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mercoledì 10 dicembre 2008

E ora l’immondizia invade e soffoca la Calabria

L'Opinione
10 dicembre 2008

Napoli respira, la Calabria rischia l’asfissia. Dopo la difficile soluzione del problema campano, sbarca in riva allo Stretto l’allarme rifiuti. Le strade della provincia di Reggio Calabria cominciano ad essere invase da sacchetti di immondizia e i cittadini cominciano ad avvertire il rischio di una situazione simile a quella napoletana.
I grandi media nazionali, però, sembrano non avere la stessa sensibilità dimostrata in precedenza e centinaia di migliaia di persone stanno affrontando un problema di difficile soluzione. La causa scatenante di una situazione già difficile da mesi è il niet della discarica di Rossano a ospitare l’immondizia del reggino una volta esaurita la disponibilità delle discariche di Marrella di Gioia Tauro e Casignana.
L’amministrazione del centro cosentino sta opponendo una strenua resistenza all’osservanza di un accordo precedente che prevedeva l’arrivo dei rifiuti reggini e il commissario straordinario nominato dal governo, l’ex prefetto di Reggio Calabria Goffredo Sottile, tenta una mediazione timida tra le proteste di decine di sindaci.
A capeggiare la rivolta del reggino è Antonio Caridi, assessore all’Ambiente del comune di Reggio Calabria, durissimo nei confronti di Loiero e della giunta regionale: “ Reggio e la sua provincia non hanno bisogno della solidarietà di nessuno. Vogliamo che siano rispettati i nostri diritti e pretendiamo l’immediata apertura della discarica di Rossano.
Da parte del governatore Loiero ci aspettavamo una presa di posizione chiara e decisa, invece l’ordine del giorno trasmesso al prefetto Sottile non fa nessuna menzione della discarica di Rossano, ma parla più genericamente di discariche calabresi”. Loiero, intanto, nicchia e non si vede all’orizzonte una pronta soluzione della questione.
Mentre politici e amministratori discutono, cominciano a formarsi i primi cumuli per le strade in centri importanti del reggino, come Gioia Tauro, che ospita uno dei porti più importanti del Mediterraneo. Oltre il danno di una vicenda pericolosa per il decoro e la salute dei cittadini, la beffa del silenzio mediatico.
Nessun riflettore illuminerà lo Stretto così come è successo per il golfo di Napoli. Nella settimana consacrata a Vladimir Luxuria e alla questione morale nel Pd, a chi poteva interessare l’ennesima emergenza nella regione più povera del Paese? Il mutismo dei grandi giornali e dei telegiornali nazionali è segno di un isolamento di cui la Calabria soffre da decenni e nessuno ha parlato di consiglio dei ministri a Reggio Calabria o altre iniziative eclatanti.
La trattativa tra Rossano, Regione, commissario straordinario e provincia di Reggio continuerà nei prossimi giorni in un clima di tensione e confusione. Se non ci sarà un intervento risolutivo da Roma sarà davvero ardua una pronta risoluzione della questione. E il silenzio assordante di queste settimane può voler dire due cose: o della Calabria non importa davvero niente a nessuno o è tutto strumentale all’imposizione di finanziamenti per strutture anti-emergenza che a quelle latutidini, purtroppo, sarebbero preda del malaffare e della criminalità organizzata.

sabato 25 ottobre 2008

Il Gossip di Stato dei laburisti

L’isola di Corfù, uno yacht, qualche miliardario e un paio di politici influenti. Sono questi gli ingredienti dello scandalo, o presunto tale, che sta scuotendo la politica inglese. Nell’occhio del ciclone sono finiti i conservatori, che sembrano (o sembravano?) destinati a tornare trionfalmente a Downing Street alle prossime elezioni generali.
Tutto è cominciato con una lettera di Nathaniel Rothschild al Times, nella quale il miliardario rendeva conto di quattro incontri (avvenuti nel giro di un weekend) tra il multimiliardario russo Deripaska e il cancelliere ombra George Osborne. Poco male, fatti suoi. E invece no, se è vero che Osborne, nel corso degli incontri, avrebbe chiesto un finanziamento illecito al Partito Conservatore di 50.
000 sterline. In realtà pare che sia tutto un enorme polverone per screditare i lanciatissimi Tories. La “donazione”, proibita in Inghilterra se proveniente da cittadini stranieri, non c’è stata e di conseguenza “nessuna legge è stata violata”, come ha affermato persino il laburista Tony Wright, in controtendenza rispetto al suo partito e allo stesso Gordon Brown, che già ha chiesto a gran voce un’inchiesta del Parlamento.
Inchiesta o meno, il polverone è stato già fomentato a dovere da media e politici laburisti.
David Cameron, leader tory e probabile prossimo primo ministro, ha difeso strenuamente l’operato del suo cancelliere-ombra, negando con fermezza qualsiasi addebito a lui attribuibile. Ma in Inghilterra, evidentemente, basta una flebile voce per scatenare un urlo disumano. La base conservatrice non ha apprezzato il presunto scandalo e da più parti si chiedono le dimissioni di Osborne da cancelliere-ombra.
E anche la vecchia guardia tory sembra non aver gradito. Molti protagonisti dell’epoca Thatcher, ad esempio, hanno espresso il loro disappunto per una vicenda che macchia l’onore del partito conservatore. L’inconsistenza delle accuse è così evidente che probabilmente i conservatori stanno tentando soltanto di evitare grane in vista delle prossime elezioni.
Dopo 11 anni di opposizione, vogliono comprensibilmente stravincere. Fa riflettere non poco, piuttosto, l’uscita di Rothschild. Il miliardario, amico di vecchia data di Osborne, ha probabilmente preso parte a una specie di “complotto” politico mirato a screditare i tories. Resta da capire l’effetto che questa vicenda riuscirà a provocare.
E’ pressoché impossibile, tuttavia, che il polverone maturato in terra greca possa scalfire le probabilità di vittoria dei conservatori alle prossime elezioni. Con buona pace di Gordon Brown e di chi sperava in un tardivo colpo di coda.

mercoledì 15 ottobre 2008

Al Maliki è convinto che le truppe inglesi non servano più

L'Opinione
15 ottobre 2008

“Grazie, ma non ci servite più”. E’ chiaro il messaggio di Nouri Al Maliki, primo ministro iracheno, nei confronti delle truppe inglesi presenti nel Sud del Paese. La presa di posizione, attraverso un’intervista concessa al Times, ha avuto molta eco sui giornali d’oltremanica, e da molti è stata considerata come un segno di ingratitudine verso un esercito che ha lasciato sul campo, dal 2003 ad oggi, 176 vittime.
La decisione di ridurre drasticamente la presenza britannica in Iraq era già stata pianificata da Gordon Brown. Entro il prossimo anno, infatti, la maggior parte delle unità inglesi (4000 uomini) torneranno a casa, lasciando solo un piccolo gruppo che non sarà impegnato nei combattimenti, ma solo nel supporto alle truppe locali.
Tuttavia, i negoziati per il ritiro tra Baghdad e Londra non sono ancora iniziati e solo dal 31 dicembre, data in cui terminerà il mandato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, le truppe straniere dovranno rinegoziare la loro presenza o lasciare il Paese. Anche su questo punto al Maliki è stato perentorio: “Una volta che il mandato Onu terminerà, le forze britanniche perderanno la loro copertura legale e dovranno lasciare l’Iraq”.
Ma sotto accusa è soprattutto la gestione della zona di Bassora, che negli ultimi tempi è stata di nuovo presa d’assalto da ribelli, milizie irregolari e bande di criminali.
A scatenare la ripresa della guerriglia, secondo al Maliki, è stata la decisione presa lo scorso anno, e giudicata prematura dal primo ministro di Baghdad, di spostare le truppe da un palazzo in centro all’aeroporto della città. “I soldati inglesi si sono chiamati fuori dal confronto militare e questo ha permesso a miliziani e criminali di riprendere il controllo della città”.
Al Maliki, tuttavia, sa che non può fare a meno del supporto inglese e si esibisce in un goffo equilibrismo dialettico: “Nonostante i disaccordi su alcune questioni, l’Iraq è aperto alle compagnie e aziende britanniche”. Le reazioni all’intervista dei lettori inglesi sono di diverso segno.
Molti sono sempre stati contrari all’intervento, tutto qua. C’è anche chi, però, chiede garanzie al governo di Baghdad. La loro richiesta, in sostanza, è la seguente: “Il primo ministro ci dimostri di volere e sapere badare al suo popolo. Ci mostri come intende ricostruire l’economia, come difendere i cittadini iracheni dai terroristi.
Se ci riuscirà andremo via con molto piacere. Ma fino a quel momento, l’esercito inglese rimarrà lì, a difendere il diritto alla democrazia dell’Iraq e del suo popolo”.

giovedì 2 ottobre 2008

Sulla crisi finanziaria i Tories collaborano con Gordon Brown

L'Opinione
2 ottobre 2008

“I will not play politics with economy”. E’ stato chiaro David Cameron, arrembante leader dei Tories e probabile prossimo inquilino di Downing Street. Nessuna speculazione politica, dunque, infetterà la già difficile situazione economica d’Oltremanica. Al contrario, durante una conferenza stampa che ha interrotto la convention conservatrice di Birmingham, Cameron ha annunciato che il suo partito è pronto a collaborare con il governo di Gordon Brown per affrontare le catastrofi recenti della finanza mondiale.
“Siamo tutti sulla stessa barca e tutti insieme troveremo una strada per superare la crisi”. Più che ai preoccupatissimi banchieri, Cameron si è rivolto soprattutto alla gente comune, assicurando un impegno continuo e costante per salvare risparmi e posti di lavoro. Prima le tasche dei cittadini, dunque, e poi i grandi colossi finanziari che continuano pericolosamente a traballare anche nella City.
Ma in un periodo in cui tutti sembrano rifugiarsi negli effimeri stratagemmi dell’intervento statale, il leader conservatore ha voluto precisare che rimane un sostenitore del libero mercato, del quale si conoscono “forze e debolezze”.
Questa crisi, ha continuato, “non deve essere usata per annichilire il libero mercato ma per riformarlo”. E non è una dichiarazione da poco, visti i tempi che corrono. La stampa inglese, nel frattempo, da conto dell’impegno “personale” di Gordon Brown nel corso degli ultimi concitatissimi giorni.
Il premier sta tentando di salvare alcuni colossi bancari fondamentali per la stabilità finanziaria del Regno Unito e ha annunciato “decisioni importanti per combattere la crisi”. Schiacciato com’è tra crisi economica e fronde interne al New Labour, a Gordon Brown il soccorso “tory” di David Cameron farà sicuramente comodo.
Potrà almeno condividere scelte importanti e impopolari in un Paese che dalla Thatcher in poi era stato abituato bene in quanto a liberalismo applicato all’economia. Il primo ministro laburista ha voluto coinvolgere nei colloqui di questi giorni anche Nick Clegg, leader dei liberaldemocratici, a riprova che il momento richiede quanta più unità possibile, non solo tra i due partiti principali.
Ma David Cameron ha voluto anche fugare ogni dubbio su possibili inciuci: “Arriverà il momento di fare i conti, ma ora bisogna pensare alla sicurezza e alla protezione dei cittadini. Lavorare in maniera bipartisan non è solo una cosa ragionevole, è soprattutto una cosa necessaria”. Per qualcuno, però, la mossa di David Cameron ha un chiaro intento politico.
Dopo gli ultimi interventi pubblici di Brown, i laburisti hanno recuperato terreno nei sondaggi, pur restando distanziati di nove punti dai conservatori.
L’approccio deciso e risoluto dell’inquilino di Downing Street nei confronti della crisi finanziaria sembra aver rassicurato molti elettori. Il 47% degli inglesi, infatti, vuole che il successore di Blair resti al suo posto per fronteggiare il periodo difficile, temendo che un altro premier non abbia la stessa esperienza e competenza.
Il Guardian, quotidiano con dichiarate simpatie laburiste, ha presentato il sondaggio affermando come gli elettori intenzionati a votare per i Tories non si sentano sicuri in materia economica. E David Davis, ex leader tory, ha richiamato l’attenzione del partito sui temi economico-finanziari, fino ad oggi troppo trascurati da Cameron e dalla sua squadra.
Ed è ancora Davis che, in un’intervista al Telegraph, non fa certo un favore al suo leader: “Cameron – ha detto l’attuale Segretario di Stato del governo ombra – deve ancora sviluppare la giusta politica economica e fiscale per affrontare la grave crisi globale”. Che il discorso conciliante di Birmingham sia un tentativo per correre ai ripari?

martedì 30 settembre 2008

Neanche Harry Potter può salvare i laburisti dalla crisi interna

L'Opinione
30 settembre 2008

Il congresso annuale di Manchester, sul modello spettacolare delle convention americane, non ha sanato i problemi dei Laburisti inglesi. Gordon Brown, in fortissima crisi di consensi, ha tentato la carta dell’unità, dell’esperienza e dei frutti positivi di undici anni di governi laburisti a Downing Street: “E’ in momenti di incertezza come questi che noi dobbiamo essere e saremo come una roccia per stabilità e correttezza, cui la gente potrà appoggiarsi.
Voi sapete dove ho sbagliato, ammetto i miei errori e mi impegno a rimediare”. Un messaggio chiaro, rivolto più agli avversari interni che ai conservatori. Il problema più impellente dei Laburisti, infatti, non è tentare un difficile recupero nei sondaggi (i Tories di David Cameron godono di un solido vantaggio a doppia cifra), bensì ricucire i pericolosi strappi interni.
Il rischio, come proprio la recente storia del partito Conservatore insegna, è quello di una lunga fase di torpore e di oblio, dalla quale sarà difficile venir fuori. Ma la professione di umiltà di Mr. Brown non sembra aver sortito gli effetti sperati. Proprio nelle ore del congresso, infatti, il ministro dei Trasporti Ruth Kelly ha rassegnato le dimissioni, ufficialmente “per passare più tempo con la famiglia”.
Sarà anche vero, ma la defezione della quarantenne Kelly rimane comunque un ulteriore segno di debolezza di un partito che rischia la deriva del “si salvi chi può”, con i maggiorenti pronti ad abbandonare la nave prima che si inabissi completamente.
E non aiuta certo a placare gli animi inquieti dei Laburisti l’ascesa di David Miliband, ministro degli Esteri e rivale interno di Brown. La sfida è aperta in vista delle prossime elezioni generali, che si svolgeranno al più tardi nella primavera del 2010. Ma l’acceso dualismo laburista rischia di avere un esito clamoroso: il ritorno di Tony Blair.
In molti lo invocano, nella speranza di invertire un trend disastroso che, allo stato attuale, non ammette possibilità di recupero nei confronti del rampante David Cameron. Intanto i giornali d’Oltremanica attaccano ferocemente il governo, chiedendo a gran voce l’uscita di scena di Brown. Sul Times, ad esempio, due columnist di diversa estrazione politica tracciano un quadro impietoso.
Si tratta di Daniel Finkelstein, ex collaboratore dell’ultimo premier conservatore John Major, e Alice Miles, giovane editorialista di talento, vincitrice nel 2007 del premio Columnist of the Year. Finkelstein, memore dell’esperienza conservatrice vissuta in prima persona, mette in guardia i laburisti: “La crisi attuale non è l’inizio della fine di Gordon Brown.
E’ l’inizio della fine del New Labour”. Ma la parte più interessante dell’analisi è quella che “scagiona” la crisi economica internazionale dall’accusa di essere la causa principale del crollo del governo. “Le due cose non hanno niente a che vedere tra loro. L’impopolarità del governo parte da molto lontano.
Per vincere ancora – conclude Finkelstein – il partito Laburista deve cambiare. E per cambiare deve accettare le critiche degli elettori ai suoi fallimenti”.
Non è meno dura la disamina di Alice Miles, con la differenza che in questo caso si auspica una veloce e onorevole exit strategy per Gordon Brown e un ricambio della leadership laburista. “Brown è un brav’uomo, ma non può guidare il Labour alle nuove elezioni. Non può comunicare, né ispirare.
E’ il lord Voldemort del partito Laburista, che invece ha bisogno del suo Harry Potter”. L’ironico paragone con il cattivissimo personaggio della saga del maghetto occhialuto non è casuale. Proprio pochi giorni fa J.K. Rowling aveva annunciato la donazione di un milione di sterline (1,4 milioni di euro) ai laburisti.
Tra fronde interne e attacchi mediatici, Gordon Brown cerca di sopravvivere alla “tempesta perfetta” che si sta abbattendo sul suo governo. David Cameron, invece, si gode i frutti del suo paziente lavoro di ricostruzione dei Tories e attende il momento in cui un esponentente del partito Conservatore tornerà a varcare la soglia del numero 10 di Downing Street.

sabato 20 settembre 2008

Se l’America piange, l’Inghilterra non ride

L'Opinione
20 settembre 2008

La crisi finanziaria iniziata con il flop dei mutui subprime americani sta facendo sentire i suoi effetti negativi anche sull’altra riva dell’Atlantico. Ed è ovviamente l’Inghilterra, nazione economicamente molto legata agli Stati Uniti, a subire le conseguenze peggiori. Dopo gli anni rampanti di Tony Blair, il successore Gordon Brown si trova ad affrontare una situazione economica complicata.
E’ notizia di questi giorni, ad esempio, che il tasso di disoccupazione in Gran Bretagna ha raggiunto il 5,5%, un livello che non si toccava da dieci anni, cioè dall’inizio dell’era Blair. Gli inglesi senza lavoro sono quasi due milioni e nell’ultimo anno c’è stato un incremento dello 0,2%.
Un altro sintomo non certo positivo dello stato del mercato del lavoro d’Oltremanica è l’aumento vertiginoso delle richieste di sussidio di dissocupazione. Nel solo mese di agosto, infatti, sono pervenute 32.500 richieste, facendo salire il numero di beneficiari a 904.000. Stephen Tims, Ministro del lavoro del Governo Brown, si è affrettato a rassicurare l’opinione pubblica: “Come gli altri Paesi, il Regno Unito sta affrontando le sfide dell’economia globale, ma il nostro mercato del lavoro rimane resistente.
Rispetto allo scorso anno ci sono 333.000 persone in più che lavorano e 600.000 posti disponibili”. Sarà anche vero, ma la notizia dell’ulteriore aumento della disoccupazione non farà bene a un Gordon Brown già alle prese con un calo di consensi preoccupante in vista delle prossime elezioni generali.
Il successore di Blair a Downing Street paga anche lo scotto della crisi economica mondiale, ma è innegabile che il New Labour attraversa ormai una crisi difficile da risolvere in breve tempo. Dopo l’esplosione della stella Blair e la sua positiva cura (più lib che lab) che ha risollevato le sorti dell’opaca Inghilterra di John Major, il Paese sembra essere diventato immune all’ormai stantìa ricetta laburista.
Brown lo sa, e nonostante l’affannosa ricerca di vie d’uscita, difficilmente riuscirà a respingere l’attacco di un sempre più popolare David Cameron, artefice di un miracoloso svecchiamento di immagine e di programma del compassato Partito Conservatore. Ma la disoccupazione non è l’unica grana di fine estate che Gordon Brown sta affrontando.
Dopo il disastroso crollo della banca americana Lehman Brothers, sono in molti a temere ripercussioni gravi sulle rive del Tamigi. La banca inglese specializzata in mutui Hbos, ad esempio, è stata salvata in extremis grazie all’intervento di Lloyds Tsb. Per spingere la trattativa ancora lunga e complicata è intervenuto lo stesso Gordon Brown, che ha incontrato Sir Victor Blank, presidente di Lloyds.
Nei prossimi giorni si conoscerà l’esito della trattativa e intanto, negli uffici della City, tremano le gambe a molti.

venerdì 11 luglio 2008

The Dark Knight e "l'effetto Corvo"

Ideazione.com
11 luglio 2008

The Dark Knight, ultimo capitolo cinematografico della saga di Batman, sta arrivando. Negli Stati Uniti il debutto è previsto per il 18 luglio, mentre in Italia arriverà il 23. Si tratta del sesto film della lunga e fortunata serie dedicata all’uomo-pipistrello, cominciata nel 1989 con la regia di Tim Burton e l’interpretazione di Michael Keaton. Nel 1997, con George Clooney nei panni dell’eroe di Gotham City, la saga si era interrotta, forse perché ormai logora e non molto apprezzata dal pubblico. Nel 2005, però, il regista Christopher Nolan ha tentato, con successo, il rilancio di un personaggio che aveva perso molto del suo smalto. Con Christian Bale come protagonista, Batman Begins è riuscito a rinverdire i fasti del passato, complice soprattutto la galoppante moda hollywoodiana di prendere spunto dai supereroi dei fumetti. E oggi, tre anni dopo, Nolan ci riprova con un film decisamente diverso dai precedenti. Atmosfere cupe, psicologie dei personaggi complesse e a volte spaventose, un cast di stelle da grande kolossal. Oltre a Bale, infatti, ci saranno Michael Caine, Maggie Gyllenhaal, Gary Oldman, Morgan Freeman. E poi lui, Heath Ledger, il giovane attore australiano morto prematuramente, nei panni profetici e tormentati del Joker.
La presenza di Ledger, in realtà, ha contribuito non poco a creare un’attesa spasmodica e quasi morbosa nei confronti di una pellicola sicuramente ben fatta, ma che senza l’improvvisa scomparsa del protagonista di Brokeback Mountain non avrebbe avuto di certo un’eco di tali dimensioni. E’ la maledizione del Corvo. In quel caso la storia era ancora più suggestiva, visto che Brandon Lee morì proprio durante le riprese, a causa di uno strano incidente con una pistola di scena, legando indissolubilmente la propria immagine a quella del già tenebroso personaggio filmico. Ma la morte di Ledger, in realtà, sembra comunque connessa in qualche modo a The Dark Knight. Pare che il ventottenne attore australiano avesse preso troppo a cuore l’immedesimazione nel carattere diabolico del Joker. Ne viene fuori, a quanto pare, un personaggio psicologicamente disturbato, pieno di devianze mentali e di crudeltà. E pare che Heath, negli ultimi mesi della sua breve vita, abbia sofferto moltissimo la pesantezza del personaggio interpretato.
Che sia vero o no, fatto sta che la storia ha appassionato i fan, batmaniaci e non, creando attorno alla pellicola un alone di macabro mistero. Conoscendo un po’ l’establishment cinematografico di Hollywood, possiamo dire con comoda certezza che i produttori non saranno molto dispiaciuti della situazione. Il successo al botteghino è garantito, se è vero che moltissime sale statunitensi hanno già programmato aperture speciali a partire dalle sei del mattino. Solite manie esagerate a stelle e strisce? Può darsi, ma i miti di celluloide nascono così. Il film, per chi l’ha visto, meriterebbe comunque un successo planetario a prescindere dai risvolti mortiferi. Ma in questo caso la valutazione qualitativa vale ben poco. Senza ipocrisie dovremmo ammettere che la leggenda del Cavaliere Oscuro nascerà da una serie di situazioni che con la settima arte c’entrano poco o niente. E pazienza se ancora una volta si parlerà poco di sceneggiatura, fotografia, montaggio o colonna sonora. Quando subentra l’elemento mitico il cinema diventa, se è possibile, un mondo ancora più affascinante e misterioso. Qualcuno parlerà di strumentalizzazione di una morte prematura, soprattutto nei circoli della critica radical chic. Ma al pubblico, come sempre accade, tutto questo importerà pochissimo. Chi si metterà in fila dalle sei del mattino per vedere il canto del cigno di Heath Ledger, se ne infischierà della critica colta e vorrà essere soltanto partecipe dell’ennesima e misteriosa leggenda nata (o morta) sul grande schermo.

venerdì 4 luglio 2008

Mamma mia! E' musical mania

Ideazione.com
4 luglio 2008

Mamma mia! Ed è davvero un’esclamazione appropriata per commentare l’arrivo sul grande schermo dell’acclamatissimo musical di Broadway basato sulle musiche degli Abba. Dal 2001 il mitico Winter Garden Theatre di New York registra il tutto esaurito per una produzione che è ormai entrata nell’Olimpo dei più grandi musical della storia. E non poteva assolutamente mancare, dunque, l’approdo al cinema. Il cast è di tutto rispetto e le aspettative al botteghino sono altissime. Meryl Streep nel ruolo della stralunata madre, Colin Firth e Pierce Brosnan in quelli dei possibili padri. Una storia molto divertente, allegra, scanzonata, ambientata in una splendida isola greca. Le musiche degli Abba, poi, non hanno bisogno di molti commenti. La band svedese ha regalato al mondo alcuni dei pezzi più amati della musica pop, che a distanza di trent’anni ancora appassionano persino chi all’epoca non era ancora nato.
Il musical è stato rappresentato, oltre che a New York, in molte altre città del mondo, meritandosi anche la traduzione in giapponese, russo, tedesco, spagnolo e coreano. Sono più di venti milioni gli spettatori che hanno assistito allo spettacolo e la tendenza sembra essere positiva, tant’è che qualcuno già parla di un nuovo Cats, che ha chiuso i battenti a Broadway nel 2000 dopo diciotto anni di repliche ininterrotte. Il film, la cui prima mondiale è andata in scena il 30 giugno scorso a Londra, durante l’estate esordirà in molti Paesi. Tra luglio e agosto, infatti, sarà la volta di Grecia, Belgio, Australia, Norvegia, Gran Bretagna, Danimarca, Svezia, Germania, Spagna, Olanda, Austria, Stati Uniti, Egitto, Repubblica Ceca, Brasile, Argentina, Messico, Israele. E l’Italia? Nel nostro Paese, si sa, l’estate cinematografica è alquanto avara. Non c’è spazio per un’uscita del genere, così attesa e di sicuro successo al box office. I distributori italiani hanno paura di bruciare un evento del genere durante una stagione così fiacca per le sale di casa nostra. Dovremo aspettare, dunque, il prossimo 3 ottobre. Come sempre figli di un Dio minore, come sempre in ritardo sugli eventi culturali che investono il mondo.
Nel frattempo, però, possiamo prepararci al grande giorno visitando il sito ufficiale italiano del film, molto ricco, ben fatto e pieno di sezioni interessanti. Dal trailer ai quiz, dai test ai wallpaper da scaricare, il sito ci accompagnerà durante i tre mesi che ci separano dall’esordio nelle nostre sale. Ma qualcosa la possiamo già dire: Meryl Streep, che già avevamo apprezzato in ruoli brillanti in film come She, Devil, La morte ti fa bella e Il Diavolo veste Prada, conferma ancora una volta la propria duttilità. Non c’è copione che sposti di una virgola il suo talento, che sia un film drammatico o una commedia. Colin Firth, invece, è naturalmente a suo agio. In fondo, nonostante l’alone shakespeariano e impegnato dell’attore inglese, il grande pubblico lo ha conosciuto grazie a film come Il diario di Bridget Jones e Love Actually. C’è molta curiosità, invece, di vedere all’opera Pierce Brosnan, che dopo James Bond (e forse anche prima, in verità) non ha ancora offerto interpretazioni degne della sua fama.
Un altro musical che sbarca al cinema, dunque, a conferma di una tendenza che da qualche anno si è fatta sempre più evidente. Da sempre, in realtà, Hollywood attinge da Broadway: basti pensare a film come A Chorus Line, Il Fantasma dell’Opera, Evita, Jesus Christ Superstar, Chicago, Rent, senza andare ancora più indietro fino a West Side Story e dintorni. L’ultima opera cinematografica tratta da un musical di successo era stato Hairspray, a sua volta remake di un film cult degli anni Ottanta. E Mamma mia!, musical recente, che non vanta una tradizione pluridecennale come altri capolavori di Broadway, con la trasposizione cinematografica completa il suo percorso di “canonizzazione”. E’ ormai parte della storia della grande tradizione del musical americano, grazie soprattutto alle immortali canzoni degli Abba, il cui contributo è basilare per il successo dell’opera teatrale prima e del film oggi.

venerdì 27 giugno 2008

La commedia sexy all'italiana

Ideazione.com
27 giugno 2008

A cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, il cinema italiano ha prodotto una quantita smisurata di film eroticomici, inaugurando la stagione lunga e fortunata della commedia “del buco della serratura”. Stiamo parlando, ovviamente, del filone che da Banfi in poi, passando per Renzo Montagnani e Alvaro Vitali, ha fatto urlare la critica al sacrilegio, alla decadenza artistica e morale della nostra arte cinematografica. In effetti, a essere sinceri, le commedie erotiche dell’epoca non erano certo dei capolavori. La trama, ad esempio, era quasi sempre uguale: un uomo brutto, magari calvo e grassoccio, è preside di una scuola, colonnello dell’esercito, medico o cose del genere. Il tipico piccolo borghese frustrato, insomma, sposato con una donna corpulenta e petulante. A un certo punto fa il suo ingresso il personaggio chiave: la bella di turno. Che si trattasse di Gloria Guida, Barbara Bouchet, Anna Maria Rizzoli, Nadia Cassini o della regina del genere Edwige Fenech, poco importa. Quello che conta, almeno per lo sviluppo della traballante trama, è la serie di avventure erotiche e goffe che questo ingresso innesca. Ovviamente, quasi sempre l’uomo di mezza età andava in bianco, a vantaggio di aitanti giovanotti, spesso studenti di liceo o al massimo militari di leva, che riuscivano a conquistare (certo non con metodi romantici) la bellona di turno.
Immancabile era la scena della doccia, che ha reso celebre soprattutto l’oggi compassata madame Fenech, allora vera e propria icona erotica di un’intera generazione. La conturbante doccia era spesso inquadrata da un buco di una serratura, a rimarcare l’alto contenuto voyeuristico di quei film. E possiamo dire senza paura di essere smentiti che migliaia di giovani italiani hanno ricevuto la prima infarinatura di educazione sessuale grazie alla perizia con la quale le attrici curavano la loro igiene personale,. Trent’anni fa, in effetti, l’Italia era un Paese ancora percorso da pressanti istinti bigotti. Era l’epoca della gioventù ribelle, è vero, ma milioni di ragazzi, che magari vivevano in un paesino della Bassa o nella Sicilia più profonda, di sesso ne sapevano poco o niente. Ed ecco, allora, che il Lino Banfi eternamente “arrapeto” diventava una sorta di Virgilio, una guida nazionalpopolare nel girone di una lussuria ancora tabù.
Lo stesso Banfi, che oggi ci sorride bonariamente nei panni di nonno Libero, non ha mai rinnegato quella lunga e fortunata parentesi della sua carriera. E in effetti non potrebbe, se è vero che gran parte della sua attuale notorietà deriva proprio da quei film, da quelle pruriginose commediole di serie B. Ma trent’anni dopo, persino la critica ha rivalutato il genere eroticomico, allora così bistrattato e snobbato. Nell’epoca dell’impegno e del “personale è politico”, era inconcepibile questo abbandono al piacere fisico, al disimpegno totale, alla decadenza degli ideali. E non è un caso che Lino Banfi abbia convissuto per anni con l’etichetta di “fascista”, scomparsa solo quando si è ripresentato come nonno Libero, ferroviere in pensione, ex sindacalista, lettore dell’Unità. Oggi, dicevamo, il clima è diverso. I critici di casa nostra hanno rivalutato il genere, forse influenzati dall’outing di Quentin Tarantino. Il regista americano ha più volte dichiarato di amare i cosiddetti “B-movie” all’italiana, incontrando ed esaltando due icone dell’epoca come Barbara Bouchet ed Edwige Fenech. Ripetiamo: la qualità non c’era. Ma proprio perché stavamo nell’epoca del cinema impegnato e noioso, quei film rappresentavano lo stato d’animo di chi non ne poteva più di picchetti e manifestazioni, di guerriglia urbana e terrorismo. L’Italia aveva voglia di evasione, di disimpegno, di sesso a buon mercato, di ritornare al personale, che doveva essere privato, appunto, e non politico.
Che poi Edwige Fenech oggi sia diventata una stimata produttrice e Lino Banfi un modello per la tipica famigliola italiana poco conta. I tempi cambiano e gli stili di vita pure. L’importante, tuttavia, è che quel cinema ci sia stato, con tutte le sue volgarità, i suoi bassi istinti, il suo voyeurismo esasperato. Era il grido di una grande fetta d’Italia. Ovviamente, allora nessuno lo ascoltò e tantomeno lo capì. Ma il tempo, si sa, è galantuomo. Anche al cinema.

venerdì 20 giugno 2008

Guida estiva per cinefili disperati

Ideazione.com
20 giugno 2008

Avete presente le noiose serate estive davanti al televisore? Quando arriva la bella stagione, per motivi economici o magari solo per indifferenza nei confronti del pubblico, i dirigenti televisivi ci propinano le ennesime repliche di questa o quella fiction, film di quart’ordine inseriti in cicli quasi sempre all’insegna del “brivido” (o presunto tale), show a basso costo con cast di scarsa qualità. Lo stesso, almeno in Italia, succede al cinema. Mentre negli Stati Uniti, infatti, in estate fanno il loro esordio i blockbuster della stagione, nel nostro Paese si lanciano pellicole imbarazzanti, qualitativamente infime e destinate all’ovvio e sicuro flop. Sarà perché gli italiani in estate preferiscono le balere romagnole o le discoteche sarde, sarà perché in fondo il cinema non è il nostro passatempo preferito, fatto sta che il panorama cinematografico italiano non ne vuole sapere di adeguarsi ai calendari usuali degli altri Paesi. Niente capolavori nelle calde notti italiche, ma nemmeno film accettabili, decenti o godibili. E’ tutta una serie di commediole da strapazzo (che arrivano quasi sempre da Oltreoceano), accompagnate da qualche horror semiamatoriale, uno o due cartoni animati disegnati male e venuti peggio. Per rendersi conto che questa usanza tutta italiana non accenna a interrompersi, basta scorrere l’elenco dei prossimi esordi cinematografici.
Tra il 20 e il 27 giugno, infatti, nelle sale italiane faranno capolino tredici pellicole, undici delle quali si preannunciano catastrofiche. Si va dalla produzione italo-greca Uranya, con un cast interamente ellenico “impreziosito” dall’esibitissimo (persino in locandina) decolleté di Maria Grazia Cucinotta, alla versione cinematografica dei due concerti mondiali della stellina disneyana Hanna Montana, passando per il cinecocomero dei Vanzina (cast ricco ma comicità trita e ritrita), l’orrido horror Rovine e addirittura Impy e il mistero dell’isola magica, che ha almeno il “pregio” di farci sapere che anche in Germania si fanno i film d’animazione. In questa valle di lacrime e cinema di bassa qualità, due perle fanno fatica a emergere: Go Go Tales di Abel Ferrara e 12 di Nikita Mikhalkov. Ecco che viene spontaneo chiedersi, a questo punto, chi ha deciso di massacrare i film di due geni di tal fatta, accostandoli ai capolavori da solleone che abbiamo citato poco sopra. Si può decidere, infatti, di adeguarsi al resto del mondo e offrire una stagione cinematografica estiva quantomeno decente. E allora ci sta anche che Ferrara e Mikhalkov esordiscano a fine giugno. Ma finché questo non accadrà, e in Italia ci sembra veramente difficile, è davvero un peccato mandare allo sbaraglio due registi che in passato hanno regalato alla settima arte film di ottima fattura.
Alle obiezioni che abbiamo mosso alle strategie commerciali delle majors in Italia, qualcuno risponderà che il nostro Paese non ama andare al cinema d’estate e durante la bella stagione abbandona persino l’amatissimo schermo televisivo. Ma la cultura, perché di questo stiamo parlando, va incentivata, e le abitudini, persino le più dure a morire, possono cambiare. Certamente non si riuscirà nell’intento se si continuerà a proporre un “cartellone” così desolante, zeppo di B-movies e assolutamente privo di rispetto verso quelle poche e bizzarre mosche bianche che persino in una serata di luglio preferiscono un buon film all’assordante ambiente di una discoteca. Per fortuna siamo nel 2008 e il dvd ha risolto molti problemi. Non ci si lamenti più, però, della perenne crisi del cinema (italiano e non) e del fatto che gli italiani ormai spendono più in apparecchiature tecnologiche che in svago tradizionale e cultura. I molti italiani che, specialmente in questi periodi di crisi economica, non potranno andare in vacanza, si adoperino come possono: in fondo basta un lettore dvd, una fornita videoteca dietro l’angolo e una scorta bimestrale di bibite fresche, gelati e popcorn.

mercoledì 18 giugno 2008

Rai, un palinsesto in chiaroscuro tra novità e ritorni

Ideazione.com
18 giugno 2008

E’ un palinsesto ricco, variegato e in alcuni casi addirittura interessante quello che la Rai ha presentato a Sankt Moritz. La stagione 2008/2009 della tv di Stato offrirà ai telespettatori un bouquet di proposte molto diverse tra loro, all’insegna di una doppia direttrice di marcia: da un lato gli eterni ritorni dei mostri sacri del piccolo schermo, dall’altro alcune gustose e qualitativamente notevoli novità assolute. Fa notizia, almeno per quanto riguarda gli eventi più nazionalpopolari, il ritorno di Carramba che fortuna, il fortunato format di Raffaella Carrà abbinato alla Lotteria Italia. La signora Pelloni, dopo il mezzo flop di Amore (show sui generis dedicato alle adozioni a distanza), torna all’insegna della sicurezza, della riproposizione di un programma che ha avuto enorme successo negli anni scorsi. Toccherà vedere, però, se il pubblico del 2008 è ancora affezionato a quel tipo di televisione, in un’epoca in cui i reality show hanno trasformato in qualcosa di vetusto i ricongiungimenti familiari lacrimevoli di Raffaella Carrà. Ma la scelta di abbinare lo show alla Lotteria Italia è sicuramente oculata e vincente. Da qualche anno i programmi televisivi selezionati per accompagnare la lotteria di Capodanno erano stati deboli, fiacchi, dotati di scarsissimo appeal nei confronti dei telespettatori. C’era la necessità di rilanciare la lotteria in tv e la Carrà sembra la persona adatta per raggiungere tale obiettivo. All’insegna del dejà vu anche la proposta di Pippo Baudo. Pur senza rinunciare al segmento Ieri, oggi e domani all’interno di Domenica In, il presentatore siciliano ripropone a distanza di molti anni la sua Serata d’onore, un programma che ogni settimana verrà dedicato alla carriera e alla vita di due noti personaggi dello spettacolo. Quando fece il suo esordio in tv, lo show ebbe un successo notevole. In diretta dal Teatro Verdi di Montecatini, Baudo era il timoniere di uno spettacolo ricco di grandi ospiti, di momenti musicali e comici. Anche Serata d’onore, però, sembra la riproposizione stantìa di una televisione che non c’è più.
Lo show tradizionale, in effetti, è decisamente passato di moda. Negli ultimi anni hanno fatto eccezione solo Giorgio Panariello e Fiorello, ma soprattutto perché i due non sono semplici presentatori bensì mattatori, istrioni, trascinatori. I telespettatori del 2008 vogliono ritmo incalzante, comicità graffiante, modernità televisiva. Pippo Baudo è la persona adatta a offrire tutto questo? In attesa di scoprirlo, prepariamoci anche alle due serate dedicate alla musica ultranazionalpopolare di Gigi D’Alessio e Anna Tatangelo. Per la serie: largo alla musica che piace ai giovani. Molte sono le conferme del palinsesto, riguardanti soprattutto programmi a basso costo e a bassa audience: Occhio alla spesa (programma di servizio dedicato all’economia domestica e ai prezzi dei generi alimentari), Festa italiana (condotto da Caterina Balivo), l’ormai collaudato La Prova del Cuoco di Antonella Clerici. Inamovibili Affari tuoi (ma non sarà Flavio Insinna a condurlo), Domenica in con la Bianchetti e Giletti, il Porta a Porta di Bruno Vespa. Tutti programmi di Rai Uno, la rete ammiraglia che presenterà anche due cambiamenti non di poco conto. Michele Cucuzza lascia dopo tanti anni La vita in diretta e passa a Uno Mattina. Al suo posto Lamberto Sposini, che riporterà il programma sulla cronaca, allontanandosi finalmente dalla deriva gossipara di cucuzziana memoria. La rete più frizzante e sperimentale si conferma ancora una volta Rai Due, diretta dall’ottimo Antonio Marano. Simona Ventura resta la punta di diamante con Quelli che il calcio e L’Isola dei famosi; confermato Annozero di Santoro e ancora più spazio per Gene Gnocchi, che abbinerà ad Artù (condotto con Elisabetta Canalis), una rubrica di libri che si chiamerà Il criticone. Il pomeriggio della Rete Due cambia volto. L’Italia sul Due va in soffitta e arriva Italia allo specchio, condotto dall’ex pupilla di Emilio Fede Francesca Senette.
Sempre più cultura, invece, su Rai Tre. L’ex TeleKabul conferma la contestata rivoluzione in seconda serata: si farà, infatti, il programma satirico di Serena Dandini, sacrificando lo scialbo approfondimento di Primo Piano. Spazio alle news regionali alle 7.30 del mattino e a una night line di informazione che suona tanto come un contentino alla delusissima redazione del Tg3. La rete punterà ancora una volta su Fabio Fazio e sul suo Che tempo che fa, che affiancherà alla sua collocazione abituale del weekend anche otto prime serate speciali nel corso della stagione. Confermato anche Alberto Angela e il suo programma di divulgazione scientifica in prima serata. Le novità sono due e non di poco conto: sbarca in tv l’osannatissimo autore di Gomorra Roberto Saviano, curatore di tre docufiction dedicate a storie di mafia; e poi tre seconde serate dedicate a Michelangelo firmate Dario Fo. Questo, in linea di massima, il nuovo palinsesto Rai, completato come di consueto da numerose fiction di peso (Coco Chanel, Einstein, I Vicerè, Paolo VI, Pinocchio, Puccini, tra le altre). Una nuova offerta televisiva in chiaroscuro, che segna ancora di più i paletti tra le tre reti di Stato. Se Rai Uno punta a consolidare la sua tradizionale vocazione moderata e familiare riproponendo vecchie minestre riscaldate e rassicuranti, infatti, Rai Due continua la strategia sperimentale che così tanto successo ha avuto negli ultimi anni. Niente di nuovo, infine, per Rai Tre. La Terza Rete continua a prediligere servizio pubblico e approfondimento, cultura e qualità.
Ma quando si parla di Rai, si sa, non ci si può limitare a considerazioni esclusivamente televisive o culturali. I destini dei palinsesti della tv di Stato sono da sempre legati a doppio filo con l’evoluzione del quadro politico. Il dato più evidente sembra essere l’assoluto pluralismo dell’offerta, con i personaggi vicini alla sinistra che non perdono spazi, ma che anzi avanzano all’interno del palinsesto. Chi temeva epurazioni e nuovi editti bulgari è rimasto deluso. La speranza di tutti è che il palinsesto Rai possa continuare ad essere plurale e variegato, in modo tale che la tv di Stato, cioè la prima industria culturale del Paese, possa finalmente affrancarsi dai deleteri tentacoli del potere politico, di qualsiasi colore esso sia.

venerdì 13 giugno 2008

Manolete, ricordi di una Spagna sparita

Ideazione.com
13 giugno 2008

Alle cinque della sera del 28 agosto 1947, come è d’abitudine, Manuel Rodríguez Sánchez, detto Manolete, cominciò la sua ultima corrida. Di fronte aveva Islero, un toro miura di 700 chilogrammi. Proprio nel momento in cui doveva concludersi, con la morte del toro, il crudele e incomprensibile rituale così caro agli spagnoli, l’animale, debole e ferito ma non domo, reagì e con un cornata interruppe la vita di uno dei più grandi toreri di tutti i tempi. Manolete fu per la Spagna quello che Bartali fu per l’Italia. Se il nostro toscanaccio, infatti, evitò una guerra civile vincendo il Tour nel giorno dell’attentato a Togliatti, il toreador andaluso cementò una nazione distrutta dalla guerra civile che segnò la definitiva vittoria del caudillo Franco. Viso scavato, figura esile, occhi profondissimi, Manolete rimarrà nell’immaginario collettivo un personaggio mitico, per sempre circondato da un alone di gloria tipico dei toreador più grandi. E non si poteva evitare, dunque, la trasposizione cinematografica di una vita così breve (morì a 30 anni) eppure ricca di eroismo.
L’idea di fare un film è vecchia. Già venti anni fa, lo sceneggiatore olandese Menno Meyjes si era innamorato della figura del toreador andaluso, del suo sguardo triste, da predestinato. La lentezza nella preparazione del film è stata, in questo caso, una benedizione. Venti anni fa Meyjes non avrebbe potuto trovare il clone cinematografico di Manolete, il suo alter ego, la sua reincarnazione. Stiamo parlando di Adrien Brody, premio Oscar meritato per Il Pianista di Roman Polanski, che ha interpretato il torero nel film finito di girare lo scorso anno in Spagna. Al suo fianco, e non poteva essere altrimenti, la splendida Penelope Cruz, nel ruolo dell’innamoratissima Lupe Sino. Dopo molti rinvii, a volte inspiegabili, sembra che la pellicola possa finalmente sbarcare al cinema nel prossimo ottobre, facendo uscire dai confini spagnoli una figura mitica che il mondo ignora. A prescindere dalle idee di ciascuno in merito alla cruenta tradizione di matar los toros, nessuno potrà rimanere impassibile di fronte a una storia così avvincente e profondamente “spagnola”. C’è la passione, c’è l’amore, c’è un’incredibile carica emotiva. C’è tutto quello, insomma, che viene attribuito ai popoli latini.
E c’è soprattutto la bravura degli attori e la loro profonda immedesimazione nei personaggi. Basti pensare, lo racconta lo stesso protagonista, che durante la lavorazione del film, in Spagna, molti anziani salutavano Adrien Brody con un malinconico e significativo Hola Manolete, que tal?, a dimostrazione che l’attore è riuscito a risvegliare ricordi antichi di una Spagna che non c’è più. Nel Paese di Zapatero, dell’uguaglianza a tutti i costi fino al limite del grottesco, del progresso galoppante che calpesta le radici, questo film potrà forse fermare, anche per un solo momento, il rumoroso caravanserraglio e far riflettere un popolo che sta smarrendo la propria identità. Non basta continuare a trucidare animali la domenica pomeriggio, né continuare a ballare il flamenco per ritrovare le proprie radici. Personaggi come Manolete hanno letteramente costruito la Spagna, regalandole un po’ di speranza nel buio periodo franchista. Recuperando la memoria di gente come lui, gli spagnoli potrebbero recuperare anche la consapevolezza che il passato non si cancella mai e che ciò che sono diventati è anche merito di quel passato. Niente escluso.

venerdì 6 giugno 2008

Austria e Svizzera, il calcio torna nel cuore d'Europa

Ideazione.com
6 giugno 2008

La carovana del pallone fa tappa sulle Alpi. Da domani al 29 giugno, infatti, Austria e Svizzera ospiteranno i Campionati europei di calcio, trasformando il Vecchio Continente in un’immensa curva di stadio. Saranno venti giorni di calcio, ovviamente, ma non solo. Qualsiasi evento sportivo di questa portata comporta anche risvolti economici, sociali, culturali, politici. E per Svizzera e Austria questo è il periodo migliore (o peggiore, dipende dai punti di vista) per mostrarsi al mondo. La piccola e ricca Svizzera, pur essendo sede dei più importanti organismi mondiali dello sport, non ospita una manifestazione sportiva importante addirittura dal 1954, quando i Mondiali di calcio videro l’affermazione della Germania contro la corazzata ungherese di Puskas. Gli svizzeri, si sa, non amano apparire. Preferiscono coordinare, tessere, costruire in silenzio e nell’ombra. Ma l’ormai stantìo cliché dei banchieri, degli orologiai e dei maitres chocolatiers non regge più. La Svizzera di oggi è diversa dalle cartoline alpine e dai luoghi comuni. Nonostante la proverbiale discrezione, la scelta neutrale in tutto e per tutto, la confederazione elvetica non si è potuta sottrarre all’arrembante globalizzazione.
E non parliamo solo di economia, anche perché in quel campo la Svizzera è globale da sempre. Ci riferiamo soprattutto al fenomeno migratorio, allo spostamento di centinaia di migliaia di persone verso quella terra di benessere e ordine che è sempre stata la Svizzera. Ma il piccolo Paese incastonato tra le Alpi non è l’Italia, né la Francia o la Spagna. Non ha storicamente una cultura dell’apertura, non ha avuto forti contaminazioni nel corso della sua storia. La sua conformazione geografica ne ha sempre preservato l’unicità. Almeno fino a quando trasporti e telecomunicazioni non hanno stravolto tutto. E oggi gli svizzeri si trovano a dover fare i conti con una società multietnica difficile da gestire. Soprattutto se consideriamo che la Confederazione ha già dentro di se un insieme di sentimenti regionalisti dettati dalla composizione culturale e linguistica della nazione. Ma proprio in un momento del genere, l’appuntamento con l’Europeo può servire da stimolo. Sociale, culturale ma anche, e soprattutto, economico. Innanzitutto il grande pubblico calcistico scoprirà posti da sogno che di solito non fanno parte delle mete preferite. Paesaggi alpini, piccole città ordinate e pittoresche eppure ricche di fermento culturale. I barbari (se così possiamo amichevolmente definire i tifosi) approdano sulle Alpi. E l’incontro sarà certamente positivo sia per loro che per chi li ospiterà.
L’Austria, invece, attende l’Europeo con ancora maggior frenesia. Forse perché il popolo austriaco è più cosmopolita (è pur esempre erede del grande Impero Austro-Ungarico), forse perché culturalmente l’Austria ha da offrire qualcosa in più, almeno per quanto riguarda i percorsi culturali di massa. Non solo Vienna, comunque. E la cosa potrebbe stupire i giovani tifosi che toccano il suolo austriaco soltanto per visitare la giovane e vitale capitale. Città come Innsbruck, Klagenfurt o Salisburgo forse non dicono nulla alle rumorose carovane pallonare. Eppure sono centri di eccellenza in ambito turistico-culturale. Dei veri e propri paradisi per chi cerca tradizione coniugata alla modernità, alta cultura e sensibilità nei confronti delle ultime tendenze. Salisburgo, ad esempio, è da sempre conosciuta come patria di Mozart e sulla figura del grande compositore ha vissuto per secoli. Eppure la città austriaca è anche molto altro. E i tifosi potranno approfittare del Campionato europeo per scoprirlo. L’Austria è pronta quindi a farsi conoscere, a rilanciare la sua immagine di culla di cultura e tradizione. Con un occhio strizzato anche alle nuove generazioni, perché in fondo a Vienna e dintorni molto è cambiato dall’epoca di Sissi e di Franz.
E’ poi è anche il momento di ripulire un’immagine internazionale recentemente macchiata da due storie di cronaca raccapriccianti che hanno scosso le sonnolenti coscienze del popolo austriaco. Prima la vicenda di Natascha Kampusch, la graziosa ragazza (oggi ventenne) rinchiusa per otto anni dal suo aguzzino. E poi, solo qualche mese fa, la terribile storia di un padre che ha segregato e violentato per ventiquattro anni la figlia, rendendola madre sette volte. Ma l’Austria non solo è questo. E generalizzare dei pur macabri episodi di cronaca non fa bene all’Austria, alla sua secolare storia di tolleranza e contaminazione culturale, di quell’inclusione tipica dell’Impero asburgico, e tantomeno a un’Europa che ha bisogno di un’Austria forte e positiva che faccia da ponte verso l’est, verso quei Paesi emergenti che vedono in Vienna un punto di riferimento per congiungersi definitivamente con l’altra metà d’Europa. Austria e Svizzera, dunque, sono pronte a rafforzare la loro immagine di cuore d’Europa, di crocevia di interessi economici e culturali. Senza dimenticare la leggerezza di un calcio al pallone che anche in questo caso, come sempre, riesce a travalicare i limiti di un terreno di gioco e a contaminare tutto ciò che lo circonda.

Vallanzasca, una vita da film

Ideazione.com
6 giugno 2008

Il bel René sbarca al cinema. Stiamo parlando ovviamente di Renato Vallanzasca, il bandito della Comasina, da trentacinque anni in galera per scontare le sue innumerevoli malefatte. Portare sul grande schermo la vicenda umana e criminale di un uomo come Vallanzasca cinematograficamente è un mossa azzeccata. La vita e le “opere” dell’affascinante milanese che faceva girare la testa alle donne sono da sempre circondate da un alone di fascino e mistero. Non di compiacente giustificazione, ovviamente, perché i delitti di Vallanzasca sono tanti e gravi. Ma il regista Marco Risi, non nuovo a operazioni del genere, ha deciso di puntare sulla sua storia, che a prescindere da un evidente giudizio morale negativo, somiglia tanto a quella degli affascinanti e spietati gangster americani.
Dopo Romanzo criminale, dopo le rievocazioni degli anni di piombo, dopo che sulla mafia è stato girato tutto o quasi, tocca al paria del crimine, dunque. Vallanzasca, infatti, non ha mai goduto nemmeno di un minimo di comprensione, né di disponibilità al perdono. Forse perché non era membro di un’organizzazione grande e radicata, forse perché non aveva motivazioni ideologiche. Era semplicemente un bandito. Punto. Il film, dunque, probabilmente farà rumore. Quasi di sicuro qualcuno dirà che è troppo accomodante, giustificatorio, assolutorio. Qualche associazione di familiari delle vittime farà sentire il proprio comprensibile sdegno, i politici magari si accapiglieranno sull’opportunità o meno di concedere la grazia al bel René. Ma l’attesa che più ci interessa è quella cinematografica, artistica e narrativa. Il primo passo sembra essere stato azzeccato. A interpretare Vallanzasca, infatti, è stato chiamato Riccardo Scamarcio, punta di diamante (forse un po’ sopravvalutata) della generazione di giovani attori italiani. La scelta di Scamarcio, anche evitando di parlare delle sue doti artistiche, è perfetta. L’attore pugliese ha il physique du role, somiglia vagamente al bello e dannato René, tutto crimini e donne. Ma l’apparenza non basta, soprattutto al cinema. Scamarcio dovrà rendere credibile il personaggio, dovrà riuscire a calarsi in una realtà che non ha conosciuto e che certamente non è facile da riprodurre. In fondo, però, il mestiere dell’attore è proprio quello.
Per quanto riguarda l’impianto narrativo del film, le premesse sono incoraggianti. Della sceneggiatura, infatti, si occuperanno Angelo Pasquini e Andrea Purgatori, collaudatissimi narratori del nostro cinema. E Marco Risi, nonostante qualche flop di troppo che ne ha appannato la verve, rimane comunque un regista di razza, sicuramente adatto a trasformare in film una storia come quella di Vallanzasca. La storia che sarà raccontata prende le mosse da Lettera a Renato, libro scritto dall’attuale compagna del bandito della Comasina, Antonella D’Agostino. Sembra che René, dalla sua cella nel carcere di Opera, abbia apprezzato la scelta di Scamarcio e forse spera in questo film per rilanciare la questione della grazia. In un Paese in cui gli assassini scontano la pena nei residence in riva al mare o al massimo passano in carcere una decina d’anni, la vicenda di Vallanzasca assume un significato grottesco. Il film servirà a qualcosa in questo senso? Forse no. Ma probabilmente ne verrà fuori una gran bella opera cinematografica. E non è poco.

mercoledì 4 giugno 2008

Ahmadinejad e Mugabe: attenti a quei due

Ideazione.com
4 giugno 2008

A qualcuno interessano le nuove strategie mondiali contro la fame? O il rilancio dell’agricoltura per incrementare la produzione alimentare e sconfiggere la crisi devastante che sta colpendo varie zone del mondo? Sembrerebbe di no, visto che del vertice Fao in corso a Roma si parla quasi esclusivamente per la presenza imbarazzante dei presidenti di Iran e Zimbabwe, Ahmadinejad e Mugabe. Soprattutto il primo ha scatenato la reazione sdegnata di gran parte dell’opinione pubblica e della classe politica del nostro Paese. Si parlava di un incontro tra il leader di Teheran e Berlusconi, e addirittura di un’udienza ufficiale in Vaticano. Voci subito smentite, che hanno fatto crescere ancora di più il clima bipartisan di ostilità nei confronti dell’autoritario presidente dell’antica Persia. Il Riformista, diretto da Antonio Polito, ha organizzato una manifestazione in Campidoglio contro Ahmadinejad e a favore di un Iran libero e democratico, ponendo l’accento sulle minacce nei confronti di Israele (“Sta per sparire dalle carte geografiche”, ha tuonato di nuovo due giorni fa Ahmadinejad), sull’assoluta mancanza di libertà e diritti civili nel Paese mediorientale, sulle discriminazioni e uccisioni di decine di omosessuali. L’appello di Polito ha raccolto molte adesioni che sottolineano una trasversalità forse senza precedenti nel nostro panorama politico. Dal ministro degli Esteri Franco Frattini, al suo omologo-ombra Piero Fassino, dal sindaco di Roma Gianni Alemanno al suo avversario Francesco Rutelli, e poi Pera, Cicchitto, Gasparri, Pollastrini, Della Vedova, Pezzotta, Bernardini, Nirenstein, La Malfa, Boniver, Bianco, Stefania Craxi, Vernetti, Zingaretti, Bonanni. E non potevano ovviamente mancare alcune associazioni omosessuali come GayLib, o organizzazioni e gruppi ebraici come la Comunità di Roma, l’Ucei (Unione comunità ebraiche italiane), i Giovani Ebrei italiani.
Una manifestazione affollata, dunque, che chiede niente più che attenzione nei confronti della dittatura, ormai davvero malcelata, di Teheran. Blocco immediato del nucleare, contrasto della condotta antiisraeliana di Ahmadinejad, impegno affinché l’Iran non influenzi in maniera nefasta la situazione già fragile in Libano, Iraq, Afghanistan e Palestina. Colpisce, e non potrebbe essere altrimenti, l’adesione di Franco Frattini, un ministro degli Esteri che per un attimo dimentica la diplomazia e il realismo per esprimere pieno appoggio ad una iniziativa che lascia poco spazio agli equilibrismi da feluca e alla difesa dei corposi interessi economici. Ma alcuni commentatori, seppur da posizioni diverse tra loro, avrebbero preferito un atteggiamento differente del governo nei confronti del presidente iraniano. E’ il caso, ad esempio, di Alberto Negri (il Sole 24 Ore) e Lucio Caracciolo (la Repubblica). Il primo avrebbe visto di buon occhio un incontro al vertice tra il nostro governo e il presidente iraniano, durante il quale esprimere nettamente e senza distinguo le nostre posizioni critiche nei confronti del suo regime. Negri sottolinea anche il rapporto privilegiato che da sempre esiste tra Italia e Iran e soprattutto l’incredibile volume di affari tra Roma e Teheran. Un rapporto privilegiato che, secondo il commentatore del Sole, avrebbe dovuto convincerci ancora di più della necessità di dialogare. Improntato al realismo più pragmatico è invece l’intervento su Repubblica del direttore di Limes. Caracciolo dice, testualmente, che “la tradizione diplomatica occidentale ci insegna che con il Diavolo si può dialogare. Anzi, si deve quando in gioco ci sono interessi e valori vitali”. Sarà, ma la politica italiana stavolta ha scelto la via della fermezza, senza concedere nulla al galateo diplomatico. Con Ahmadinejad non si parla. Almeno finché il presidente iraniano non smetterà di portare avanti una politica aggressiva e destabilizzante per il Medio Oriente in particolare e per tutto il mondo in generale. E lo hanno voluto ribadire anche gli ebrei romani, che ieri hanno inscenato una estemporanea e pacifica manifestazione nei pressi della sede Fao di Roma. Non mancavano, e questa è una notizia positiva, nemmeno alcuni iraniani dissidenti che vivono in esilio.
Ma la querelle su Ahmadinejad rischia di farci dimenticare un’altra presenza altrettanto scomoda al vertice Fao: quella di Robert Mugabe, padre-padrone di uno Zimbabwe ormai in ginocchio. Le recenti elezioni, svoltesi in un clima di intimidazione e paura, hanno riproposto agli occhi del mondo una situazione che non si può più fare a meno di affrontare. L’assoluta mancanza di democrazia e la disastrosa crisi economica hanno ormai letteralmente annientato il Paese africano. Non si tratta più di agire con tempestività per scongiurare un disastro. Il peggio è già avvenuto. Inflazione a molti zeri, violenze continue, repressione dell’opposizione. Ma solo Gran Bretagna e Australia hanno fino ad oggi preso una posizione chiara e netta nei confronti di Mugabe. Proprio il premier inglese Gordon Brown ha voluto sottolineare come la presenza del dittatore africano al vertice Fao sia “particolarmente incresciosa”, soprattutto se si pensa che proprio Mugabe ha ostacolato in ogni modo gli approvvigionamenti alimentari del suo Paese. Il resto dell’Occidente, loquace più del dovuto quando si parla di Iran, sullo Zimbabwe non va oltre le solite frasi di circostanza. Forse perché l’Iran conta di più (soprattutto economicamente), forse perché l’Africa è ormai uscita dall’agenda delle cancellerie occidentali (con un evidente vantaggio ricavato dall’attivissima azione neocoloniale di Pechino). Fatto sta che lo Zimbabwe, tra una carestia e una repressione, non riesce a catalizzare a dovere l’attenzione del mondo.  La Fao vetrina di dittatori e pericolosi presidenti autoritari, dunque? Sembrerebbe di sì, ma non è la prima volta che succede. Stavolta, però, almeno una consistente parte dell’opinione pubbilca italiana sembra essersi svegliata. Il successo dell’iniziativa del Riformista ne è la prova evidente. Ora tocca ai governi occidentali tradurre questa indignazione in azioni concrete.

venerdì 30 maggio 2008

Sex and the City, sesso contro la crisi

Ideazione.com
30 maggio 2008

Il grande giorno è arrivato. Per migliaia di appassionati italiani è un sogno che si realizza, la degna conclusione di una vicenda costellata di successi e ormai ammantata di un velo di culto pop dei giorni nostri. Esce oggi nei cinema italiani Sex and the City, trasposizione cinematografica della serie tv di maggior successo degli ultimi anni. Le vicende di Carrie, Samantha, Charlotte e Miranda avevano già conquistato milioni di uomini e (soprattutto) donne in tutto il mondo dal 1998 al 2004. Sei anni che sicuramente resteranno nella storia del piccolo schermo. E oggi, a quattro anni dal doloroso addio ai telespettatori, le quattro scatenate donne newyorchesi sbarcano sul grande schermo, lasciando intatta la loro irresistibile carica di sensualità, di politically incorrect, di disavventure metropolitane. Il cast è quello di sempre, con la compagnia capeggiata da Carrie Bradshaw (interpretata dall’icona glamour Sarah-Jessica Parker). Lo sfondo, ovviamente, non cambia: tutto si svolge a New York, e sicuramente non è un caso. Uno dei motivi del successo planetario di Sex and the City è il connubio tra le storie raccontate e i luoghi in cui sono ambientate. In fondo, solo a New York si può fare quella vita, si possono provare esperienze così dannatamente anticonformiste e allo stesso tempo à la page.
Lo dice anche Kim Cattrall, che interpreta la mangiatrice di uomini Samantha: “Il mio personaggio ha bisogno del cemento di New York, che significa in controluce tante cose, e ritorna alle sue incerte verità, poco hollywoodiane. Sex and the City arriva in un momento di crisi economica e spero dia anche desideri di orgasmi. E non parlo solo di sessualità”. Il sesso come antidoto alla recessione, dunque? E’ una possibile chiave di lettura per un film che fa il suo esordio in un periodo storico molto differente da quello del serial tv. Non è più la Grande Mela rampante e in costante crescita economica. Nel frattempo sono crollate le Torri, e con esse molte certezze dei newyorchesi. E poi gli scandali finanziari, le guerre contro il terrorismo (odiate in maniera feroce da Hollywood e dalla potentissima New York liberal). Fino ad arrivare alla crisi dei mutui subprime, che stanno cambiando pericolosamente le abitudini dei cittadini statunitensi. Ciononostante, e non poteva essere altrimenti, la versione cinematografica del telefilm culto non smette i panni glamour e patinati dei tempi che furono. La differenza non sta nell’apparire ma nell’essere e la dolce vita delle attempate ragazze di Manhattan non è ostentazione ma catarsi, non superficialità ma tentativo di uscire dalla crisi.
Ma Sex and the city, nonostante tutto, ha sempre rappresentato il futile, l’effimero, l’apparenza. E forse è anche giusto così, visto che in fondo il cinema e la tv sono innanzitutto evasione, fuga dalla realtà, ricerca di un rifugio confortevole nel sogno e nell’immaginazione. E il sesso? C’è ancora o è rimasta solo la città? Ovviamente le scene più o meno osé non mancano e la parte del leone la fanno le scene di nudo maschile. Neanche questo deve sorprendere gli spettatori. Le protagoniste sono quattro donne, over 40, piacenti e alla moda. Ma la stragrande maggioranza degli aficionados di Sex and the city è rappresentata da donne eterosessuali e uomini gay. E il pubblico, si sa, va accontentato. Sarà più difficile accontentare i critici, per una serie di motivi. Innanzitutto perché le operazioni di questo genere (un telefilm che diventa film) sono spesso naufragate in maniera clamorosa; e poi perché persino i critici più cosmopoliti e filohollywoodiani mal digeriscono un’opera del genere. Troppa evasione, troppo lusso, troppo sesso fine a se stesso. Nessun minatore licenziato alla Ken Loach, niente pacifismo alla Sean Penn, neanche l’ombra delle commedie impegnate di George Clooney. Le quattro bad girls di New York, dunque, potrebbero conquistare il pubblico ma scontentare gli esigentissimi critici cinematografici. Ma Carrie, Samantha, Charlotte e Miranda sicuramente riderebbero delle eventuali critiche. Magari sorseggiando un Manhattan in un locale alla moda, tra un racconto e l’altro delle loro ultime avventure sessuali.

giovedì 29 maggio 2008

Obama batte Hillary anche su Facebook

Ideazione.com
29 maggio 2008

Facebook è il sito internet del momento. Si tratta di un’idea molto semplice che sta conquistando milioni di persone: è un esperimento riuscitissimo di social network, con milioni di iscrizioni generate da un inarrestabile effetto domino. Chi non conosce Facebook si chiede a cosa serva, quale sia la sua funzione. Ebbene, ne ha tante, anzi non ne ha nessuna. Il social networking è, letteralmente, una rete sociale tra utenti che condividono opinioni, gusti, appartenenze politiche o geografiche. Basta cercare nell’immenso database degli iscritti per trovare una persona a noi affine, o magari qualcuno che non vediamo da anni.
Ovviamente l’idea è americana e persino i candidati alle elezioni presidenziali del prossimo novembre stanno cercando di sfruttare al massimo le potenzialità di questo strumento. Digitando “Barack Obama” nell’apposita casella di ricerca, dunque, ci si imbatte nella pagina del senatore dell’Illinois, ormai vicino alla conquista della nomination democratica. Scorrendo le informazioni che il senatore, o chi per lui, ha condiviso con gli altri utenti, si scopre ad esempio che i suoi gusti musicali sono molto variegati. Il golden boy dell’asinello spazia da Bach a Bob Dylan, da Miles Davis ai Fugees, passando per John Coltrane e Stevie Wonder. E la sua avversaria Hillary Clinton? L’ex first lady preferisce Carly Simon, i Rolling Stones e gli U2. Ma le differenze, a dire il vero, non sono soltanto musicali. Intanto va segnalata la più importante, almeno per quanto riguarda il successo riscosso dai due contendenti su Facebook: Obama più contare sull’appoggio esplicito di 850mila utenti, surclassando Clinton, ferma a poco più di 150mila. La spiegazione è piuttosto semplice: il senatore di colore è il candidato preferito dai più giovani e ovviamente la media anagrafica degli utenti di Facebook lo avvantaggia.
Ma torniamo a parlare delle curiosità che si scoprono scorrendo i profili dei due politici a stelle e strisce. E’ sorprendente, ad esempio, scoprire i programmi televisivi preferiti. Un vero e proprio scontro tra titani, verrebbe ironicamente da dire. Barack Obama segue volentieri Sportscenter, Hillary nientemeno che American Idol. Scelte da adolescenti, forse dettate dalla voglia di calamitare l’attenzione dei giovani. Il primo (e unico) punto di contatto tra i due riguarda il cinema. Ad accomunare due persone così diverse, ormai da mesi in lotta perenne per conquistare la nomination, ci pensa Casablanca, il capolavoro con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, indicato da entrambi come uno dei loro film preferiti. Obama aggiunge i primi due episodi del Padrino, Lawrence d’Arabia e Qualcuno volò sul nido del cuculo; Hillary è più romantica e sceglie Il Mago di Oz e La mia Africa. Anche lo scontro tra Michelle Obama (moglie di Barack) e Bill Clinton vede la netta vittoria della potenziale first lady afroamericana: 9600 “supporter” contro 4200, a dimostrazione che la scarsa popolarità dell’ex presidente non ha aiutato la corsa verso Washington di Hillary. Ma anche Michelle dimostra, nel suo profilo, di non essere certo uno spirito intellettuale e impegnato, se è vero che l’unico interesse segnalato è il Sudoku e l’ultimo libro letto Harry Potter.
Ma se sul versante democratico i profili facebook fanno trasparire uno spirito molto pop, molto più austera è la pagina di John McCain, candidato repubblicano alla Casa Bianca. Il settantunenne senatore dell’Arizona (che ha raccolto il supporto di 130mila utenti) presenta un profilo molto scarno, con pochi fronzoli e senza lasciare nulla al gossip sulla sua vita privata. Film preferiti: Viva Zapata! e Lettere da Iwo Jima, con una divertente divagazione con A qualcuno piace caldo. Programmi tv: 24 e Seinfeld, due telefilm di enorme successo. E poi poco altro: qualche video, l’agenda dei prossimi appuntamenti elettorali e l’interminabile curriculum militare. Anche stavolta i repubblicani si dimostrano meno mondani dei loro avversari. Ma al momento di recarsi alle urne, si sa, l’elettore americano sceglie il proprio candidato sulla base di altri fattori. E i gusti musicali o cinematografici, ne siamo certi, conteranno poco o niente.

venerdì 23 maggio 2008

Indiana Jones: non è mai troppo tardi?

Ideazione.com
23 maggio 2008

A 65 anni si può ancora essere un credibile archeologo dell’avventura? Harrison Ford, fascinoso divo hollywoodiano, ci prova, interpretando per la quarta volta il leggendario ruolo di Indiana Jones. Cominciata nel 1981 con Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta, la saga diretta da Steven Spielberg è proseguita con Il tempio maledetto (1984) e L’ultima crociata (1989). Sei Oscar (tutti in categorie minori), 94 milioni di dollari di budget, un miliardo e duecento milioni di dollari al botteghino, riconoscimenti in tutto il mondo da parte di critica e pubblico, per una trilogia che è rimasta, giustamente, nella storia del cinema. A distanza di quasi vent’anni dall’ultimo episodio, Spielberg ha voluto riproporre la popolarissima figura dell’archeologo scavezzacollo, scegliendo ancora Harrison Ford come interprete. Pochi dubbi sul fatto che si tratti di un’operazioni prettamente commerciale. Ma c’è da chiedersi se ha davvero senso ripresentare sullo schermo un Indiana Jones ultrasessantenne, alle prese con fughe spericolate, inseguimenti mozzafiato, esplosioni e rocambolesche scene d’azione. E’ credibile? E soprattutto: per Harrison Ford si tratta di una scelta giusta o no?
Steven Spielberg, che di certo non è un avventato e scriteriato regista, ha dalla sua la certezza di fare centro, perlomeno al botteghino. I fan di Indiana Jones sono tanti e variegati, trasversali per età e nazionalità, diffusi in tutto il mondo e frementi in attesa del ritorno del loro beniamino. Ma non si tratta di discutere sul successo, facilmente prevedibile, al box office. Harrison Ford, classe 1942, non è più l’aitante giovanotto di Guerre Stellari (1977) o Blade Runner (1982) e, sebbene le donne continuino, a ragione, a definirlo uno degli uomini più sexy del pianeta, non ha più il fisico di una volta. Che senso ha, dunque, rischiare di ridicolizzare una figura che era rimasta scolpita nell’immaginario collettivo? Indiana Jones era sinonimo di astuzia e intelligenza, ma anche di coraggio, sprezzo del pericolo, prestanza fisica. Lo stagionato Ford, pur conservatosi bene, non può reggere il confronto. E non si tratta di carenze recitative, ovviamente. Il suo talento non si discute.
L’archeologo dell’avventura Ford, dunque, viene riesumato dall’archeologo del cinema Spielberg. Il regista tenta di inserire nella storia qualche elemento che funga da diversivo, in modo tale che la freschezza della saga di Indy non venga intaccata. Ecco allora che l’ormai professore universitario Henry “Indiana” Jones viene affiancato, e spronato all’azione, dal giovanissimo e iperattivo Mutt Williams (interpretato dal promettente Shia LaBeouf). E poi dalla splendida Cate Blanchett, tanto talentuosa quanto “prezzemolina” in una quantità ormai incalcolabile di pellicole, a interpretare l’algida nemica assetata di potere. Diversivi di qualità, che potrebbero funzionare, almeno in parte. Ma l’attempato archeologo riuscirà davvero a salvarsi dalla facile ironia sulla sua età? Spielberg, riportandolo alla luce dopo 19 anni di gloriosa naftalina, ha corso un rischio e lo sa perfettamente. Ma se Harrison Ford è riuscito a non intaccare l’adrenalinica carica di Indy, allora la scommessa sarà vinta. In fondo, e lo diciamo davvero senza snobismo alcuno, il pubblico di Indiana Jones vuole scene mozzafiato, effetti speciali, musica coinvolgente e poco più. E Steven Spielberg è un maestro anche, e soprattutto, in questo.

venerdì 16 maggio 2008

L'agguerrito ritorno di Michael Moore

Ideazione.com
16 maggio 2008

Ci risiamo. Dopo Fahrenheit 9/11 e Sicko, Michael Moore torna alla carica. Il corpulento regista americano sta per girare il sequel proprio di Fahrenheit 9/11, documentario pamphlet contro George W. Bush che nel 2004 ha conquistato la Palma d’Oro a Cannes. Quel film, vero e proprio atto d’accusa contro il presidente degli Usa e il suo entourage politico ed economico, aveva letteralmente mandato in visibilio l’intellighentsia culturale europea, che non vedeva l’ora di trovare un livoroso ed efficace strumento contro l’odiatissimo inquilino della Casa Bianca. Ma se nel Vecchio Continente il documentario aveva fatto incetta di successi e riconoscimenti, da Cannes al Festival di Sarajevo, e aveva plasmato non poche coscienze politiche, in America l’impatto è stato sicuramente minore, se è vero che dopo meno di cinque mesi dall’uscita nelle sale, Bush era stato rieletto trionfalmente.
Ora, dunque, il sequel, che si annuncia ancora più velenoso del primo film. E dove lanciare, urbi et orbi, il pur embrionale progetto se non sulla Croisette, che tanti onori aveva già regalato a Moore? Giornalisti eccitati, pubblico fremente e divi engagés accoglieranno l’idea con malcelata soddisfazione. Continueranno a lodare il coraggio e l’impegno civile di Michael Moore, a denigrare l’odiato George W., anche quando lascerà, dopo otto lunghissimi anni, la Casa Bianca. Diciamoci la verità: che vita sarebbe, quella di Moore, se non ci fosse Bush jr.? Il presidente ha rappresentato per il cineasta del Michigan, in questi lunghi anni, la gallina dalle uova d’oro da sfruttare fino all’ultimo. E Moore ha fatto scuola, creando un vero e proprio filone letterario e cinematografico che in fondo, ne siamo certi, soffrirà non poco dell’uscita di scena dell’attuale inquilino della Casa Bianca.
Pensiamo ai vari Sean Penn (pur bravissimo quando non vuole a tutti i costi fare il pasionario ultraliberal), Tim Robbins, Susan Sarandon, la famiglia Sheen al completo. Tutti futuri orfani inconsolabili del goffo rampollo di casa Bush. Oliver Stone, come abbiamo raccontato poco tempo fa, ha pensato bene di sfruttare gli ultimi mesi utili girando W, biopic al vetriolo mascherato da obiettivo ritratto di un uomo controverso. Siamo sicuri che il prossimo anno il Festival di Cannes ospiterà sia il film di Stone che il documentario di Moore, confermando una tradizione tutta francese di antiamericanismo a tutti i costi. Antiamericani ma furbi, gli intellettuali di sinistra del Vecchio Continente. Come possono essere definiti nemici dell’America se non fanno altro che dare spazio alle voci critiche di artisti americani? Ecco lo scudo creato ad arte: è il cinema americano a criticare l’America. Che c’entriamo noi?
Il rapporto tra cinema europeo e militanza politica è antico e ancora molto forte. Non si aziona cinepresa senza che dietro ci sia un alto e nobile intento politico. Ovviamente sempre a sinistra. E Moore non poteva che essere scelto come modello da eguagliare, grazie al suo coraggioso atto d’accusa contro l’uomo più potente del mondo. Segno dei tempi: da Truffaut, Bunuel e Loach a Michael Moore. Tempi duri per l’intellighentsia europea.

venerdì 9 maggio 2008

Fiera del Libro, Israele infiamma Torino

Ideazione.com
9 maggio 2008
 
Prendete quattro uomini di sinistra (Gabriele Polo, Walter Veltroni, Dario Fo e Piero Fassino), distribuiteli su tre giornali nazionali (il Manifesto, Corriere della Sera, La Stampa), inserite i loro interventi nella diatriba sul boicottaggio della Fiera del Libro di Torino che ospita, quest’anno, la letteratura israeliana. Ne viene fuori un dibattito politico-culturale tutto interno alla sinistra, figlio di un rapporto mai chiarito tra le forze progressiste italiane e lo Stato di Israele. Fino a 20 anni fa, Polo, Veltroni, Fo e Fassino coesistevano, più o meno placidamente, nell’accogliente ventre del Pci; oggi sembrano avversari da sempre, portatori di linee politiche e culturali che mai si possono conciliare. Ma prima di rendere conto di questa già vista disputa a sinistra, è bene ripercorrere a grandi linee la vicenda che l’ha reinnescata. La Fiera del Libro di Torino è il più grande evento editoriale italiano, il secondo in Europa dopo Francoforte, addirittura il primo per numero di visite nel 2006 e nel 2007. Più di mille espositori, trecentomila visitatori, un tema che fa da filo conduttore (quest’anno è la bellezza), e uno o più Paesi del mondo ospitati ogni anno. Proprio quest’ultima caratteristica della manifestazione ha rappresentato la pietra dello scandalo: gli organizzatori hanno invitato, anche in concomitanza con il sessantesimo anniversario dalla sua fondazione, lo Stato di Israele. Scelta che non pare per nulla strumentale, né politica. In fondo Torino è la città simbolo dell’ebraismo italiano, che ha visto crescere alcune delle migliori intelligenze della cultura ebraica del nostro Paese, da Primo e Carlo Levi a Gad Lerner.
In un Paese come l’Italia, storicamente percorso da vigorosi fremiti filopalestinesi (dai democristiani ai comunisti, dalla vecchia destra radicale ai socialisti), la cosa non poteva certo passare inosservata. Quale migliore occasione, dunque, per inscenare una protesta di piazza, qualche manifestazione, addirittura un boicottaggio? I sostenitori di questa balzana idea (boicottare la cultura è abominevole, diciamolo pure) hanno trovato il comodo appoggio di alcuni intellettuali di sinistra, primo fra tutti l’immancabile Gianni Vattimo. Già il 5 febbraio scorso, dalle colonne de La Stampa, il filosofo del pensiero debole aveva lanciato la campagna di boicottaggio contro Israele, contro la Fiera del Libro, contro chi ci andrà, contro chiunque la pensi in maniera diversa da lui, insomma. Gli argomenti usati, da Vattimo e da chi ne ha seguito l’esempio, sono quelli di sempre: Israele sarebbe uno Stato autoritario e sanguinario, che uccide e affama i palestinesi, privandoli del diritto a creare uno Stato indipendente. A qualsiasi attento osservatore della politica internazionale, argomentazioni del genere suonerebbero quantomeno discutibili, ma all’interno della grande e litigiosa famiglia della sinistra italiana posizioni del genere non sono affatto una novità. Forse è per questo, dunque, che, mentre il centrodestra riaffermava la sua ormai solida amicizia nei confronti di Israele, l’intellighentsia di sinistra si lanciava in una delle sue solite dispute dottrinarie, mischiando in maniera confusa un evento culturale con ben più complessi temi di politica internazionale. E mentre i dotti progressisti disquisivano, difendendo gli israeliani, i palestinesi o tutti e due, in piazza le bandiere con la stella di David venivano incivilmente bruciate.
In realtà, ma c’era da aspettarselo, oltre Gianni Vattimo sono pochi gli intellettuali “noti” ad aver aderito allo strampalato boicottaggio. Gli altri, persino quelli più radicali e antagonisti, hanno preferito salvare la faccia, difendendo ipocritamente il diritto a esistere di Israele (sulla cartina geografica e nelle sale del Lingotto), salvo poi affondare i soliti colpi ideologici contro i tiranni di Tel Aviv. Dopo due mesi di lunghissime discussioni, ieri la Fiera ha aperto i battenti, accolta da interventi a pioggia sui più importanti giornali italiani. Abbiamo scelto, come dicevamo all’inizio, quattro personaggi sicuramente noti, esponenti politici o culturali di aree diverse del panorama della sinistra italiana. Gabriele Polo, direttore de il Manifesto, nel suo editoriale di ieri ha riaffermato la contestatissima linea del giornale: no al boicottaggio perché il Manifesto, scrive Polo, “ha ancora la presunzione di ritenere che la cultura possa essere luogo d’incontro e confronto, anche con chi lo nega (ovviamente Israele, ndr)”. Parole condivisibili, senza dubbio. Ma Polo, che per formazione culturale e politica ha ovviamente una visione molto chiara della vicenda mediorientale, continua: “Ma oggi, con la stessa forza con cui difendiamo la legittimità all’esistenza dello Stato d’Israele difendiamo il diritto alla critica delle pratiche oppressive dei suoi governi. […] Da oggi a sabato, a Torino, non è in gioco il diritto di vivere dello Stato israeliano, ma la libertà di denunciare e contestare le condizioni di non-vita cui sono ridotti i palestinesi, la possibilità di tenere aperta una prospettiva di pace e un movimento coerente con essa”. Per la serie: compagni, siamo contro il boicottaggio ma è giusto che lo facciate. Strane contorsioni culturali.
Sempre su il Manifesto, intervistato da Tommaso Di Francesco, il premio Nobel Dario Fo assume una posizione simile, seppure più marcatamente antiisraeliana. L’attore e commediografo alla Fiera ci sarà, non solo come visitatore ma anche (e soprattutto) come ospite e relatore. “Ci sarò. Per la Palestina”, dichiara orgoglioso. “Avrei dovuto presentare il mio libro appena pubblicato. Invece ho scelto di parlare di Palestina”. Ma Fo si scaglia anche contro la separazione tra cultura e politica, fedele alla dottrina di chi, in fondo, ha sempre affermato che persino il personale è politico. E infine il rimpianto: non aver organizzato una Fiera dei due popoli “è la sconfitta della speranza”. Israele ospite, dunque? Sì, ma solo insieme alla Palestina. Pretesa in verità poco democratica e un po’ fuoriluogo, visto che di letteratura si tratta, non di negoziati di pace.
Di tutt’altro tenore gli interventi di Walter Veltroni e Piero Fassino, rispettivamente dalle colonne di Corriere della Sera e La Stampa. Le posizioni dei due esponenti di spicco del Partito democratico rappresentano, vivaddio, una sinistra che sta cambiando (a fatica) e che potrebbe finalmente diventare davvero come i grandi partiti liberalsocialisti e socialdemocratici di tutta Europa. Veltroni divide la sua analisi in due parti: l’errore di boicottare e l’ostilità nei confronti dello Stato di Israele. “Come possa un qualsiasi uomo di cultura che voglia davvero essere tale chiedere di far tacere altri uomini di cultura, negare ascolto alle loro parole è difficile capire. Tanto più quando si tratta di autori che sostengono l’unica possibilità che israeliani e palestinesi hanno di convivere pacificamente: il dialogo, il riconoscimento delle reciproche sofferenze e speranze, il diritto degli uni a vivere in casa propria senza paura, degli altri a vivere in un loro Stato indipendente”. Sembrerebbe, di primo acchito, l’ennesimo esercizio di “ma anchismo” veltroniano, se non fosse che il segretario del Pd continua con sempre maggiore fermezza, difendendo senza se e senza me il diritto a esistere dello Stato di Israele: “A preoccupare è un clima, sono posizioni, che nascono da un pregiudizio e che possono condurre a conseguenze pericolose. Il pregiudizio procede lungo un confine sottile, che separa le critiche ragionate e per questo legittime alle politiche dei governi israeliani, da quelle ideologiche, manichee: Israle ha sempre torto, la “colpa” è sempre sua, anche quando il coraggio di chiudere un accordo manca alla controparte o quando magari formazioni arabe fanno fuoco le une contro le altre. Le conseguenze pericolose”, continua Veltroni, “stanno […] nel fatto che oltre alla critica a Israele spesso viene chiamato in causa l’interno popolo ebraico. Forse non apertamente, forse con un “non detto”, che però nulla toglie ai rischi di un risorgente antisemitismo”.
Piero Fassino, invece, parla più con la pancia e più da uomo di sinistra rispetto a Veltroni. Ribadendo il suo fermo no al boicottaggio e la volontà di presenziare alla Fiera “in primo luogo come parlamentare della Repubblica Italiana e anche come cittadino democratico”, l’ultimo segretario dei Democratici di sinistra paragona il boicottaggio alle bandiere bruciate in piazza: “Se bruciare le bandiere è un gesto ignobile, non meno scellerato è contestare la presenza di Israele ad una iniziativa culturale fondata sul libro. Il libro è stato per secoli lo strumento principale di conoscenza, […] a cui nazioni, popoli e l’umanità intera hanno affidato i loro percorsi di libertà e di emancipazione. Tant’è che ogni volta che si è voluto reprimere un popolo o una cultura o una religione, se ne sono mandati al rogo i libri”. E chiude tentando una rischiosa affermazione del rapporto storico, “un nesso inscindibile”, tra sinistra ed ebraismo. E’ innegabile che una parte della sinistra abbia intrattenuto rapporti più che buoni con il popolo ebraico. Ma è altrettanto vero che con la nascita dello Stato di Israele qualcosa è cambiato e la sinistra italiana si è sempre più avvicinata alle posizioni palestinesi, anche in periodi in cui l’intento terroristico era addirittura più evidente di adesso.
Fin qui, dunque, la discussione culturale che, diciamocelo francamente, si è già vista fin troppe volte all’interno del mondo di sinistra. Di nuovo, stavolta, forse c’è solo il risvolto politico della vicenda. In fondo Veltroni e Fassino rappresentano quel Pd che ha fagocitato la sinistra radicale estromettendola dal Parlamento dopo sessant’anni. Quella stessa sinistra, però, che ancora riempie le piazze e troppo spesso tace di fronte a episodi di intolleranza anacronistici e privi di logica. E mentre a Torino la bandiera di Israele viene bruciata, a Roma il sindaco Alemanno, che qualcuno si ostina a definire “picchiatore fascista”, la faceva sventolare sul pennone del Campidoglio, a celebrare i sessant’anni dello Stato ebraico e a ribadire, se ancora ce ne fosse bisogno, che quel cambiamento che si attende a sinistra, la destra l’ha già portato a termine.

I Supereroi invadono Hollywood

Ideazione.com
9 maggio 2008

La seguente parata di stelle di prima grandezza di Hollywood ha raccolto, nel corso degli anni, ben sei premi Oscar e venticinque nomination: Hugh Jackman, Ian McKellen, Halle Berry, Willem Defoe, Tobey Maguire, Alfred Molina, Eric Bana, Jennifer Connelly, Nick Nolte, Ben Affleck, Colin Farrell, Jennifer Garner, John Travolta, Roy Scheider, Nicolas Cage, Peter Fonda, Robert Downey Jr., Gwyneth Paltrow, Jeff Bridges, Samuel L. Jackson, Edward Norton, Liv Tyler, Tim Roth, William Hurt. Non stiamo parlando del cast stellare del prossimo capolavoro di Steven Spielberg, né dei nominati ai prossimi Academy Awards.
Nonostante si tratti di nomi che senza dubbio resteranno nella storia della settima arte, in questo caso ci interessano semplicemente perché, dal 2000 al 2008, sono stati tutti vittime della Marvel Fever. E’ una strana malattia che sta contagiando decine di star e che prende il nome dalla storica casa editrice di fumetti. Dal primo X-Men (2000) a L’Incredibile Hulk (in uscita il prossimo giugno), i Marvel Comics hanno conquistato una fetta considerevole dell’immensa e succulenta torta del cinema hollywoodiano. Supereroi, effetti speciali, budget stellari, sono gli ingredienti principali di un business che non accenna a fermarsi. Qualcuno potrebbe dire che sono le solite americanate, i soliti kolossal da botteghino, privi di consistenza narrativa e assolutamente scadenti dal punto di vista della qualità. E invece no, ancora una volta gli snob di celluloide prenderebbero una cantonata madornale. Semplicemente perché alcuni di questi film possono essere considerati capolavori del genere, con ottime sceneggiature e superbe interpretazioni attoriali.
Basti pensare alla trilogia di Spiderman, magistralmente diretta da Sam Raimi e con un ottimo Tobey Maguire nei panni dell’Uomo Ragno. Le avventure del giovane Peter Parker, già universalmente conosciute grazie ai fumetti a partire dal 1962, con la trasposizione cinematografica sono diventate oggetto di culto per le nuove generazioni. Ed è merito anche, e soprattutto, dell’ottima fattura delle tre pellicole. Molti critici e studiosi di cinema pensano, sbagliando, che ai giovani non importi la qualità di un film, che basino il loro giudizio su altre caratteristiche quali gli effetti speciali, la colonna sonora, il merchandising, il battage pubblicitario. Invece proprio i giovani cinefili stanno dimostrando un’attenzione smisurata per i film di buona fattura. Che si tratti di action movie, comics movie o film d’autore poco importa. Quello che conta è la qualità.

L’hanno capito perfettamente anche i produttori, che da X-Men in poi hanno curato sempre di più l’aspetto narrativo, senza ovviamente tralasciare gli effetti speciali, dai quali non si può prescindere per film del genere. Non stupisce, dunque, che la carriera di un dimenticato (ma sempre bravissimo) Robert Downey Jr. stia riprendendo vertiginosamente quota proprio grazie ad Iron Man, altro Supereroe che ha abbandonato le pagine dei fumetti per sbarcare al cinema. E la contagiosa supereroi-mania è ormai diventata anche in, cool, glamour, come direbbero i sofisticati frequentatori dei salotti newyorchesi, se è vero che un mostro sacro della moda come Giorgio Armani ha organizzato una sontuosa mostra dal titolo Superheroes, Fashion and Fantasy, interamente dedicata agli abiti indossati dai Supereroi dei fumetti. Tutto lo star system era presente al vernissage, preceduto da un raffinatissimo gala di beneficenza.

La grandissima popolarità dei fumetti al cinema, dunque, rende giustizia a un genere letterario, nessuno si scandalizzi se lo chiamiamo così, troppo spesso bistrattato nel corso dei decenni. Per lunghissimi anni ci hanno raccontato che l’appassionato-tipo di fumetti era un ragazzo della provincia americana, maniacale collezionista di album e strisce, magari con qualche problema di socializzazione e voglia di fuga dalla realtà. Ma il cinema, ormai è cosa nota, può trasformare la visione comune che si ha di un particolare fenomeno. Oggi i fumetti, soprattutto quando si trasformano in kolossal hollywoodiani, diventano opere d’arte, veri e propri capolavori. Nonostante i tanto commerciali effetti speciali, nonostante i gadget e il giro di miliardi creato dal merchandising, nonostante sbanchino puntualmente il botteghino. E’ un altro passo verso la consapevolezza che il cinema non è grande solo quando annoia.