Ffwebmagazine
11 settembre 2009
A volte, nel corso della storia, basta un solo errore per far dimenticare cose fondamentali, imprescindibili, senza le quali non si può capire da che punto analizzare un particolare evento. È il caso dell’11 settembre 2001, del giorno “che ha cambiato il mondo”. Ha cambiato tutti noi, non solo il mondo. E nonostante ogni anno puntualmente ricordiamo quella giornata terribile, abbiamo perso il senso reale di quell’immane tragedia.
L’errore di cui si parlava prima è senza dubbio ascrivibile a George W. Bush, iniziamo ad ammettere questo. L’unilateralismo senza se e senza ma che ha spinto le pur lodevoli intenzioni della vecchia amministrazione americana ha creato un clima tale di diffidenza e dissenso che oggi, ricordando il crollo delle Twin Towers e le 2.974 vittime, colleghiamo immancabilmente la vicenda a Bush, alle guerre, ad Abu Grahib e Guantanamo. E Osama Bin Laden? E i diciannove dirottatori che in quella mattinata newyorkese scioccarono l’opinione pubblica mondiale? Quelli li ricordiamo meno, perché al giorno d’oggi è più cool fare così. I salotti buoni dell’Occidente radical chic hanno rimosso l’11 settembre, sostituendolo con l’orrore per le bombe, per il vero o presunto fosforo bianco di Falluja, per le vittime civili in Afghanistan. Eppure quella sera eravamo tutti americani, pronti a ricoprirci di stelle e strisce per difendere la libertà e la democrazia. Lodi sperticate a Rudolph Giuliani, persino allo stesso Bush.
Poi qualcosa è cambiato, si è rotto, soprattutto quando Washington ha deciso di puntare i propri caccia sull’Iraq di Saddam Hussein. La freddezza europea (Francia e Germania in primis) ha tracciato il sentiero lungo il quale le solite schiere di antiamericani e pacifisti hanno scorazzato allegramente. Sia chiaro: l’unilateralismo bushiano è stato un errore strategico, diplomatico e politico. Le ottime intenzioni di chi voleva “esportare la libertà” (brutta espressione che non rende giustizia a un concetto sacrosanto) sono state malamente messe in pratica con un approccio troppo muscolare e arrogante.
Ciononostante, niente di tutto questo avrebbe dovuto oscurare il ricordo dell’11 settembre. Eppure è successo e oggi anche i più strenui difensori dell’America hanno quasi pudore a commemorare quella data con il dovuto slancio emotivo. E in più, adesso, c’è Obama con il suo nuovo approccio dialogante con il mondo musulmano (peraltro per nulla sbagliato), e sottolineare troppo quanto cattivi sono stati i fondamentalisti islamici quel giorno non è opportuno. Già, come se i sentimenti dell’America profonda, quella lontana da New York o dalla costa californiana, che ancora oggi sente dentro un misto di paura e rabbia, non contino niente, abbiano meno dignità solo perché espressione di una società ricca e democratica, ormai una colpa in una società che in tempo di crisi economica ha riesumato la pelosa retorica pauperistica e terzomondista. Ma né Bush con i suoi errori, né il nuovo corso obamiano, tantomeno l’indifferenza dell’Europa, potranno cancellare la realtà della storia.
Bisognerebbe rilanciare, se solo i mainstream media lo permettessero, lo spirito di quei giorni, il senso di unità del mondo libero e democratico (non indispensabilmente occidentale o cristiano, beninteso) nei confronti di chi voleva metterci paura, di chi voleva condizionare le nostre scelte e farci pensare che in fondo quelli che stavano sbagliando eravamo noi. Al contrario, non bisogna mai vergognarsi della propria libertà. E il fatto che a soli otto anni da quel giorno l’attenzione sia calata così tanto, dovrebbe farci riflettere. L’attacco terroristico più grave della storia non può essere cancellato dalla memoria collettiva per ragioni politiche. E noi italiani, che nonostante l’atavica diffidenza nei confronti degli Usa di alcune frange dell’opinione pubblica, in quell’occasione ci siamo dimostrati fedeli amici di Washington, dovremmo essere in prima fila in questa operazione di recupero di una memoria così dolorosa e lacerante. Ma forse, per un paese come il nostro che ancora litiga sull’opportunità o meno di festeggiare i 150 anni di unità, è chiedere un po’ troppo.
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