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venerdì 27 giugno 2008

La commedia sexy all'italiana

Ideazione.com
27 giugno 2008

A cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, il cinema italiano ha prodotto una quantita smisurata di film eroticomici, inaugurando la stagione lunga e fortunata della commedia “del buco della serratura”. Stiamo parlando, ovviamente, del filone che da Banfi in poi, passando per Renzo Montagnani e Alvaro Vitali, ha fatto urlare la critica al sacrilegio, alla decadenza artistica e morale della nostra arte cinematografica. In effetti, a essere sinceri, le commedie erotiche dell’epoca non erano certo dei capolavori. La trama, ad esempio, era quasi sempre uguale: un uomo brutto, magari calvo e grassoccio, è preside di una scuola, colonnello dell’esercito, medico o cose del genere. Il tipico piccolo borghese frustrato, insomma, sposato con una donna corpulenta e petulante. A un certo punto fa il suo ingresso il personaggio chiave: la bella di turno. Che si trattasse di Gloria Guida, Barbara Bouchet, Anna Maria Rizzoli, Nadia Cassini o della regina del genere Edwige Fenech, poco importa. Quello che conta, almeno per lo sviluppo della traballante trama, è la serie di avventure erotiche e goffe che questo ingresso innesca. Ovviamente, quasi sempre l’uomo di mezza età andava in bianco, a vantaggio di aitanti giovanotti, spesso studenti di liceo o al massimo militari di leva, che riuscivano a conquistare (certo non con metodi romantici) la bellona di turno.
Immancabile era la scena della doccia, che ha reso celebre soprattutto l’oggi compassata madame Fenech, allora vera e propria icona erotica di un’intera generazione. La conturbante doccia era spesso inquadrata da un buco di una serratura, a rimarcare l’alto contenuto voyeuristico di quei film. E possiamo dire senza paura di essere smentiti che migliaia di giovani italiani hanno ricevuto la prima infarinatura di educazione sessuale grazie alla perizia con la quale le attrici curavano la loro igiene personale,. Trent’anni fa, in effetti, l’Italia era un Paese ancora percorso da pressanti istinti bigotti. Era l’epoca della gioventù ribelle, è vero, ma milioni di ragazzi, che magari vivevano in un paesino della Bassa o nella Sicilia più profonda, di sesso ne sapevano poco o niente. Ed ecco, allora, che il Lino Banfi eternamente “arrapeto” diventava una sorta di Virgilio, una guida nazionalpopolare nel girone di una lussuria ancora tabù.
Lo stesso Banfi, che oggi ci sorride bonariamente nei panni di nonno Libero, non ha mai rinnegato quella lunga e fortunata parentesi della sua carriera. E in effetti non potrebbe, se è vero che gran parte della sua attuale notorietà deriva proprio da quei film, da quelle pruriginose commediole di serie B. Ma trent’anni dopo, persino la critica ha rivalutato il genere eroticomico, allora così bistrattato e snobbato. Nell’epoca dell’impegno e del “personale è politico”, era inconcepibile questo abbandono al piacere fisico, al disimpegno totale, alla decadenza degli ideali. E non è un caso che Lino Banfi abbia convissuto per anni con l’etichetta di “fascista”, scomparsa solo quando si è ripresentato come nonno Libero, ferroviere in pensione, ex sindacalista, lettore dell’Unità. Oggi, dicevamo, il clima è diverso. I critici di casa nostra hanno rivalutato il genere, forse influenzati dall’outing di Quentin Tarantino. Il regista americano ha più volte dichiarato di amare i cosiddetti “B-movie” all’italiana, incontrando ed esaltando due icone dell’epoca come Barbara Bouchet ed Edwige Fenech. Ripetiamo: la qualità non c’era. Ma proprio perché stavamo nell’epoca del cinema impegnato e noioso, quei film rappresentavano lo stato d’animo di chi non ne poteva più di picchetti e manifestazioni, di guerriglia urbana e terrorismo. L’Italia aveva voglia di evasione, di disimpegno, di sesso a buon mercato, di ritornare al personale, che doveva essere privato, appunto, e non politico.
Che poi Edwige Fenech oggi sia diventata una stimata produttrice e Lino Banfi un modello per la tipica famigliola italiana poco conta. I tempi cambiano e gli stili di vita pure. L’importante, tuttavia, è che quel cinema ci sia stato, con tutte le sue volgarità, i suoi bassi istinti, il suo voyeurismo esasperato. Era il grido di una grande fetta d’Italia. Ovviamente, allora nessuno lo ascoltò e tantomeno lo capì. Ma il tempo, si sa, è galantuomo. Anche al cinema.

venerdì 20 giugno 2008

Guida estiva per cinefili disperati

Ideazione.com
20 giugno 2008

Avete presente le noiose serate estive davanti al televisore? Quando arriva la bella stagione, per motivi economici o magari solo per indifferenza nei confronti del pubblico, i dirigenti televisivi ci propinano le ennesime repliche di questa o quella fiction, film di quart’ordine inseriti in cicli quasi sempre all’insegna del “brivido” (o presunto tale), show a basso costo con cast di scarsa qualità. Lo stesso, almeno in Italia, succede al cinema. Mentre negli Stati Uniti, infatti, in estate fanno il loro esordio i blockbuster della stagione, nel nostro Paese si lanciano pellicole imbarazzanti, qualitativamente infime e destinate all’ovvio e sicuro flop. Sarà perché gli italiani in estate preferiscono le balere romagnole o le discoteche sarde, sarà perché in fondo il cinema non è il nostro passatempo preferito, fatto sta che il panorama cinematografico italiano non ne vuole sapere di adeguarsi ai calendari usuali degli altri Paesi. Niente capolavori nelle calde notti italiche, ma nemmeno film accettabili, decenti o godibili. E’ tutta una serie di commediole da strapazzo (che arrivano quasi sempre da Oltreoceano), accompagnate da qualche horror semiamatoriale, uno o due cartoni animati disegnati male e venuti peggio. Per rendersi conto che questa usanza tutta italiana non accenna a interrompersi, basta scorrere l’elenco dei prossimi esordi cinematografici.
Tra il 20 e il 27 giugno, infatti, nelle sale italiane faranno capolino tredici pellicole, undici delle quali si preannunciano catastrofiche. Si va dalla produzione italo-greca Uranya, con un cast interamente ellenico “impreziosito” dall’esibitissimo (persino in locandina) decolleté di Maria Grazia Cucinotta, alla versione cinematografica dei due concerti mondiali della stellina disneyana Hanna Montana, passando per il cinecocomero dei Vanzina (cast ricco ma comicità trita e ritrita), l’orrido horror Rovine e addirittura Impy e il mistero dell’isola magica, che ha almeno il “pregio” di farci sapere che anche in Germania si fanno i film d’animazione. In questa valle di lacrime e cinema di bassa qualità, due perle fanno fatica a emergere: Go Go Tales di Abel Ferrara e 12 di Nikita Mikhalkov. Ecco che viene spontaneo chiedersi, a questo punto, chi ha deciso di massacrare i film di due geni di tal fatta, accostandoli ai capolavori da solleone che abbiamo citato poco sopra. Si può decidere, infatti, di adeguarsi al resto del mondo e offrire una stagione cinematografica estiva quantomeno decente. E allora ci sta anche che Ferrara e Mikhalkov esordiscano a fine giugno. Ma finché questo non accadrà, e in Italia ci sembra veramente difficile, è davvero un peccato mandare allo sbaraglio due registi che in passato hanno regalato alla settima arte film di ottima fattura.
Alle obiezioni che abbiamo mosso alle strategie commerciali delle majors in Italia, qualcuno risponderà che il nostro Paese non ama andare al cinema d’estate e durante la bella stagione abbandona persino l’amatissimo schermo televisivo. Ma la cultura, perché di questo stiamo parlando, va incentivata, e le abitudini, persino le più dure a morire, possono cambiare. Certamente non si riuscirà nell’intento se si continuerà a proporre un “cartellone” così desolante, zeppo di B-movies e assolutamente privo di rispetto verso quelle poche e bizzarre mosche bianche che persino in una serata di luglio preferiscono un buon film all’assordante ambiente di una discoteca. Per fortuna siamo nel 2008 e il dvd ha risolto molti problemi. Non ci si lamenti più, però, della perenne crisi del cinema (italiano e non) e del fatto che gli italiani ormai spendono più in apparecchiature tecnologiche che in svago tradizionale e cultura. I molti italiani che, specialmente in questi periodi di crisi economica, non potranno andare in vacanza, si adoperino come possono: in fondo basta un lettore dvd, una fornita videoteca dietro l’angolo e una scorta bimestrale di bibite fresche, gelati e popcorn.

mercoledì 18 giugno 2008

Rai, un palinsesto in chiaroscuro tra novità e ritorni

Ideazione.com
18 giugno 2008

E’ un palinsesto ricco, variegato e in alcuni casi addirittura interessante quello che la Rai ha presentato a Sankt Moritz. La stagione 2008/2009 della tv di Stato offrirà ai telespettatori un bouquet di proposte molto diverse tra loro, all’insegna di una doppia direttrice di marcia: da un lato gli eterni ritorni dei mostri sacri del piccolo schermo, dall’altro alcune gustose e qualitativamente notevoli novità assolute. Fa notizia, almeno per quanto riguarda gli eventi più nazionalpopolari, il ritorno di Carramba che fortuna, il fortunato format di Raffaella Carrà abbinato alla Lotteria Italia. La signora Pelloni, dopo il mezzo flop di Amore (show sui generis dedicato alle adozioni a distanza), torna all’insegna della sicurezza, della riproposizione di un programma che ha avuto enorme successo negli anni scorsi. Toccherà vedere, però, se il pubblico del 2008 è ancora affezionato a quel tipo di televisione, in un’epoca in cui i reality show hanno trasformato in qualcosa di vetusto i ricongiungimenti familiari lacrimevoli di Raffaella Carrà. Ma la scelta di abbinare lo show alla Lotteria Italia è sicuramente oculata e vincente. Da qualche anno i programmi televisivi selezionati per accompagnare la lotteria di Capodanno erano stati deboli, fiacchi, dotati di scarsissimo appeal nei confronti dei telespettatori. C’era la necessità di rilanciare la lotteria in tv e la Carrà sembra la persona adatta per raggiungere tale obiettivo. All’insegna del dejà vu anche la proposta di Pippo Baudo. Pur senza rinunciare al segmento Ieri, oggi e domani all’interno di Domenica In, il presentatore siciliano ripropone a distanza di molti anni la sua Serata d’onore, un programma che ogni settimana verrà dedicato alla carriera e alla vita di due noti personaggi dello spettacolo. Quando fece il suo esordio in tv, lo show ebbe un successo notevole. In diretta dal Teatro Verdi di Montecatini, Baudo era il timoniere di uno spettacolo ricco di grandi ospiti, di momenti musicali e comici. Anche Serata d’onore, però, sembra la riproposizione stantìa di una televisione che non c’è più.
Lo show tradizionale, in effetti, è decisamente passato di moda. Negli ultimi anni hanno fatto eccezione solo Giorgio Panariello e Fiorello, ma soprattutto perché i due non sono semplici presentatori bensì mattatori, istrioni, trascinatori. I telespettatori del 2008 vogliono ritmo incalzante, comicità graffiante, modernità televisiva. Pippo Baudo è la persona adatta a offrire tutto questo? In attesa di scoprirlo, prepariamoci anche alle due serate dedicate alla musica ultranazionalpopolare di Gigi D’Alessio e Anna Tatangelo. Per la serie: largo alla musica che piace ai giovani. Molte sono le conferme del palinsesto, riguardanti soprattutto programmi a basso costo e a bassa audience: Occhio alla spesa (programma di servizio dedicato all’economia domestica e ai prezzi dei generi alimentari), Festa italiana (condotto da Caterina Balivo), l’ormai collaudato La Prova del Cuoco di Antonella Clerici. Inamovibili Affari tuoi (ma non sarà Flavio Insinna a condurlo), Domenica in con la Bianchetti e Giletti, il Porta a Porta di Bruno Vespa. Tutti programmi di Rai Uno, la rete ammiraglia che presenterà anche due cambiamenti non di poco conto. Michele Cucuzza lascia dopo tanti anni La vita in diretta e passa a Uno Mattina. Al suo posto Lamberto Sposini, che riporterà il programma sulla cronaca, allontanandosi finalmente dalla deriva gossipara di cucuzziana memoria. La rete più frizzante e sperimentale si conferma ancora una volta Rai Due, diretta dall’ottimo Antonio Marano. Simona Ventura resta la punta di diamante con Quelli che il calcio e L’Isola dei famosi; confermato Annozero di Santoro e ancora più spazio per Gene Gnocchi, che abbinerà ad Artù (condotto con Elisabetta Canalis), una rubrica di libri che si chiamerà Il criticone. Il pomeriggio della Rete Due cambia volto. L’Italia sul Due va in soffitta e arriva Italia allo specchio, condotto dall’ex pupilla di Emilio Fede Francesca Senette.
Sempre più cultura, invece, su Rai Tre. L’ex TeleKabul conferma la contestata rivoluzione in seconda serata: si farà, infatti, il programma satirico di Serena Dandini, sacrificando lo scialbo approfondimento di Primo Piano. Spazio alle news regionali alle 7.30 del mattino e a una night line di informazione che suona tanto come un contentino alla delusissima redazione del Tg3. La rete punterà ancora una volta su Fabio Fazio e sul suo Che tempo che fa, che affiancherà alla sua collocazione abituale del weekend anche otto prime serate speciali nel corso della stagione. Confermato anche Alberto Angela e il suo programma di divulgazione scientifica in prima serata. Le novità sono due e non di poco conto: sbarca in tv l’osannatissimo autore di Gomorra Roberto Saviano, curatore di tre docufiction dedicate a storie di mafia; e poi tre seconde serate dedicate a Michelangelo firmate Dario Fo. Questo, in linea di massima, il nuovo palinsesto Rai, completato come di consueto da numerose fiction di peso (Coco Chanel, Einstein, I Vicerè, Paolo VI, Pinocchio, Puccini, tra le altre). Una nuova offerta televisiva in chiaroscuro, che segna ancora di più i paletti tra le tre reti di Stato. Se Rai Uno punta a consolidare la sua tradizionale vocazione moderata e familiare riproponendo vecchie minestre riscaldate e rassicuranti, infatti, Rai Due continua la strategia sperimentale che così tanto successo ha avuto negli ultimi anni. Niente di nuovo, infine, per Rai Tre. La Terza Rete continua a prediligere servizio pubblico e approfondimento, cultura e qualità.
Ma quando si parla di Rai, si sa, non ci si può limitare a considerazioni esclusivamente televisive o culturali. I destini dei palinsesti della tv di Stato sono da sempre legati a doppio filo con l’evoluzione del quadro politico. Il dato più evidente sembra essere l’assoluto pluralismo dell’offerta, con i personaggi vicini alla sinistra che non perdono spazi, ma che anzi avanzano all’interno del palinsesto. Chi temeva epurazioni e nuovi editti bulgari è rimasto deluso. La speranza di tutti è che il palinsesto Rai possa continuare ad essere plurale e variegato, in modo tale che la tv di Stato, cioè la prima industria culturale del Paese, possa finalmente affrancarsi dai deleteri tentacoli del potere politico, di qualsiasi colore esso sia.

venerdì 13 giugno 2008

Manolete, ricordi di una Spagna sparita

Ideazione.com
13 giugno 2008

Alle cinque della sera del 28 agosto 1947, come è d’abitudine, Manuel Rodríguez Sánchez, detto Manolete, cominciò la sua ultima corrida. Di fronte aveva Islero, un toro miura di 700 chilogrammi. Proprio nel momento in cui doveva concludersi, con la morte del toro, il crudele e incomprensibile rituale così caro agli spagnoli, l’animale, debole e ferito ma non domo, reagì e con un cornata interruppe la vita di uno dei più grandi toreri di tutti i tempi. Manolete fu per la Spagna quello che Bartali fu per l’Italia. Se il nostro toscanaccio, infatti, evitò una guerra civile vincendo il Tour nel giorno dell’attentato a Togliatti, il toreador andaluso cementò una nazione distrutta dalla guerra civile che segnò la definitiva vittoria del caudillo Franco. Viso scavato, figura esile, occhi profondissimi, Manolete rimarrà nell’immaginario collettivo un personaggio mitico, per sempre circondato da un alone di gloria tipico dei toreador più grandi. E non si poteva evitare, dunque, la trasposizione cinematografica di una vita così breve (morì a 30 anni) eppure ricca di eroismo.
L’idea di fare un film è vecchia. Già venti anni fa, lo sceneggiatore olandese Menno Meyjes si era innamorato della figura del toreador andaluso, del suo sguardo triste, da predestinato. La lentezza nella preparazione del film è stata, in questo caso, una benedizione. Venti anni fa Meyjes non avrebbe potuto trovare il clone cinematografico di Manolete, il suo alter ego, la sua reincarnazione. Stiamo parlando di Adrien Brody, premio Oscar meritato per Il Pianista di Roman Polanski, che ha interpretato il torero nel film finito di girare lo scorso anno in Spagna. Al suo fianco, e non poteva essere altrimenti, la splendida Penelope Cruz, nel ruolo dell’innamoratissima Lupe Sino. Dopo molti rinvii, a volte inspiegabili, sembra che la pellicola possa finalmente sbarcare al cinema nel prossimo ottobre, facendo uscire dai confini spagnoli una figura mitica che il mondo ignora. A prescindere dalle idee di ciascuno in merito alla cruenta tradizione di matar los toros, nessuno potrà rimanere impassibile di fronte a una storia così avvincente e profondamente “spagnola”. C’è la passione, c’è l’amore, c’è un’incredibile carica emotiva. C’è tutto quello, insomma, che viene attribuito ai popoli latini.
E c’è soprattutto la bravura degli attori e la loro profonda immedesimazione nei personaggi. Basti pensare, lo racconta lo stesso protagonista, che durante la lavorazione del film, in Spagna, molti anziani salutavano Adrien Brody con un malinconico e significativo Hola Manolete, que tal?, a dimostrazione che l’attore è riuscito a risvegliare ricordi antichi di una Spagna che non c’è più. Nel Paese di Zapatero, dell’uguaglianza a tutti i costi fino al limite del grottesco, del progresso galoppante che calpesta le radici, questo film potrà forse fermare, anche per un solo momento, il rumoroso caravanserraglio e far riflettere un popolo che sta smarrendo la propria identità. Non basta continuare a trucidare animali la domenica pomeriggio, né continuare a ballare il flamenco per ritrovare le proprie radici. Personaggi come Manolete hanno letteramente costruito la Spagna, regalandole un po’ di speranza nel buio periodo franchista. Recuperando la memoria di gente come lui, gli spagnoli potrebbero recuperare anche la consapevolezza che il passato non si cancella mai e che ciò che sono diventati è anche merito di quel passato. Niente escluso.

venerdì 6 giugno 2008

Austria e Svizzera, il calcio torna nel cuore d'Europa

Ideazione.com
6 giugno 2008

La carovana del pallone fa tappa sulle Alpi. Da domani al 29 giugno, infatti, Austria e Svizzera ospiteranno i Campionati europei di calcio, trasformando il Vecchio Continente in un’immensa curva di stadio. Saranno venti giorni di calcio, ovviamente, ma non solo. Qualsiasi evento sportivo di questa portata comporta anche risvolti economici, sociali, culturali, politici. E per Svizzera e Austria questo è il periodo migliore (o peggiore, dipende dai punti di vista) per mostrarsi al mondo. La piccola e ricca Svizzera, pur essendo sede dei più importanti organismi mondiali dello sport, non ospita una manifestazione sportiva importante addirittura dal 1954, quando i Mondiali di calcio videro l’affermazione della Germania contro la corazzata ungherese di Puskas. Gli svizzeri, si sa, non amano apparire. Preferiscono coordinare, tessere, costruire in silenzio e nell’ombra. Ma l’ormai stantìo cliché dei banchieri, degli orologiai e dei maitres chocolatiers non regge più. La Svizzera di oggi è diversa dalle cartoline alpine e dai luoghi comuni. Nonostante la proverbiale discrezione, la scelta neutrale in tutto e per tutto, la confederazione elvetica non si è potuta sottrarre all’arrembante globalizzazione.
E non parliamo solo di economia, anche perché in quel campo la Svizzera è globale da sempre. Ci riferiamo soprattutto al fenomeno migratorio, allo spostamento di centinaia di migliaia di persone verso quella terra di benessere e ordine che è sempre stata la Svizzera. Ma il piccolo Paese incastonato tra le Alpi non è l’Italia, né la Francia o la Spagna. Non ha storicamente una cultura dell’apertura, non ha avuto forti contaminazioni nel corso della sua storia. La sua conformazione geografica ne ha sempre preservato l’unicità. Almeno fino a quando trasporti e telecomunicazioni non hanno stravolto tutto. E oggi gli svizzeri si trovano a dover fare i conti con una società multietnica difficile da gestire. Soprattutto se consideriamo che la Confederazione ha già dentro di se un insieme di sentimenti regionalisti dettati dalla composizione culturale e linguistica della nazione. Ma proprio in un momento del genere, l’appuntamento con l’Europeo può servire da stimolo. Sociale, culturale ma anche, e soprattutto, economico. Innanzitutto il grande pubblico calcistico scoprirà posti da sogno che di solito non fanno parte delle mete preferite. Paesaggi alpini, piccole città ordinate e pittoresche eppure ricche di fermento culturale. I barbari (se così possiamo amichevolmente definire i tifosi) approdano sulle Alpi. E l’incontro sarà certamente positivo sia per loro che per chi li ospiterà.
L’Austria, invece, attende l’Europeo con ancora maggior frenesia. Forse perché il popolo austriaco è più cosmopolita (è pur esempre erede del grande Impero Austro-Ungarico), forse perché culturalmente l’Austria ha da offrire qualcosa in più, almeno per quanto riguarda i percorsi culturali di massa. Non solo Vienna, comunque. E la cosa potrebbe stupire i giovani tifosi che toccano il suolo austriaco soltanto per visitare la giovane e vitale capitale. Città come Innsbruck, Klagenfurt o Salisburgo forse non dicono nulla alle rumorose carovane pallonare. Eppure sono centri di eccellenza in ambito turistico-culturale. Dei veri e propri paradisi per chi cerca tradizione coniugata alla modernità, alta cultura e sensibilità nei confronti delle ultime tendenze. Salisburgo, ad esempio, è da sempre conosciuta come patria di Mozart e sulla figura del grande compositore ha vissuto per secoli. Eppure la città austriaca è anche molto altro. E i tifosi potranno approfittare del Campionato europeo per scoprirlo. L’Austria è pronta quindi a farsi conoscere, a rilanciare la sua immagine di culla di cultura e tradizione. Con un occhio strizzato anche alle nuove generazioni, perché in fondo a Vienna e dintorni molto è cambiato dall’epoca di Sissi e di Franz.
E’ poi è anche il momento di ripulire un’immagine internazionale recentemente macchiata da due storie di cronaca raccapriccianti che hanno scosso le sonnolenti coscienze del popolo austriaco. Prima la vicenda di Natascha Kampusch, la graziosa ragazza (oggi ventenne) rinchiusa per otto anni dal suo aguzzino. E poi, solo qualche mese fa, la terribile storia di un padre che ha segregato e violentato per ventiquattro anni la figlia, rendendola madre sette volte. Ma l’Austria non solo è questo. E generalizzare dei pur macabri episodi di cronaca non fa bene all’Austria, alla sua secolare storia di tolleranza e contaminazione culturale, di quell’inclusione tipica dell’Impero asburgico, e tantomeno a un’Europa che ha bisogno di un’Austria forte e positiva che faccia da ponte verso l’est, verso quei Paesi emergenti che vedono in Vienna un punto di riferimento per congiungersi definitivamente con l’altra metà d’Europa. Austria e Svizzera, dunque, sono pronte a rafforzare la loro immagine di cuore d’Europa, di crocevia di interessi economici e culturali. Senza dimenticare la leggerezza di un calcio al pallone che anche in questo caso, come sempre, riesce a travalicare i limiti di un terreno di gioco e a contaminare tutto ciò che lo circonda.

Vallanzasca, una vita da film

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6 giugno 2008

Il bel René sbarca al cinema. Stiamo parlando ovviamente di Renato Vallanzasca, il bandito della Comasina, da trentacinque anni in galera per scontare le sue innumerevoli malefatte. Portare sul grande schermo la vicenda umana e criminale di un uomo come Vallanzasca cinematograficamente è un mossa azzeccata. La vita e le “opere” dell’affascinante milanese che faceva girare la testa alle donne sono da sempre circondate da un alone di fascino e mistero. Non di compiacente giustificazione, ovviamente, perché i delitti di Vallanzasca sono tanti e gravi. Ma il regista Marco Risi, non nuovo a operazioni del genere, ha deciso di puntare sulla sua storia, che a prescindere da un evidente giudizio morale negativo, somiglia tanto a quella degli affascinanti e spietati gangster americani.
Dopo Romanzo criminale, dopo le rievocazioni degli anni di piombo, dopo che sulla mafia è stato girato tutto o quasi, tocca al paria del crimine, dunque. Vallanzasca, infatti, non ha mai goduto nemmeno di un minimo di comprensione, né di disponibilità al perdono. Forse perché non era membro di un’organizzazione grande e radicata, forse perché non aveva motivazioni ideologiche. Era semplicemente un bandito. Punto. Il film, dunque, probabilmente farà rumore. Quasi di sicuro qualcuno dirà che è troppo accomodante, giustificatorio, assolutorio. Qualche associazione di familiari delle vittime farà sentire il proprio comprensibile sdegno, i politici magari si accapiglieranno sull’opportunità o meno di concedere la grazia al bel René. Ma l’attesa che più ci interessa è quella cinematografica, artistica e narrativa. Il primo passo sembra essere stato azzeccato. A interpretare Vallanzasca, infatti, è stato chiamato Riccardo Scamarcio, punta di diamante (forse un po’ sopravvalutata) della generazione di giovani attori italiani. La scelta di Scamarcio, anche evitando di parlare delle sue doti artistiche, è perfetta. L’attore pugliese ha il physique du role, somiglia vagamente al bello e dannato René, tutto crimini e donne. Ma l’apparenza non basta, soprattutto al cinema. Scamarcio dovrà rendere credibile il personaggio, dovrà riuscire a calarsi in una realtà che non ha conosciuto e che certamente non è facile da riprodurre. In fondo, però, il mestiere dell’attore è proprio quello.
Per quanto riguarda l’impianto narrativo del film, le premesse sono incoraggianti. Della sceneggiatura, infatti, si occuperanno Angelo Pasquini e Andrea Purgatori, collaudatissimi narratori del nostro cinema. E Marco Risi, nonostante qualche flop di troppo che ne ha appannato la verve, rimane comunque un regista di razza, sicuramente adatto a trasformare in film una storia come quella di Vallanzasca. La storia che sarà raccontata prende le mosse da Lettera a Renato, libro scritto dall’attuale compagna del bandito della Comasina, Antonella D’Agostino. Sembra che René, dalla sua cella nel carcere di Opera, abbia apprezzato la scelta di Scamarcio e forse spera in questo film per rilanciare la questione della grazia. In un Paese in cui gli assassini scontano la pena nei residence in riva al mare o al massimo passano in carcere una decina d’anni, la vicenda di Vallanzasca assume un significato grottesco. Il film servirà a qualcosa in questo senso? Forse no. Ma probabilmente ne verrà fuori una gran bella opera cinematografica. E non è poco.

mercoledì 4 giugno 2008

Ahmadinejad e Mugabe: attenti a quei due

Ideazione.com
4 giugno 2008

A qualcuno interessano le nuove strategie mondiali contro la fame? O il rilancio dell’agricoltura per incrementare la produzione alimentare e sconfiggere la crisi devastante che sta colpendo varie zone del mondo? Sembrerebbe di no, visto che del vertice Fao in corso a Roma si parla quasi esclusivamente per la presenza imbarazzante dei presidenti di Iran e Zimbabwe, Ahmadinejad e Mugabe. Soprattutto il primo ha scatenato la reazione sdegnata di gran parte dell’opinione pubblica e della classe politica del nostro Paese. Si parlava di un incontro tra il leader di Teheran e Berlusconi, e addirittura di un’udienza ufficiale in Vaticano. Voci subito smentite, che hanno fatto crescere ancora di più il clima bipartisan di ostilità nei confronti dell’autoritario presidente dell’antica Persia. Il Riformista, diretto da Antonio Polito, ha organizzato una manifestazione in Campidoglio contro Ahmadinejad e a favore di un Iran libero e democratico, ponendo l’accento sulle minacce nei confronti di Israele (“Sta per sparire dalle carte geografiche”, ha tuonato di nuovo due giorni fa Ahmadinejad), sull’assoluta mancanza di libertà e diritti civili nel Paese mediorientale, sulle discriminazioni e uccisioni di decine di omosessuali. L’appello di Polito ha raccolto molte adesioni che sottolineano una trasversalità forse senza precedenti nel nostro panorama politico. Dal ministro degli Esteri Franco Frattini, al suo omologo-ombra Piero Fassino, dal sindaco di Roma Gianni Alemanno al suo avversario Francesco Rutelli, e poi Pera, Cicchitto, Gasparri, Pollastrini, Della Vedova, Pezzotta, Bernardini, Nirenstein, La Malfa, Boniver, Bianco, Stefania Craxi, Vernetti, Zingaretti, Bonanni. E non potevano ovviamente mancare alcune associazioni omosessuali come GayLib, o organizzazioni e gruppi ebraici come la Comunità di Roma, l’Ucei (Unione comunità ebraiche italiane), i Giovani Ebrei italiani.
Una manifestazione affollata, dunque, che chiede niente più che attenzione nei confronti della dittatura, ormai davvero malcelata, di Teheran. Blocco immediato del nucleare, contrasto della condotta antiisraeliana di Ahmadinejad, impegno affinché l’Iran non influenzi in maniera nefasta la situazione già fragile in Libano, Iraq, Afghanistan e Palestina. Colpisce, e non potrebbe essere altrimenti, l’adesione di Franco Frattini, un ministro degli Esteri che per un attimo dimentica la diplomazia e il realismo per esprimere pieno appoggio ad una iniziativa che lascia poco spazio agli equilibrismi da feluca e alla difesa dei corposi interessi economici. Ma alcuni commentatori, seppur da posizioni diverse tra loro, avrebbero preferito un atteggiamento differente del governo nei confronti del presidente iraniano. E’ il caso, ad esempio, di Alberto Negri (il Sole 24 Ore) e Lucio Caracciolo (la Repubblica). Il primo avrebbe visto di buon occhio un incontro al vertice tra il nostro governo e il presidente iraniano, durante il quale esprimere nettamente e senza distinguo le nostre posizioni critiche nei confronti del suo regime. Negri sottolinea anche il rapporto privilegiato che da sempre esiste tra Italia e Iran e soprattutto l’incredibile volume di affari tra Roma e Teheran. Un rapporto privilegiato che, secondo il commentatore del Sole, avrebbe dovuto convincerci ancora di più della necessità di dialogare. Improntato al realismo più pragmatico è invece l’intervento su Repubblica del direttore di Limes. Caracciolo dice, testualmente, che “la tradizione diplomatica occidentale ci insegna che con il Diavolo si può dialogare. Anzi, si deve quando in gioco ci sono interessi e valori vitali”. Sarà, ma la politica italiana stavolta ha scelto la via della fermezza, senza concedere nulla al galateo diplomatico. Con Ahmadinejad non si parla. Almeno finché il presidente iraniano non smetterà di portare avanti una politica aggressiva e destabilizzante per il Medio Oriente in particolare e per tutto il mondo in generale. E lo hanno voluto ribadire anche gli ebrei romani, che ieri hanno inscenato una estemporanea e pacifica manifestazione nei pressi della sede Fao di Roma. Non mancavano, e questa è una notizia positiva, nemmeno alcuni iraniani dissidenti che vivono in esilio.
Ma la querelle su Ahmadinejad rischia di farci dimenticare un’altra presenza altrettanto scomoda al vertice Fao: quella di Robert Mugabe, padre-padrone di uno Zimbabwe ormai in ginocchio. Le recenti elezioni, svoltesi in un clima di intimidazione e paura, hanno riproposto agli occhi del mondo una situazione che non si può più fare a meno di affrontare. L’assoluta mancanza di democrazia e la disastrosa crisi economica hanno ormai letteralmente annientato il Paese africano. Non si tratta più di agire con tempestività per scongiurare un disastro. Il peggio è già avvenuto. Inflazione a molti zeri, violenze continue, repressione dell’opposizione. Ma solo Gran Bretagna e Australia hanno fino ad oggi preso una posizione chiara e netta nei confronti di Mugabe. Proprio il premier inglese Gordon Brown ha voluto sottolineare come la presenza del dittatore africano al vertice Fao sia “particolarmente incresciosa”, soprattutto se si pensa che proprio Mugabe ha ostacolato in ogni modo gli approvvigionamenti alimentari del suo Paese. Il resto dell’Occidente, loquace più del dovuto quando si parla di Iran, sullo Zimbabwe non va oltre le solite frasi di circostanza. Forse perché l’Iran conta di più (soprattutto economicamente), forse perché l’Africa è ormai uscita dall’agenda delle cancellerie occidentali (con un evidente vantaggio ricavato dall’attivissima azione neocoloniale di Pechino). Fatto sta che lo Zimbabwe, tra una carestia e una repressione, non riesce a catalizzare a dovere l’attenzione del mondo.  La Fao vetrina di dittatori e pericolosi presidenti autoritari, dunque? Sembrerebbe di sì, ma non è la prima volta che succede. Stavolta, però, almeno una consistente parte dell’opinione pubbilca italiana sembra essersi svegliata. Il successo dell’iniziativa del Riformista ne è la prova evidente. Ora tocca ai governi occidentali tradurre questa indignazione in azioni concrete.