Ffwebmagazine
26 marzo 2009
«Credo fermamente nel fascismo. Il solo modo che abbiamo per vivificare questa specie di liberalismo ristagnante è di accelerare l'avvento di una tirannia di destra che sia totalmente dittatoriale. La gente diventa molto più efficiente se sottoposta a un regime. La televisione, credo che non ci sia bisogno di dirlo, è la cosa più fascista che ci sia. Anche i divi del rock sono fascisti. E Hitler è stato uno dei primi divi del rock». Chissà cosa avrà pensato Cameron Crowe quando, nel 1976, si sentì dire queste parole da David Bowie nel corso di un’intervista per Playboy. Di sicuro servirono ad alimentare la leggenda di un Duca Bianco estremista di destra, politicamente diverso dal resto dei suoi colleghi dell’epoca. Forse è per questo che Bob Dylan lo detestava e che molte altre star engagées dell’epoca lo guardavano con diffidenza.
Ma è davvero possibile definire fascista il David Bowie bisessuale, sempre eccentrico nell’abbigliamento e nello stile di vita, dedito ad alcool e droghe, certamente promiscuo sessualmente? Nì, verrebbe da rispondere. Perché in fondo, in quegli anni, gli individui come Bowie dovevano a tutti i costi definirsi di destra. A cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta, il mondo della musica era un coacervo di peace & love, figli dei fiori, rivoluzioni, diritti civili, radicalismo di sinistra, femminismo e black power. E un marziano come Bowie, individualista, egocentrico, narcisista, dissoluto e tremendamente disimpegnato, diventava giocoforza un estremista di destra. Anche prima delle frasi su Hitler e la necessaria dittatura di destra, David Bowie era già considerato un fascista, un controrivoluzionario, un individualista che se ne infischiava dei problemi del popolo.
Con gli strumenti culturali e politici di adesso, però, possiamo tranquillamente dire che il Duca Bianco non fu fascista, o quantomeno non lo fu nell’accezione classica del termine. Mai sarebbe stato un supporter di Mussolini e Hitler, per intenderci, perché c’era troppa voglia di libertà, di anarchia, di esperienze nuove e oltre il limite del consentito dalla morale comune. Per capire il rapporto tra Bowie e cultura di destra, ci viene in soccorso una distinzione storiografica tutta italiana: quella tra fascismo regime e fascismo movimento. Data per scontata l’inconciliabilità del re del glam rock con il primo, diverso è il discorso per quanto riguarda la seconda ipotesi. David Bowie è un fascista delle origini, rivoluzionario e socialisteggiante, anarchico eppur sostenitore dell’uomo forte a reggere le sorti della società.
Un’apparente contraddizione che va compresa all’interno di un movimento, il glam-punk britannico degli anni Settanta, che ne è l’esempio più lampante. Ordine e libertinaggio: questo il credo di Bowie. Il cantante non ha mai avuto fiducia in quel soggetto non meglio identificato che definiamo popolo. Per lui la massa andava indirizzata attraverso un governo autoritario, lasciando però intatte (e questo è il tratto caratteristico della strana destra di Bowie) le libertà individuali. Sesso, droga e rock’n’roll, verrebbe da dire utilizzando un logoro luogo comune. Eppure proprio questa è la summa di quella che per Bowie è la libertà dell’individuo, almeno nella sua esperienza artistica e personale. Proprio la necessità di coniugare Stato forte e libertà individuali fa di Bowie un convinto anticomunista. Heroes, forse la più bella canzone rock mai scritta, è il suo manifesto anticomunista: lo sfondo è il Muro di Berlino, i protagonisti un ragazzo e una ragazza che si incontrano segretamente sotto una torretta di guardia. «Possiamo batterli, ancora e per sempre. Possiamo essere eroi, anche solo per un giorno”: non la sollevazione popolare, non una rivoluzione, ma due individui che si ribellano al regime per amore, per un tornaconto personale, perché vogliono stare insieme». L’individualismo di Bowie è tutto in questa canzone. Ne viene fuori un essere umano che non è cinico né scevro da emozioni e passioni, ma che allo stesso tempo pensa a sé stesso, ai suoi bisogni, e riesce ad apprezzare la libertà proprio perché la mancanza di quest’ultima gli preclude la felicità.
Dannunziano, fascista delle origini, libertario, anarchico? David Bowie è forse tutto questo ma anche molto altro. E soprattutto è ribelle, a prescindere dalle logore categorie di destra e sinistra. Il ribellismo di David Bowie è individualista, incazzato, privo di ipocrisia umanitaria o terzomondista. E Cygnet Committe, struggente e rabbiosa canzone-manifesto contenuta nel mitico Space Oddity, ne è la prova definitiva: un urlo lungo dieci minuti, uno sfogo libertario in bilico tra pessimismo e delusione. I sogni infranti di una generazione che alla fine sfociano in un “Vogliamo vivere” ripetuto come un mantra, a riaffermare che in fondo quello che serve all’uomo per essere davvero libero è il pieno controllo sulla propria vita. E soprattutto, e in questo Bowie è stato davvero un maestro, il pieno controllo sui propri errori ed eccessi. Lasciateci sbagliare, insomma: non chiediamo nient’altro.
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