche di una colonna sonora trascinante e drammatica. Che sia un brano di musica classica o una salsa cubana, il risultato è sempre quello: l’esaltazione del tratto malinconico dell’indole cubana. Una malinconia che non stupisce, che è frutto della storia e che proprio nella storia (futura) cerca una sbocco. In fondo, i cubani la democrazia non l’hanno mai conosciuta. E Suite Habana è stato (e dovrà ancora essere) un monito per tutti noi occidentali: forse è ora di fargliela conoscere.

mercoledì 27 febbraio 2008

Bandiera rossa trionfa all'Ariston

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27 febbraio 2008

Nonostante le rassicurazioni di Pippo Baudo e gli sketch allusivi dell’ottimo Chiambretti, questo festival è davvero “di sinistra”. Si badi bene: non parliamo della neosinistra veltroniana, quella in bilico tra liberalismo e statalismo, quella che rinnega l’identità e rincorre il centrodestra. La sinistra di Sanremo è figlia di retaggi antichi, è rossa per davvero. Niente “ma anche”, niente distinguo, tantomeno moderazione e rinnovata presentabilità, a parte una sola eccezione. Alla vigilia del Festival, il quotidiano Il Secolo d’Italia parlava addirittura di dodici canzoni dai testi impegnati e militanti. Forse è un’esagerazione, ma almeno sei brani musicali percorrono inequivocabilmente un fil rouge (nomen omen) politicamente schierato. Quattro “campioni” e due “giovani”, dalle sonorità e dagli stili molto diversi tra loro: dal pop ricercato e “similElisa” di L’Aura alla taranta di Eugenio Bennato, passando per il rap di Frankie Hi Nrg, le sonorità gipsy (alla Gogol Bordello, per intedersi) dei Frank Head, la tristezza aziendale dei Tiromancino e la canzone “d’autore” alla De Gregori di Valerio Sanzotta.
Proprio quest’ultimo ha sicuramente presentato il testo più retorico e stucchevole ed è anche l’unico che possiamo davvero definire veltroniano. Forse pensando al successo della canzone antimafia di Fabrizio Moro nel 2007, Sanzotta mette insieme in Novecento il Sessantotto (e non fu solo un sogno e non ci credemmo poco, mettere il mondo a ferro e fuoco), piazza Fontana (mentre un’altra stagione già suonava la campana, il primo rintocco fu a piazza Fontana), la morte di Enrico Berlinguer e quella tragica di Aldo Moro e Guido Rossa. Ma l’operazione non riesce, non fosse altro perché la minestra che ne viene fuori è troppo disomogenea e risulta indigesta.  Ecco, dunque, la summa dell’evoluzione della sinistra italiana: pacificazione nazionale (forzata e fuori tempo massimo), fusione della tradizione democristiana e quella postcomunista, linguaggi retorici e buonisti, abiura dell’identità del tempo che fu. Non ci stupiremmo se Veltroni usasse la canzone di Sanzotta nel prosieguo della campagna elettorale. In fondo è il suo pensiero politico-culturale messo in musica.
Ma il veltronismo sanremese, dicevamo, finisce qui. Poi è tutto un fiorire di rivoluzione, di diseredati, di vittime della guerra e della globalizzazione, della pace americana e del petrolio. Un immenso spot alla Sinistra Arcobaleno, altro che Pd. Il più onesto, a dire la verità, è Frankie Hi Nrg. Il rapper, almeno, è chiaro fin dal titolo. Rivoluzione. Selezionare solo qualche brano di questo incitamento alla sommossa e all’insurrezione è davvero cosa ardua. Si parte con una critica al cattocomunismo e alle genuflessioni della sinistra nei confronti della Chiesa (noi che qui pure Peppone sa il Vangelo e lo agita, un po’ si esagita, dopo un po’ si sventola), per poi lasciare spazio ai concetti base del grillismo dilagante: mettiamo al bando i vertici politici con tutti i loro complici, amici degli amici, chi ha svuotato i conti: incassano tangenti celandosi le fonti e han cappucci e cornetti sulle fronti. Ovviamente non poteva mancare l’ultimo accenno alla massoneria, in nome di una vecchia e stantìa retorica comunista. E ancora i furbetti del quartierino, le intercettazioni, le vallette nude, i paparazzi, le clientele. E il refrain è l’incitamento vero e proprio all’azione: qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione, sesso, razza o religione: tutti pronti per l’azione. Ma è un invito ben presto deluso dagli eventi (forse dalla nascita del Pd e dalla modernizzazione, vera o presunta, della sinistra?): non si fa la rivoluzione, l’hanno detto in televisione. Chi c’è andato che delusione! Era chiuso anche il portone.
E mentre i pur bravi Frank Head (la guerra giusta o meno è sempre guerra, non cambia niente) e L’Aura (Dai peccati Madre Guerra assolverà chi la venererà oppure quante sono le persone che nel nome del Signore finiranno nella cenere?) si improvvisano pacifisti e malcelano uno spiccato antiamericanismo, e prima che arrivi Eugenio Bennato a far da padre nobile al ribellismo politicamente corretto del palco dell’Ariston, ci pensano i Tiromancino (già ospiti di manifestazioni di Ds e Margherita) a giocare un altro jolly: la precarietà e i licenziamenti selvaggi. Canzone musicalmente debole (e per il gruppo di Zampaglione è sicuramente strano) dal testo ancor più deludente: L’azienda non si tocca, l’azienda è al primo posto, e chi non fa più parte è come fosse morto. Io questo lo so bene e non mi sfiora il rimorso,
mando tutti a casa e mi tengo stretto il posto
. E' un'invettiva contro la figura del dirigente, essere semiumano dalla spiccata crudeltà. Ma dicevamo di Eugenio Bennato: il suo pezzo è ovviamente una taranta (magari provi anche a cambiare genere, ogni tanto) ma, si badi bene, contaminata. I coristi sono quattro: una ragazza salentina, due africane e un giovane arabo. Grande Sud è un inno al Mediterraneo, che potrebbe anche piacere se non fosse intrisa di retorica e luoghi comuni. Il ritmo c’è, il testo è pessimo: c’è una musica in quel sole che negli occhi ancora brucia nell’orgoglio dei braccianti figli della Magna Grecia. Era forse dai tempi della Cgil di Di Vittorio che non si sentiva più la parola “braccianti”. Per non parlare poi dell’abusato accenno all’emigrazione, a chi dorme nelle stazioni, ai “terroni” (nemmeno la Lega usa più questo epiteto!). Ma la colpa di chi sarà? Della globalizzazione, ça va sans dire: e sarà quella canzone […] che ha a che fare coi perdenti della civiltà globale, vincitori della gara a chi è più meridionale.
Alla fine della fiera, dunque, sembra che il Secolo d’Italia avesse ragione. Quantomeno a metà, perché in fondo il veltronismo fa capolino qua e là con tutto il suo bagaglio di retorica buonista. La politica sanremese è rossa (o arcobaleno, fate vobis) e l’inconciliabilità tra ribellismo e kermesse nazionalpopolare “fintochic” è solo apparente: non è forse la sinistra italiana ad aver sempre predicato la rivoluzione salvo poi guardarla comodamente dal salotto buono?

martedì 26 febbraio 2008

Europa targata Usa alla notte degli Oscar

Ideazione.com
26 febbraio 2008

L’ottantesima cerimonia di consegna degli Oscar non ha tradito le attese. Ci si aspettava il trionfo di Ethan e Joel Coen e del loro No country for old men, e così è stato. Il film dei geniali fratelli del Minnesota ha conquistato ben quattro statuette: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura non originale e miglior attore non protagonista (lo spagnolo Javier Bardem). Tutte categorie importantissime, dunque, per un film che sdogana definitivamente anche nella Hollywood commerciale il talento dei Coen. Nonostante tanti capolavori girati negli ultimi vent’anni, i Coen in effetti si erano dovuti accontentare di un premio Oscar nel 1996 per la sceneggiatura di Fargo. Ma gli Oscar di quest’anno sembrano strizzare l’occhio a un cinematografia più colta e ricercata rispetto al passato. Ne è prova evidente l’en plein degli attori europei: oltre al già citato spagnolo Bardem (che in verità lo avrebbe meritato anche per Mar Adentro del 2004 e invece non fu nemmeno nominato), portano a casa l’ambita statuetta anche gli inglesi Tilda Swinton (attrice non protagonista in Michael Clayton) e Daniel Day-Lewis (meraviglioso protagonista de Il Petroliere) e la francese Mario Cotillard (l’Edith Piaf de La Vie en Rose). Il Vecchio Continente si fa largo a Hollwood, dunque? Senza dubbio l’affermazione del cinema europeo è stata notevole ma gli effimeri innamoramenti degli americani nei confronti del nostro cinema sono un fenomeno ciclico ben noto. E poi c’è da considerare anche un altro aspetto importante della faccenda: a parte la Cotillard, gli altri sono stati premiati per film a stelle e strisce.
E l’Italia? Anche quest’anno ci siamo difesi come potevamo, trionfando in due categorie a noi congeniali. Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo hanno portato a casa l’Oscar per le scenografie dell’ultimo film di Tim Burton, mentre Dario Marianelli (autore delle musiche di Espiazione) ha vinto il derby tutto italiano con Marco Beltrami (Un treno per Yuma). Davvero un peccato la mancata vittoria del corto Il Supplente, sicuramente un’opera importante per rivitalizzare il settore dei cortometraggi italiani. Ma, si sa, per qualcuno che vince e gioisce, molti altri incassano una sconfitta. E’ il caso della sempre brava Cate Blanchett, che aveva ricevuto addirittura due nomination per Elizabeth: the Golden Age e I’m not there. Proprio per la sua interpretazione dell’alter ego di Bob Dylan, l’attrice australiana avrebbe sicuramente meritato la statuetta. Nel film corale di Todd Haynes, un po’ criptico e di difficile comprensione ma che tanto è piaciuto agli intellettuali radical chic, la Blanchett è l’unico raggio di luce. Una prova d’attrice difficile e camaleontica, che la consacra definitivamente come una delle migliori intepreti della storia dell’arte cinematografica.
Poca America, comunque, nell’anno delle presidenziali. E’ strano che Hollywood non abbia voluto dare un messaggio politico proprio quest’anno. Eppure le star californiane si stanno spendendo moltissimo (forse addirittura troppo) nella campagna per le primarie, dividendosi tra Hillary Clinton e Barack Obama. Non si può parlare comunque di una cerimonia apolitica: nella categoria Miglior documentario ha infatti vinto Taxi to the dark side, sugli abusi americani commessi nelle carceri di Guantanamo e Abu Grahib. Annotazione dovuta, poi, per il commosso applauso tributato a Heath Ledger, il giovane e talentuoso attore australiano morto poche settimane fa. Come in ogni notte degli Oscar che si rispetti c’era anche tanto glamour sullo sfavillante red carpet, abiti griffati del valore di migliaia di dollari, persino scarpe tempestate di diamanti. Ma quello, ci si concederà questo piccolo snobismo, non è cinema.

venerdì 22 febbraio 2008

Belgrado in rivolta: torna l'incubo dei Balcani

Ideazione.com
22 febbraio 2008

Un morto e settanta feriti. Con questo bilancio, si può considerare conclusa la fase di nervoso stallo seguita alla dichiarazione di indipendenza del Kosovo. Centinaia di migliaia di persone, infatti, hanno sfilato per le vie di Belgrado per protestare contro la secessione di Pristina e soprattutto contro l'appoggio internazionale alle ragioni dell'ex regione serba. L'imponente manifestazione si è presto trasformata in una vera e propria rivolta, con alcune centinaia di giovani che si sono accaniti sugli edifici che ospitano le ambasciate di alcuni Paesi che hanno appoggiato la causa kosovara. Si tratta delle sedi diplomatiche di Turchia, Bosnia, Croazia, Belgio, Canada e, ovviamente, Stati Uniti. Proprio l'ambasciata americana è stata oggetto di un vero e proprio assalto. Centinaia di hooligans serbi hanno distrutto porte e finestre dell’edificio con bastoni e spranghe, riuscendo anche ad irrompere all’interno. Il tutto aggravato dall’assoluto disinteresse della polizia, che ha sedato la rivolta in altre zone della città, disinteressandosi della situazione di tensione creatasi intorno all’ambasciata Usa.
Anche questo, ovviamente, è un messaggio che la Serbia ha voluto recapitare a Washington, quasi come ritorsione per l’appoggio incondizionato (ancorché atteso e prevedibile) dato dagli Stati Uniti all’indipendenza del Kosovo. Ma la manifestazione di ieri sera è stata la dimostrazione che la reazione ferma e inamovibile del popolo serbo si sarebbe potuta trasformare da un momento all’altro in guerriglia urbana. Proprio oggi, intanto, è arrivato anche il riconoscimento ufficiale italiano al governo di Pristina. A spiegare la decisione del governo c’ha pensato il ministro degli Esteri Massimo D’Alema: “Manderemo un incaricato d’affari e poi un ambasciatore. L’Italia riconosce il Kosovo. L’Italia non è ostile alla Serbia, ma vuole essere un fattore di equilibrio nei Balcani”. Sono frasi significative, soprattutto se pronunciate da chi nel 1999, in qualità di presidente del Consiglio, partecipò attivamente alla guerra contro Belgrado, innescata proprio dalla terribile situazione in cui viveva la maggioranza albanese del Kosovo. Ma anche all’interno del governo italiano si è levata qualche voce di dissenso: Romano Prodi, infatti, ha precisato che la decisione di riconoscere la sovranità nazionale del Kosovo è stata presa dal consiglio dei ministri a larghissima maggioranza, con la sola eccezione del ministro di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero.
La reazione serba al nostro riconoscimento è stata repentina, con il richiamo in patria dell’ambasciatore nel nostro Paese. E non è un caso, forse, che una delle due filiali bancarie assaltate dagli hooligans di Belgrado sia proprio uno sportello dell’UniCredit. L’Italia in questa circostanza sembra aver preso una decisione piuttosto netta. In un primo momento il nostro governo aveva tentato di mediare all’interno dell’Ue tra chi premeva per un riconoscimento immediato e chi invece era fermamente contrario. Quando, però, si è capito che l’accordo non era possibile, Roma ha deciso di adeguarsi all’andazzo da “ordine sparso” venuto fuori dalla riunione di Bruxelles.
Ma se le questioni diplomatiche, seppur fondamentali e indicative del clima di tensione venutosi a creare, interessano forse soltanto agli addetti ai lavori, la rivolta per le vie di Belgrado pone un problema ben più reale ed allarmante: è possibile che la Serbia esploda di nuovo? Si tratta di un quesito fondamentale per il futuro dei Balcani e soprattutto di un Paese che solo da pochi anni era riuscito a cominciare un cammino di democratizzazione. La recente vittoria elettorale dell’europeista e filo-occidentale Tadic, aveva forse illuso molte cancellerie al di qua e al di là dell’Atlantico. Sulla questione del Kosovo non c’è infatti differenza tra le posizioni di Tadic e del premier Kostunica e quelle del temusissimo Nikolic, battuto alle ultime presidenziali ma leader di un agguerritissimo partito nazionalista. Il Kosovo è considerata la culla della civiltà serba per ragioni culturali, storiche e religiose. Nessuno, dalle parti di Belgrado, ha la minima intenzione di cedere di un passo. Eppure l’indipendenza del Kosovo non può essere considerata un gesto illegittimo, un golpe filooccidentale. La storia recente della martoriata regione è lì a mostrare al mondo l’inevitabilità di un passo del genere. Se persino il pur cauto Athisaari aveva previso l’indipendenza come ultimo passo, significa davvero che non c’era altra via d’uscita.
Il mondo occidentale, dunque, non deve rinnegare la scelta di Pristina e tornare sui propri passi. Ha davanti a sé, invece, un compito ben più arduo e difficoltoso: da un lato ammansire Mosca, sempre più decisa a sostenere il fermo no di Belgrado; dall’altro far capire agli stessi serbi che la definitiva stabilità dei Balcani passava inevitabilmente dall’indipendenza del Kosovo. Non sarà un’impresa facile, lo dimostrano i numeri degli scontri di questa notte. Nonostante tutte le evidenti difficoltà la diplomazia si deve attivare immediatamente. Questa doveva e deve essere l’occasione per una pacificazione definitiva della regione, non per la riesplosione di conflitti che già in passato hanno mostrato al mondo tutta la loro terribile ferocia.

mercoledì 20 febbraio 2008

L'avvicendamento all'Avana non porta la democrazia

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20 febbraio 2008

intervista a Joel Rodriguez

L’annuncio dell’abdicazione di Fidel Castro, pubblicato da Granma, quotidiano ufficiale del regime castrista, ha riacceso in giro per il mondo molti focolai di speranza. Di sicuro, dopo quasi cinquant’anni di dominio incontrastato, l’uscita di scena del lider maximo ha un significato, forse più simbolico che effettivo, da non sottovalutare. Ma quali scenari si aprono adesso per l’isola caraibica? Lo abbiamo chiesto a Joel Rodriguez, portavoce dell’Unione per le Libertà a Cuba. Joel è giovane e agguerrito. Sa come si vive a Cuba e non si fa illusioni. La sua reazione alle “dimissioni” di Castro è pragmatica, attendista. Troppe volte, in passato, si erano paventati cambiamenti democratici poi mai avveratisi. Ma Joel continua a combattere, anche pensando alla madre che vive a Cuba.

Cosa cambia realmente a Cuba dopo l’annuncio di Castro?
Per noi esuli e oppositori non cambia assolutamente niente. Il potere è in mano a Raul Castro già da un anno e mezzo e nulla è cambiato. Continua la repressione, anzi si intensifica. E il regime cubano addirittura arresta oppositori per poi ricattare la Spagna in modo da ottenere canali privilegiati con l’Europa.

Fidel, nella lettera pubblicata da Granma, ha più volte sottolineato che deve continuare “l’opera rivoluzionaria con l’appoggio dell’immensa maggioranza del popolo”. Il consenso a Cuba è davvero così vasto o è cresciuto il numero di dissidenti?
Fidel e Raul Castro non hanno mai avuto un largo consenso, ma non c’è dubbio che ultimamente la situazione per loro è ulteriormente peggiorata. La gente ha meno paura e non sopporta più la repressione.

Il posto di Castro verrà preso quasi sicuramente dal fratello Raùl, considerato da molti “il volto stalinista della rivoluzione”. La situazione potrebbe addirittura peggiorare con l’avvicendamento familiare all’Avana?Peggio di così non credo. Dopo mezzo secolo di dittatura criminale, di disastro economico e sociale, come può peggiorare la situazione? Al massimo sarà uguale ad oggi.

Sebbene da più parti si cominci a parlare di transizione, non sembra che la situazione stia davvero cambiando. Lo stesso Fidel ha dedicato molto spazio alla prima generazione dei rivoluzionari. Forse questo è l’ultimo tentativo della vecchia guardia di conservare il potere?
Di una parte della vecchia guardia. Perché molti rivoluzionari del ’59 sono esuli o imprigionati. Di sicuro l’obiettivo è quello di mantenere il potere a tutti i costi. Ora aspettiamo le decisioni del cosiddetto Parlamento di domenica prossima. Se verrà “eletto” Raul avremo la certezza che nulla cambierà. Solo nel caso venga designato qualcun altro meno duro e allineato al castrismo si potrà sperare in un’evoluzione positiva della vicenda.

Una parte consistente della gioventù italiana ha sempre fatto il tifo per il regime cubano. Nel suo Paese che rapporto c’è tra giovani e regime?
E’ sufficiente considerare che la maggior parte dei giovani ha un solo sogno: scappare da Cuba. E molti di loro muoiono in mare nel disperato tentativo di raggiungere le coste della Florida. Poi ovviamente anche i giovani a Cuba spesso sono costretti a una doppia morale: se vogliono studiare e vivere tranquillamente devono pur prendere parte alle attività del regime.

Non si è fatta attendere la reazione di George W. Bush, che ha chiesto l’inizio di un cammino verso una democrazia compiuta. Cosa ne pensa della posizione espressa da Washington?
Non le nego che io sono un grande sostenitore di Bush. Però stavolta il presidente americano ha sbagliato nel giudicare anche solo potenzialmente democratica una svolta del genere. Se gli oppositori verranno liberati allora potremo dire che qualcosa si muove. Ma per adesso nulla ci porta a sperare in una transizione democratica.

Cosa avete intenzione di fare nel prossimo futuro voi dissidenti all’estero?Aspetteremo fino alla fine di marzo per valutare le reazioni della comunità internazionale. Se non ci saranno risposte concrete indiremo manifestazioni a oltranza finché qualcosa non si muoverà davvero.

Oltre alla mobilitazione all’estero, crede che ci sia finalmente la possibilità di una ribellione interna?
Non c’è alcuno spazio per insurrezioni o cose del genere. Quando venne annunciata la malattia di Fidel Castro il regime ha addirittura intensificato i controlli e la repressione. E poi il controllo militare è tutto nelle loro mani.

Mi permetta una domanda personale: ha parenti a Cuba in questo momento?
Sì, certo. Mia madre vive lì.

E non ha paura che il regime metta in atto delle ritorsioni nei suoi confronti?Ovviamente. Vivo nella paura che possa succederle qualcosa, ma ormai sono in ballo e continuerò a lottare per la libertà e la democrazia nel mio Paese. In fondo, se sto lottando è anche per regalare la libertà a mia madre

lunedì 18 febbraio 2008

Cloverfield, manifesto di un'era

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18 febbraio 2008

Ricordate The Blair Witch Project, film culto del 1999? Riprese in soggettiva, fittiziamente amatoriali, effetto reality per una pellicola invece studiata dal primo all’ultimo fotogramma. Ma quel film non era solo un angosciante e geniale horror (oltre che una colossale operazione mediatica): era anche (e forse soprattutto) il manifesto degli anni Novanta. Gli anni del brusco risveglio dopo la sbronza del decennio precedente. Giovani risucchiati dall’incomunicabilità, dal disagio sociale, vittime di una crisi economica di proporzioni globali. E The Blair Witch Project ci presentava proprio quel mood, seppur mascherato in una cupa storia di streghe e spiriti malvagi: tre ragazzi americani un po’ sfigati, stralunati, disimpegnati e strafottenti che affrontano le loro evidenti fragilità, prima ancora che la diabolica strega del Maryland.
Ebbene, quasi un decennio dopo un’operazione simile presenta il manifesto del Duemila. E’ Cloverfield, pellicola americana del genere catastrofico ma per nulla scontata né banale. La trama è semplicissima: un gruppo di ragazzi newyorkesi organizza una festa d’addio in un loft di Manhattan per un giovane manager che si trasferirà in Giappone. Proprio durante il party arriva la catastrofe che innesca una serie di peripezie da mozzare il fiato. Ma perché paragonare questo film a The Blair Witch Project? Innanzitutto perché anche Cloverfield è girato in soggettiva, con una telecamera digitale sempre nella mano di uno dei protagonisti. E poi perché, come dicevamo, è anche questo il manifesto di una generazione. Via i complessi e il disagio, si fa largo il rampantismo dei giovani del Terzo Millennio, alle prese con carriere invidiabili, mobilità lavorativa cosmopolita e trendy appartamenti nel cuore della downtown newyorkese.. Ma c’è un altro disagio che ha fatto capolino nella società. Non più un malessere individuale, bensì una paura collettiva: la paura innescata dall’11 settembre, il terrore dell’altro da sé, di universi paralleli e inconciliabili (fantascientifici o politico-religiosi che siano). Ed ecco che la ripresa in soggettiva questa volta è frenetica come i ritmi dell’epoca; lo scenario è una New York affollata e terrorizzata e non i silenziosi e deserti boschi del Maryland. E poco importa se la minaccia è una mostruosa creatura venuta da chissà dove; poco importa se non ci sono aerei che si schiantano sui grattacieli. E’ il mood che è diretto discendente di quel terribile giorno di settembre.
E la frenesia delle riprese sconvolgono, agitano lo stomaco dello spettatore. A differenza della “strega di Blair”, con i suoi ritmi più soporiferi e angoscianti, questo film sembra portarci dentro una galleria del vento senza dotarci di appigli o cinture di sicurezza. Lo sguardo attonito degli spettatori all’uscita è eloquente: niente scene di panico né conati di vomito come ammoniva la stampa, per carità, ma uno smarrimento tipico di questa generazione. Un film riuscito, dunque, nonostante il timore più che giustificato che si trattasse solo dell’ennesima, immensa operazione commerciale. Cloverfield da oggi entra di diritto nello scaffale delle pellicole simbolo di un decennio, raggiungendo Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (del 1981 ma ambientato negli anni ’70), Wall Street (anni ’80), The Blair Witch Project (anni ’90).