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sabato 25 luglio 2009

Il Principe mezzosangue e l'inizio della fine

Ffwebmagazine
25 luglio 2009

Nove milioni di euro dopo cinque giorni di programmazione in Italia, quasi 160 milioni di dollari negli Stati Uniti. Il responso del box office, come era facilmente prevedibile, arride all’ultimo film della saga di Harry Potter, Harry Potter e il principe mezzosangue. Dopo le cinque precedenti pellicole che hanno quasi tutte sfiorato il miliardo di dollari di incasso totale, pare che l’ultima fatica del maghetto di Hogwarts possa finalmente raggiungere l’ambizioso obiettivo. Eppure, le reazioni non sono state molto benevole e, per una volta, hanno messo d’accordo critici e spettatori. Da Paolo Mereghetti, critico cinematografico del Corriere della Sera, giù fino all’ultimo fan di un qualsiasi forum sul web, è tutto un fiorire di commenti negativi. Eppure, per chi ha letto il libro di J.K. Rowling, questo capitolo cinematografico trasferisce sullo schermo in modo efficace il cambiamento radicale che colpisce i protagonisti. Sono lontane le atmosfere preadolescenziali del primo film, Harry Potter e la Pietra filosofale, e non potrebbe essere altrimenti. E sono state accantonate anche le sfumature dark-gothic delle ultime due pellicole.

Il Principe mezzosangue è l’inizio della fine, un capitolo di passaggio, in tutti i sensi, dalla lotta “quotidiana” tra Bene e Male allo scontro finale, alla resa dei conti, che vedremo nei due episodi di Harry Potter e i doni della morte. Il passaggio, nella pellicola diretta da David Yates (regista televisivo al quale si è affidato un compito molto gravoso), c’è tutto e si vede. Irrompono in maniera decisa, ad esempio, i problemi sentimentali di Harry, Ron ed Hermione. Dal primo, sempre più innamorato di Ginny Weasley ed eroe romantico dell’intera saga, non si può pretendere nulla di diverso da un amore puro e senza pruriginose deviazioni adolescenziali. Ron, invece, in quanto antieroe e amico “umano, troppo umano” di Potter, può permettersi una focosa avventura tutta baci e languidi sospiri con Lavanda Brown. E poi c’è Hermione, l’algida secchiona che scopre il suo amore per Ron e si scioglie in un pianto che rende il suo personaggio completo.

Ma se gli ormoni finalmente si svegliano tra gli austeri corridoi di Hogwarts, sceneggiatori e regista riescono anche a infilarci un po’ di droga, seppure in maniera “magica” e simbolica e sotto forma, appunto, di pozioni. Prima Ron viene avvelenato, per sbaglio, da un bicchiere di sidro offerto dal professor Lumacorno e le immagini ricordano allo spettatore una classica scena da overdose (bava alla bocca, occhi all’indietro, crisi cardiaca). Poi Harry prende una pozione “portafortuna” e l’effetto ricorda molto quello dell’Lsd o di un qualsiasi altro acido allucinogeno. In entrambi i casi, ça va sans dire, non si tratta affatto di una esaltazione dell’esperienza stupefacente ma si può parlare di una scelta azzeccata e, perché no, pedagogica. In fondo Harry & Co. hanno 17 anni, vivono in Inghilterra e devono rappresentare, seppur sotto forma di fiaba per ragazzi, anche le problematiche tipiche della loro generazione. Soprattutto di una generazione, quella inglese degli anni che stiamo vivendo, che fa dello sballo (non solo a base di droga ma anche, e soprattutto, di alcool) una regola di vita. Chi, anche solo da turista, ha avuto modo di respirare per un po’ l’aria londinese, si è potuto rendere conto di quanto sia importante per i giovani britannici il momento di evasione dalla realtà indotto dal consumo di sostanze che alterano lo stato di coscienza. E se persino in un film come questo si fa cenno al fenomeno, vuol dire che il problema esiste e va affrontato. L’espressione inebetita di Harry dopo aver preso la “pozione” potrebbe essere utilizzata dalle autorità inglesi per una efficace campagna di comunicazione. E chi ha passeggiato per Soho o Tottenham Court Road durante il weekend quell’espressione la conosce benissimo.

Il resto del film, si diceva, rappresenta la preparazione agli ultimi capitoli della saga. Chi ha letto il libro lo sa perfettamente e francamente non si poteva chiedere di più al povero Yates, che peraltro si trova a dover reggere il confronto con due mostri del cinema come Mike Newell e Alfonso Cuaron, che hanno diretto i precedenti film del maghetto. Ma se le reazioni negative dei critici a un film del genere potevano essere messe in conto, quello che sorprende maggiormente è la freddezza dei fan, anche quelli più sfegatati. Forse si era creata e consolidata un’immagine troppo scanzonata e fanciullesca del personaggio creato da J.K. Rowling, forse anche in questo film ci si aspettava il Mantello dell’invisibilità o qualche strana creatura allevata da Hagrid, o qualche altro esilarante incantesimo scagliato contro gli odiosi zii di Harry. No, non è più tempo di gigioneggiare. Il gioco si fa duro e Harry deve, persino obtorto collo, cominciare a “giocare” seriamente. C’è da salvare il mondo, ancora una volta. Ma in quest’occasione non ci sarà appello, né possibilità di cavarsela grazie all’aiuto di saggi e venerabili maestri. La perenne lotta tra Bene e Male, poi, nei libri e nei film sul maghetto assume una forma particolare.

Tutto è giocato sul filo, pochi sono i personaggi nettamente ascrivibili a una delle due categorie. Persino Albus Silente, integerrimo preside di Hogwarts e mentore di Potter, ha avuto in passato dei momenti di pericoloso contatto con il lato oscuro. Altro che magia, dunque. Tutto è umano come nella nostra vita di ogni giorno. Nessuno è un eroe o un mostro a prescindere. Sono le scelte del singolo, e non una banale predisposizione genetica o caratteriale, a spingere ciascuno di noi verso il Bene o il Male e persino queste etichette non possono considerabili eterne e immutabili. La forza dei libri della Rowling, in fondo, è proprio quella di aver parlato delle debolezze umane (soprattutto quelle che riguardano i giovani) attraverso lo strumento immaginario e immaginifico della magia.

Da Harry Potter e i doni della morte (diviso in due film la cui uscita è prevista per il 2010 e il 2011) ci aspettiamo ovviamente di più. L’affannosa e angosciante ricerca degli Horcrux (gli oggetti all’interno dei quali Voldemort ha nascosto la sua anima), la furiosa rottura tra Harry e Ron, l’epico scontro finale dentro il castello di Hogwarts, alcune morti toccanti e dolorose: tutti passaggi narrativi che per forza di cose dovranno trovare una efficace rappresentazione cinematografica. Se David Yates riuscirà nell’impresa, persino i feroci critici del Principe mezzosangue potrebbero apprezzarlo. Intanto, in attesa della fine, accontentiamoci di quest’ultimo capitolo della saga che si appresta a polverizzare ogni record al botteghino.

sabato 18 luglio 2009

Ridere dei gay? E' molto peggio l'ipocrisia

Ffwebmagazine
18 luglio 2009

In Italia deve ancora arrivare (l’uscita nelle sale è prevista per ottobre) ma Bruno, l’ultimo film di Sacha Baron Cohen, ha fatto già discutere mezzo mondo. Primo ai botteghini americani (30,5 milioni di dollari nel primo weekend di programmazione), la pellicola del creatore di Borat ha innescato, forse ad arte, una polemica dal sapore antico, che fa a pugni con l’impostazione politically correct di questo inizio di secolo: si può ridere dei gay?

Sembrerebbe una domanda retorica, dalla risposta affermativa pressoché scontata. Se non fosse, però, che si va a toccare uno dei nervi scoperti della società, un tema che paradossalmente può essere ancora considerato un tabù. Bruno, il protagonista del film, è un giornalista di moda gay e fashion victim, che ripropone in chiave esasperata lo stereotipo dell’omosessuale effeminato, appariscente, disimpegnato e superficiale. Né più né meno, insomma, dell’immagine che i media usano ancora oggi quando vogliono mostrare al loro pubblico l’universo gay. E allora le polemiche da cosa nascono? Cosa si contesta a Baron Cohen? Secondo alcuni gruppi di attivisti omosessuali americani e inglesi, il rischio sarebbe quello di tornare indietro e di perdere tutto ciò che di positivo aveva fatto il “movimento” per cancellare l’immagine macchiettistica dei gay, facendo irrigidire il pubblico eterosessuale e cancellando gli effetti dello sdoganamento graduale dell’universo Glbt.

Ma se, come dicevamo prima, l’immagine mediatica che i gay danno di se stessi è molto simile a Bruno, il problema qual è? Forse è semplicemente il fatto che Sacha Baron Choen è eterosessuale e quindi non è “legittimato” a sfottere i gay. In fondo, fino a pochi anni fa, il giusto senso di colpa della società aveva provocato qualcosa di simile nei confronti degli ebrei. Solo gli stessi ebrei potevano permettersi satira, battute e comicità sul loro mondo. Gli altri dovevano trattare il tema con la massima cautela, per non rischiare di essere tacciati di antisemitismo. Successe una cosa simile persino al Benigni de La vita è bella, criticato all’epoca da più parti per aver ridicolizzato e banalizzato la Shoah.

Si tratta, oggi come allora, di un eccesso di zelo buonista. Non perché non si debba rispettare la battaglia che da quarant’anni (dalla rivolta dello Stonewall in poi) i gay stanno combattendo per l’affermazione dei loro diritti più essenziali. Però è ridicola l’attenzione quasi maniacale nei confronti di minoranze che non dovrebbero essere alla ricerca sfrenata del bollino di tutela, nemmeno fossero gli ultimi panda delle foreste cinesi. L’universo gay, che è ovviamente molto più complesso e sfaccettato di come si autorappresenta, non deve aver paura di un film come quello di Sacha Baron Cohen. Paradossalmente, al contrario, il successo che in pochi giorni la pellicola ha riscosso dimostra che l’omosessualità non è più un argomento da evitare.

Quarant’anni fa era impensabile un’operazione cinematografico-commerciale come questa. E la satira un po’ greve e dozzinale del comico inglese non scalfisce le conquiste di una lotta lunga e dolorosa. Dovrebbero preoccuparsi, piuttosto, i residui sussulti omofobici che percorrono la nostra società. Come i partecipanti a una manifestazione a favore della Proposition 8 (la proposta che ha proibito i matrimoni gay in California) che stavano quasi per linciare Baron Cohen davanti alle telecamere.

Si può ridere dei gay, insomma? Sì, anzi si deve. Perché la sacrosanta voglia di normalità che pervade gli omosessuali di tutto il mondo (la stragrande maggioranza dei quali non si sente affatto rappresentata dalle associazioni di “categoria”) passa anche attraverso l’autoironia. Anche perché ciò non equivale a rappresentare tutti i gay come Bruno. Ed è altrettanto lapalissiano che deve continuare l’impegno per i diritti civili in tutti i paesi che discriminano, in maniera più o meno grave, le persone omosessuali. E nel nostro paese servirebbero dieci, cento, mille Bruno per schiaffeggiare finalmente il torpore ipocrita che su questo tema attanaglia la società e le forze politiche. Tutte, nessuna esclusa.