Pagine

martedì 22 settembre 2009

Bye bye Billionaire?

Ffwebmagazine
22 settembre 2009

Tra domenica e lunedì, qualcosa è cambiato nell'immaginario cultural-popolare italiano. Due eventi distinti, molto diversi tra loro, di gravità diversa, eppure entrambi significativi e a modo loro rivoluzionari: la pessima figura in diretta di Simona Ventura, caduta nella trappola dei Muse, scambiatisi di ruolo senza che l'ex giudice di X-Factor (e quindi esperta di musica) se ne accorgesse, e la clamorosa esclusione a vita dalla Formula Uno di Flavio Briatore, colpevole di aver costretto Nelson Piquet Jr. ad andare a sbattere per favorire l'allora compagno di squadra Fernando Alonso.

A prima vista pare non esserci nulla a legare le due cose. E invece, a guardar bene, è il triste destino che colpisce due dei più illustri esponenti dell'Italia del Billionaire, quel paese irreale che negli ultimi anni ha dominato la scena mondana del nostro paese. Il guaio, infatti, è che alla dannosa e pluridecennale egemonia culturale della sinistra, il Duemila ha opposto l'orgogliosamente ignorante anticultura del privé, degli abiti appariscenti, del vuoto culturale farcito di benessere vero o presunto, della Costa Smeralda, delle veline e dei tronisti, dei Corona, delle Belen e delle serate milanesi all'Hollywood.

C'è un'Italia migliore, lontana da tutto questo, che negli ultimi tempi, ammettiamolo, ha fatto una tremenda fatica. Non è riuscita, per colpa sua o altrui, a rialzare la testa, a dimostrare che tra i salotti radical chic intrisi di snobismo di una certa sinistra e i salottini di vimini e cuscinoni bianchi di Porto Cervo c'è altro. C'è un paese che vuole riscoprire una propria identità, che si è stufato di dover accettare passivamente quella che gli attribuiscono ora gli intellettuali, ora i divi della televisione. 

Gli scivoloni di Ventura e Briatore, peraltro (e non a caso) amici di vecchia data, potrebbero creare una falla nel regno dello Stracafonal, nel Paese dei Balocchi che tanti danni rischia di fare sulla formazione culturale e sulle aspirazioni di intere generazioni. Bisogna rendersi conto che la normalizzazione del paese e la fine dell'estenuante transizione non passano solo per i palazzi della politica ma anche, e forse soprattutto, dall'immaginario culturale che offriamo alla società. Sperando che Massimo D'Azeglio non si rivolti nella tomba, potremmo dire che purtroppo l'Italia è (stra)fatta. Ora bisogna (ri)fare gli italiani.

venerdì 11 settembre 2009

11 settembre 2001: anche se Bush jr ha sbagliato...

Ffwebmagazine
11 settembre 2009

A volte, nel corso della storia, basta un solo errore per far dimenticare cose fondamentali, imprescindibili, senza le quali non si può capire da che punto analizzare un particolare evento. È il caso dell’11 settembre 2001, del giorno “che ha cambiato il mondo”. Ha cambiato tutti noi, non solo il mondo. E nonostante ogni anno puntualmente ricordiamo quella giornata terribile, abbiamo perso il senso reale di quell’immane tragedia.

L’errore di cui si parlava prima è senza dubbio ascrivibile a George W. Bush, iniziamo ad ammettere questo. L’unilateralismo senza se e senza ma che ha spinto le pur lodevoli intenzioni della vecchia amministrazione americana ha creato un clima tale di diffidenza e dissenso che oggi, ricordando il crollo delle Twin Towers e le 2.974 vittime, colleghiamo immancabilmente la vicenda a Bush, alle guerre, ad Abu Grahib e Guantanamo. E Osama Bin Laden? E i diciannove dirottatori che in quella mattinata newyorkese scioccarono l’opinione pubblica mondiale? Quelli li ricordiamo meno, perché al giorno d’oggi è più cool fare così. I salotti buoni dell’Occidente radical chic hanno rimosso l’11 settembre, sostituendolo con l’orrore per le bombe, per il vero o presunto fosforo bianco di Falluja, per le vittime civili in Afghanistan. Eppure quella sera eravamo tutti americani, pronti a ricoprirci di stelle e strisce per difendere la libertà e la democrazia. Lodi sperticate a Rudolph Giuliani, persino allo stesso Bush.

Poi qualcosa è cambiato, si è rotto, soprattutto quando Washington ha deciso di puntare i propri caccia sull’Iraq di Saddam Hussein. La freddezza europea (Francia e Germania in primis) ha tracciato il sentiero lungo il quale le solite schiere di antiamericani e pacifisti hanno scorazzato allegramente. Sia chiaro: l’unilateralismo bushiano è stato un errore strategico, diplomatico e politico. Le ottime intenzioni di chi voleva “esportare la libertà” (brutta espressione che non rende giustizia a un concetto sacrosanto) sono state malamente messe in pratica con un approccio troppo muscolare e arrogante.

Ciononostante, niente di tutto questo avrebbe dovuto oscurare il ricordo dell’11 settembre. Eppure è successo e oggi anche i più strenui difensori dell’America hanno quasi pudore a commemorare quella data con il dovuto slancio emotivo. E in più, adesso, c’è Obama con il suo nuovo approccio dialogante con il mondo musulmano (peraltro per nulla sbagliato), e sottolineare troppo quanto cattivi sono stati i fondamentalisti islamici quel giorno non è opportuno. Già, come se i sentimenti dell’America profonda, quella lontana da New York o dalla costa californiana, che ancora oggi sente dentro un misto di paura e rabbia, non contino niente, abbiano meno dignità solo perché espressione di una società ricca e democratica, ormai una colpa in una società che in tempo di crisi economica ha riesumato la pelosa retorica pauperistica e terzomondista. Ma né Bush con i suoi errori, né il nuovo corso obamiano, tantomeno l’indifferenza dell’Europa, potranno cancellare la realtà della storia.

Bisognerebbe rilanciare, se solo i mainstream media lo permettessero, lo spirito di quei giorni, il senso di unità del mondo libero e democratico (non indispensabilmente occidentale o cristiano, beninteso) nei confronti di chi voleva metterci paura, di chi voleva condizionare le nostre scelte e farci pensare che in fondo quelli che stavano sbagliando eravamo noi. Al contrario, non bisogna mai vergognarsi della propria libertà. E il fatto che a soli otto anni da quel giorno l’attenzione sia calata così tanto, dovrebbe farci riflettere. L’attacco terroristico più grave della storia non può essere cancellato dalla memoria collettiva per ragioni politiche. E noi italiani, che nonostante l’atavica diffidenza nei confronti degli Usa di alcune frange dell’opinione pubblica, in quell’occasione ci siamo dimostrati fedeli amici di Washington, dovremmo essere in prima fila in questa operazione di recupero di una memoria così dolorosa e lacerante. Ma forse, per un paese come il nostro che ancora litiga sull’opportunità o meno di festeggiare i 150 anni di unità, è chiedere un po’ troppo.

sabato 5 settembre 2009

Quando basta l'amore per scalfire il pregiudizio


La banalità di un amore qualunque, l’ordinarietà di una vita di coppia. L’amore e basta, appunto, proprio come il titolo del documentario di Stefano Consiglio, prodotto da Angelo Barbagallo e Andrea Occhipinti per la Lucky Red, presentato in questi giorni alla Mostra del cinema di Venezia. Il fatto che le nove storie d’amore raccontate siano omosessuali è un dettaglio, non un tratto caratterizzante che rende diverse quelle esperienze rispetto al resto delle relazioni sentimentali. Lo scopo di Consiglio, in effetti, era proprio quello di presentare al pubblico delle vicende ordinarie, a dimostrazione che l’amore omosessuale non è qualcosa di altro, di distinto, di parallelo o di alieno. Qualcosa da cercare altrove e in un mondo distante dalla quotidianità della gente “normale”.

Il viaggio attraverso l’Europa, introdotto dall’interpretazione, da parte di Luca Zingaretti, di una poesia di Aldo Nove, parte da Catania e arriva a Barcellona, passando per Parigi, Berlino, Palermo, la bassa padana, Roma, Versailles. Un Grand Tour dei sentimenti che ci racconta di famiglie, relazioni lunghe trent’anni, figli, opinioni differenti su alcuni temi che riguardano le persone omosessuali. È un microcosmo che riproduce, in piccolo, l’eterogeneità di qualsiasi altro gruppo di persone. Perché nessun gruppo sociale è un monolite, omologato e uguale a sé stesso. E anche nei confronti della religione gli intervistati si pongono in maniera decisa e senza dubbi: «Dio non è contro di noi. Non può rifiutare nessuna delle sue creature». 

In giorni come questi, con l’allarme omofobia che ha fatto capolino tra le coscienze ancora stordite dal sole estivo, l’uscita nelle sale di un film come quello di Consiglio è una boccata d’aria pura. Non c’è Svastichella che tenga, insomma, quando si ha a che fare con l’amore. Nessun pregiudizio può scalfire il racconto pacato, addirittura quasi noioso, delle vicende quotidiane di queste nove coppie. Non stupisce, dunque, che qualche oltranzista delle rivendicazioni urlate abbia storto il naso, non cogliendo appieno la forza del messaggio del documentario. Si chiedeva più incisività, un approccio forse più politico (o addirittura ideologico). Ma cosa c’è di più incisivo della banale rappresentazione dell’amore? I movimenti Lgbt dovrebbero capire, forse, che la conquista da ottenere a tutti i costi è il riconoscimento, da parte della società, dell’ordinarietà dell’amore gay.

Per troppo tempo, parallelamente a un’omofobia gretta e dura a morire, correva in Italia la voglia di sentirsi diversi, da parte degli omosessuali, e di essere percepiti come tali. Forse come reazione all’intolleranza, forse no.  Fatto sta che questa “strategia” si è dimostrata inadatta al riconoscimento dei diritti da parte dello Stato e, prima ancora, dell’opinione pubblica. La rivoluzione sta nel rovesciare i luoghi comuni della frivolezza e della superficialità di un mondo troppo sfaccettato e ricco di sfumature per essere catalogato tutto insieme, senza distinzione alcuna. A livello politico, poi, questo approccio si sta facendo largo sempre di più. Anche a destra. Anzi, soprattutto a destra. L’approccio ideologico al problema che ha contraddistinto alcune battaglie della sinistra era stato controproducente. Il pragmatismo della destra nei confronti della questione dei diritti alle persone omosessuali può essere di gran lunga più utile alla causa. Non è un caso, ad esempio, che anche all’interno del movimento Lgbt serpeggi una frase sibillina, una via di mezzo tra una battuta e una speranza: «Vuoi vedere che alla fine i nostri diritti verranno riconosciuti da un governo di destra?». L’ipotesi, inimmaginabile fino a pochi anni fa, oggi non sembra così peregrina.

E allora ben vengano film come quello di Consiglio. Ben venga la rappresentazione “normale” e banale del rapporto di coppia, a prescindere dal genere delle persone coinvolte. A guidare le battaglie del movimento gay non dovrebbe essere l’oltranzismo e la voglia di provocare a tutti costi. È sufficiente l’amore. L’amore e basta.

Ffwebmagazine
5 settembre 2009

giovedì 3 settembre 2009

L'integrazione vera abita a Edgware Road

Ffwebmagazine 
3 settembre 2009

Non è una strada di un sobborgo grigio dell'East londinese, né una pericolosa viuzza di Brixton, la zona delle guerre tra gang che stanno insanguinando la gioventù inquieta del sottoproletariato figlio dell'immigrazione. Edgware Road è una delle strade più lunghe e importanti della parte occidentale di Central London, il cuore pulsante della città, il centro di una delle metropoli più vive e importanti dell'Occidente. A poche centinaia di metri c'è la zona chic di Marble Arch e Mayfair (Madonna e Tony Blair vivono lì, tanto per intenderci); o ancora la zona diplomatica di Marylebone, sede delle più importanti ambasciate. Eppure, lungo i marciapiedi di Edgware Road, si sente parlare quasi esclusivamente in arabo o al massimo, in qualche caso, in farsi. Sì, perché Edgware Road, nel cuore della Londra che conta, è conosciuta anche come Little Cairo o Little Beirut ed è il centro pulsante della presenza araba e musulmana nella capitale britannica.

Degrado e criminalità, dunque? Per nulla: da quelle parti gli schemi preconfezionati dell'immigrazione sinonimo di delinquenza non funzionano, non attaccano. Il quartiere è da decenni uno dei più vivaci e interessanti del compassato West della città. È davvero un'esperienza inusuale, per un italiano abituato al dibattito nostrano sull'immigrazione, leggere le insegne in arabo delle farmacie, usare una tastiera in arabo in un internet point, osservare placidi e barbuti uomini che fumano il narghilé fuori dagli shisha café giocando a dadi o a domino. Dal 2007, con l'introduzione anche in Inghilterra del divieto di fumare nei locali pubblici, questi posti ricchi di storia, che riportavano alle atmosfere del Medio Oriente che fu, si sono adeguati, non senza qualche vibrante protesta, e le famose “pipe ad acqua” dai mille profumi sono state trasferite all'esterno.

E non mancano gli inglesi doc tra la gente che vive lì. Figli orgogliosi di Albione che non si scandalizzano, né storcono il loro snobissimo naso. Capiscono che se il mondo sta diventando multietnico, Londra lo è sempre stata. La capitale di quello che fu un impero vastissimo non può dimostrarsi ottusa proprio adesso. Londra non è mai stata altezzosa come Parigi, marziale come Berlino o provinciale come Roma. Ha accolto i “sudditi” oltremare di Sua Maestà con diffidenza, a volte con paura, ma non ha mai chiuso le porte all'integrazione né ha negato una possibilità a nessuno.

Edgware Road, dunque, è la metafora di un modo di intendere l'integrazione multietnica che non ha ancora fatto breccia in altre parti del nostro continente. Ma anche lì le cose non sono sempre andate bene. La stazione della metropolitana di Edgware, ad esempio, è stata colpita dagli attentati del 7 luglio 2005. Immigrati musulmani di seconda generazione, con passaporto britannico, hanno messo a ferro e fuoco anche il simbolo dell'integrazione della loro gente. E la diffidenza ha serpeggiato anche lungo le rive del Tamigi, come in fondo era normale che fosse. Ma il contraccolpo del 7 luglio di quattro anni fa è durato poco. Oggi Edgware è ancora la Little Cairo di un secolo fa, la Little Beirut dell'epoca della guerra civile in Libano, la Little Teheran del periodo della rivoluzione khomeinista. È il simbolo di un'integrazione che è possibile e che non deve includere la rinuncia a tradizioni e culture millenarie da parte degli immigrati. Si può rispettare il paese che ospita anche senza dimenticare le proprie radici. Edgware Road dovrebbe fare scuola, anche nel nostro paese. Qualcuno organizzi un viaggio di istruzione a Londra, per piacere. E si parta da Pontida, ovviamente.