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giovedì 16 aprile 2009

Emo, quindicenni esclusi sì... ma con stile

Ffwebmagazine
aprile 2009

Dimenticate le cripte polverose e buie, scordatevi i canini aguzzi e il mantello demodé. Basta paletti di frassino e collane d’aglio. Il vampiro del terzo millennio è cambiato, e il merito è tutto del fenomeno letterario-cinematografico del momento: la saga di Twilight, nata dalla penna di Stephenie Meyer. La giovane scrittrice americana, infatti, si è inventata, non senza un furbo ammiccamento alle mode giovanili del momento, un vampiro teenager, bellissimo, che ama le macchine sportive e vive, nonostante i suoi novant’anni, tutte le dinamiche e i problemi dell’universo adolescenziale statunitense.

Il successo planetario dei quattro romanzi ("Twilight", "New Moon", "Eclipse" e "Breaking Dawn") e del primo film ha creato un vero e proprio fenomeno di costume, che va al di là del semplice boom commerciale. Più di un critico, soprattutto in Italia, ha parlato di “Moccia all’americana”, di bassa letteratura per adolescenti in crisi di identità. La saga di "Twilight", che racconta la difficile storia d’amore (e morte) tra il vampiro Edward Cullen e la timida e problematica umana Bella Swan, è ben altro. È innanzitutto lo specchio dei tempi, una cartina di tornasole che ci può raccontare di quei milioni di adolescenti che nel mondo si sono avvicinati al lifestyle emo.

Si tratta di una derivazione di costume e di musica del punk degli anni Ottanta: ciuffone laterale, occhi truccati di nero, pelle bianchissima, jeans stretti e aderenti, fisico più esile possibile. Per questo motivo, c’è chi ironicamente preferisce parlare di emaciati, più che di emo. E poi c’è anche l’umore cupo, una certa “poetica” del vivere malinconicamente, una pericolosa attrazione per la morte. Ecco spiegata, dunque, la rinascita del genere “vampiresco” nella pop culture del Duemila. L’ultima ondata dai denti aguzzi era stata quella provocata da Dracula, lo splendido film di Francis Ford Coppola del 1992 con Gary Oldman e Winona Ryder. E qualche anno dopo, il serial tv Buffy l’Ammazzavampiri aveva timidamente riproposto il tema in chiave contemporanea, nonostante i cliché del sole che fa evaporare, del paletto nel cuore e dei canini aguzzi, tutta roba sparita nel nuovo “vampirismo” di Twilight.

Ma qual è il legame tra il vampirismo di Twilight e il fenomeno emo? A parte i vampiri, che oseremmo definire i padri di tutti gli emo, anche la protagonista del romanzo, Bella Swan, potrebbe essere ascritta a questa categoria. Capelli scuri, pelle chiarissima, forti difficoltà di comunicazione e socializzazione con le classiche figure standard dei teenagers americani (la cheerleader, lo sportivo, il secchione, la reginetta della scuola). Se non è emo, poco ci manca. E il clima cupo e piovoso di Forks, la cittadina dello Stato di Washington che fa da scenario alle vicende del romanzo, mette la classica ciliegina sulla torta. Il tutto è così cupo, così dark, così gothic, che è addirittura il vampiro a portare un po’ di allegria, di luce, di voglia di vivere nella vita di Bella. Basti pensare alla casa in cui vive la famiglia di vampiri: niente manieri spettrali e oscuri, ma una splendida abitazione ultramoderna sulle rive di un fiume, con grandissime vetrate e arredamento all’ultimo grido. E poi il vampiro di Twilight non si squaglia al sole, anzi, i raggi a contatto con la sua pelle provocano uno strabiliante effetto iridescente. Eppure nel libro c’è malinconia, inquietudine. Perché?

Sarà pure un luogo comune che viene ritirato fuori ogni generazione, ma gli adolescenti dei nostri tempi, in effetti, vivono una situazione emozionale e sociale al limite dell’isolamento volontario. Si sentono così poco capiti dal mondo che li circonda, che si chiudono completamente a ogni rapporto con l’esterno. E internet, ovviamente, ha aiutato questa “deriva”. Anzi, potremmo dire che l’ha fatta letteralmente esplodere. Proprio le community virtuali sono gli unici, o quasi, luoghi di socializzazione, seppur filtrata, asettica, fredda e fuorviante. Tre anni fa fece scalpore, ad esempio, il caso di un ragazzo emo che aveva annunciato su MySpace il proprio suicidio. Da allora altri casi del genere sono stati riportati dai mass media, che si sono sempre più occupati del fenomeno.

Se persino il patinato Time qualche tempo fa ha analizzato la cultura (o sottocultura?) emo, vuol dire che gli effetti sulla società giovanile ci sono e si fanno sentire. L’isolamento emo è prima di tutto emozionale. Il disagio esistenziale viene sfogato attraverso la musica e l’abbigliamento, con pochissimo spazio per il confronto diretto, il dialogo. C’è anche chi ha parlato, a questo proposito, di un’evoluzione à la page dei nerd, gli esclusi dalla massa, magari perché troppo bravi a scuola o semplicemente perché non rientrano nei canoni di bellezza dei nostri tempi. Anche il concetto del reietto, dunque, seguirebbe i dettami della moda. Esclusi sì, ma con stile.

La storia di Bella è la catarsi dell’emo attraverso qualcosa che all’apparenza è più oscuro di lei (il vampiro). È il fondo del barile che si raschia fino a quando è possibile solo la risalita. E forse il successo planetario della saga deriva proprio da questo, dalla speranza che Stephenie Meyer regala a un’intera generazione confusa. Una generazione che somiglia sempre più a quella degli anni Ottanta, uscita fuori con le ossa rotte dai periodi di impegno politico e che ha ricevuto il colpo di grazia dalle droghe (eroina in primis). Oggi il “buco” non va più di moda. Ma ci sono droghe (anche metaforicamente parlando) ugualmente pericolose. E quella piccola speranza è la benzina che fa andare avanti questi ragazzi che credono, anche grazie a Twilight, che persino l’oscurità (esteriore o interiore che sia) può essere d’aiuto per venire fuori dal tunnel dell’incomunicabilità. Saranno anche fenomeni da quindicenni, ma analizzarli con l’occhio scevro da ogni pregiudizio snob e radical chic forse può aiutarci a capire una generazione sempre più incomprensibile.

mercoledì 15 aprile 2009

L'eredità scomoda di un anticonformista

Ffwebmagazine
15 aprile 2009

Un “giornalistaccio” come nessuno prima di lui e tantomeno dopo: questo era Indro Montanelli, nato il 22 aprile di cent’anni fa. Rizzoli celebra il centenario mandando alle stampe I conti con me stesso, raccolta inedita dei suoi diari dal 1957 al 1978, offrendo ai lettori la conferma di ciò che Montanelli è stato nel panorama giornalistico e culturale del paese. Nessuna rivelazione inattesa, nessuno scoop sulla vita del fondatore de Il Giornale. Quello che viene fuori dai diari è il solito Montanelli fustigatore dei conformisti, nemico giurato di quei salotti borghesi di sinistra, nei quali, annota Indro, «si è brindato all’attentato contro di me e deplorato solo il fatto che me la sia cavata». E poi una carrellata di ritratti al vetriolo dei suoi avversari, da Moravia a Scalfari, da Bocca a Ottone.

L’anticonformismo montanelliano, peraltro usato e abusato da chi vuole tirare il giornalista per la giacca anche da morto, è la cifra del personaggio. Come ha spiegato Giovanni Marinetti in un articolo del 27 gennaio scorso su Ffwebmagazine, questa caratteristica fondamentale del carattere di Montanelli si è palesata nei suoi ripetuti “tradimenti”: al fascismo prima, al Corriere poi, a Berlusconi per ultimo. I tradimenti del giornalista di Fucecchio avevano in sé una coerenza, una linea di condotta che rimaneva uguale a sé stessa anche dopo scelte radicali. Erano gli ideali di Indro a tradirlo, non il contrario. Fu così, ad esempio, per il Corriere della Sera, divenuto negli anni Settanta un ricettacolo di progressisti filocomunisti vicini alla sinistra extraparlamentare, così distanti dalla tradizione liberale di via Solferino. E la nascita de Il Giornale va considerata come un atto dovuto, un gesto d’amore proprio per quella tradizione. Il tradimento, semmai, fu quello di Ottone e Giulia Maria Crespi, che avevano snaturato l’essenza del Corriere per adeguarla al conformismo di quell’epoca.

Ma quell’avventura donchisciottesca è stata già raccontata centinaia di volte, anche da chi ne fu testimone e protagonista. Quello che ci interessa adesso è cercare di cogliere appieno l’eredità eretica di Montanelli, il suo lascito culturale, conteso da sciacalli del pensiero. Fa specie, ad esempio, considerare Travaglio o la sinistra girotondina eredi di Indro. Si tratta, infatti, di esempi inarrivabili di quel conformismo che il giornalista non solo avversava ma, diciamolo pure con franchezza, detestava in modo viscerale. E allora come è potuto succedere che il giornalistaccio toscano sia caduto nella trappola di questa sinistra conformista? Anche questo è un effetto della sua coerenza. Allorquando decise di osteggiare apertamente la discesa in campo del suo editore (Silvio Berlusconi, ça va sans dire), Montanelli si trovò, forse suo malgrado, al fianco dei Travaglio, dei Moretti, dei Flores d’Arcais. Gente che in una situazione “normale”, avrebbe combattuto con il veleno della sua formidabile penna.

E allora è da smontare il mito dell’ultimo Montanelli di sinistra, folgorato dall’idea progressista come un moribondo viene folgorato dalla fede sul letto di morte. L’ultimo Montanelli ha seguito solo la sua strana ma incontestabile coerenza. Con buona pace di chi gli ha ritagliato uno spazio improbabile nel Pantheon gauchista, magari gli stessi che trent’anni fa brindavano alla gambizzazione brigatista sulle comode e ipocrite poltrone di Inge Feltrinelli o Gae Aulenti.

E di conseguenza, è bene sottolinearlo, ha torto anche chi, da destra, giustifica la svolta montanelliana del 1994 con un semplice effetto da rincoglionimento senile, una perdita di senno fisiologica per un grande vecchio della sua età. E invece no: nonostante la lotta pluridecennale con la depressione, nonostante i cambi di umore repentini, nonostante gli attacchi d’ira tipicamente toscani, Indro Montanelli non ha mai perso il senno, né tradito le proprie idee. Così come il Sole sta fermo al centro dei pianeti che girano attorno a esso, Montanelli era lì, saldamente ancorato ai propri valori, con gli altri comprimari della sua vita che si allontanavano per poi riavvicinarsi ciclicamente. Speriamo lo capisca chi si arroga l’assurdo diritto di avocare a sé l’esperienza intellettuale montanelliana. E, dall’altro lato, anche chi lo ha rinnegato troppo in fretta, solo perché il grande Indro ha deciso di seguire la stella polare della sua coerenza, senza piegarsi alle contingenze politiche del momento.