Ffwebmagazine
6 giugno 2010
Più del fratello, scelto dal destino (e dal padre) come punta di diamante della famiglia. Più di tutto il resto dell'America liberal degli anni Sessanta. Più di tutto, più di tutti, Robert Francis Kennedy, classe 1925, cadetto della potentissima famiglia cattolica del Massachussets, ha segnato un'epoca, ha contribuito a costruire un intero immaginario culturale e politico che ha contraddistinto gli anni più tumultuosi (ed esaltanti) dell'epopea americana del XX secolo.
Quegli otto anni di differenza rispetto a JFK (il presidente ucciso a Dallas era nato nel 1917) lo costrinsero a un ruolo apparentemente di secondo piano. Doveva lavorare, questo era stato il compito affidatogli da papà Joseph, per portare il fratello maggiore alla Casa Bianca. Era l'ossesione del patriarca dei Kennedy, l'obiettivo di una vita, il fine ultimo verso il quale erano stati rivolti tutti gli sforzi della famiglia. Eppure Bobby aveva già iniziato una brillante carriera quando John era ancora senatore: negli anni Cinquanta aveva fatto parte del Subcomitato permanente del Senato per le investigazioni diretto dal senatore McCarthy e alla fine dello stesso decennio si era distinto per essersi schierato contro il discusso sindacalista Jimmy Hoffa durante i lavori della Commissione antiracket.
Poi le dimissioni, per dedicarsi anima e corpo alla campagna presidenziale del fratello maggiore, la vittoria risicata contro Nixon e l'inizio dell'epopea kennediana. Ministro della Giustizia durante l'amministrazione di John, Robert Kennedy era considerato da molti la vera anima del governo democratico, il deus ex machina di un'operazione che era culturale e di immagine, oltre che politica.
Gli anni di Kennedy alla Casa Bianca, lungi dall'essere quel perfetto quadretto iconico che è stato dipinto da una certa stampa agiografa, rappresentarono comunque uno spartiacque decisivo nel modo di intendere la vita e la politica al di là dell'Atlantico. E i frutti si videro dopo quel 23 novembre 1963, dopo l'uccisione a Dallas del presidente americano. Paradossalmente, una immensa tragedia familiare aveva permesso la liberazione di Robert dal ruolo di secondo piano al quale era stato relegato dagli eventi. Ora era libero di lasciare il governo (aveva accettato di diventare ministro solo perché doveva), di non nascondere l'avversione verso il neopresidente Johnson, di impegnarsi in battaglie che già dalla Casa Bianca aveva abbozzato.
A cominciare da quella dei diritti civili, che era stata uno dei leitmotiv della campagna presidenziale kennediana e che tuttavia non era ancora stata portata a termine. I rapporti strettissimi con il reverendo Marthin Luther King sono la prova di un chiodo fisso coraggioso e, per i tempi, rivoluzionario. Il cattolico, bianco, ricchissimo e privilegiato Robert Kennedy si schierava apertamente con i milioni di neri che in quegli anni sfidavano consuetudini e razzismo, Ku Klux Klan e segregazionismo per aprire una pagina nuova nella storia americana. E fu lui, il 4 aprile del 1968, a scendere in strada e annunciare la morte del reverendo King, a invitare alla calma i neri pronti alla rivolta, in barba alla non violenza, per sfogare la frustrazione e la disperazione di una generazione che sognava di liberarsi dalle paradossali catene schiaviste del paese più democratico al mondo, a più di un secolo dalla vittoria degli antischiavisti di Abramo Lincoln. Due mesi dopo, però, Robert Kennedy doveva raggiungere il fratello John e Martin Luther King nel Pantheon degli eroi americani degli anni Sessanta.
Los Angeles, notte tra il 4 e il 5 giugno 1968. Bobby ha vinto, poche ore prima, le primarie presidenziali in California, quasi un'ipoteca sulla nomination democratica. Si festeggia all'Hotel Ambassador, si celebra l'ennesima resurrezione del sogno americano, l'incredibile affermazione di un'America rivoluzionaria per i tempi che si stavano vivendo. C'era il Vietnam, c'erano i diritti civili, c'erano i giovani delle università che protestavano e mettevano a ferro e fuoco i campus della West Coast. E Bobby era la carta, forse l'ultima, per venirne fuori, per istituzionalizzare lo scontento, per portarlo a Washington con più decisione e coerenza rispetto alla precedente esperienza di JFK.
Ma torniamo all'Ambassador: si festeggia, dicevamo. E alla fine di una notte lunghissima ma esaltante, Bobby va via, passa per le cucine, saluta amici e cuochi, sostenitori e camerieri. Poi i colpi di pistola, sparati da Sirhan Sirhan, giordano di origine palestinese, sotto gli occhi di giornalisti e telecamere. Si ripete il frustrante dramma dell'America che sembra sempre sul punto di svoltare ma poi alla fine cede e deve ricominciare da capo. Bobby muore il giorno dopo, e con lui se ne va la possibilità di chiudere un periodo orribile della storia americana.
Muore Kennedy, un altro Kennedy. Ma non muore l'idea di un'America più giusta e onnicomprensiva, un'America in cui davvero tutti gli uomini nascono uguali e hanno tutti il diritto a ricercare la felicità. Non muore quell'American dream che oggi, quarant'anni dopo, si è incarnato (forse un po' frettolosamente) in Barack Obama. Quell'anelito alla pax democratica che Bobby era riuscito a sintetizzare citando una calzante frase di George Bernard Shaw: «Ci sono coloro che guardano le cose come sono, e si chiedono perché..... Io sogno cose che non ci sono mai state, e mi chiedo perché no».