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domenica 29 novembre 2009

E il sindaco disse: "Niente condom a San Siro"...

Ffwebmagazine
29 novembre 2009


L’iniziativa di Landi non è piaciuta al sindaco Moratti che, riporta l’edizione milanese del Corriere di ieri, non vuole «dipingere Milano come la città dove si beve e ci si droga di più, dove le ragazze si prostituiscono per un iPod e dove c’è il picco di casi di Aids». Fermi tutti, allora. Niente sensibilizzazione, niente profilattici ai tifosi di Milan e Inter. L’assessore Landi, «per rispetto verso il sindaco e per senso di responsabilità verso la maggioranza», ha annullato tutto. Come se non bastasse la volontà del primo cittadino, in realtà poco comprensibile, di evitare “allarmismi” (qualcuno spieghi la differenza fondamentale tra allarme e allarmismo all’ex ministro dell’Istruzione), il consigliere del Pdl Michele Mardegan ha messo il carico da undici sulla vicenda. Per l’esponente di centrodestra, Landi avrebbe l’intenzione di incentivare «il rapporto occasionale, cosa a cui è prioritariamente legato l’uso del profilattico, quando invece servirebbe un’educazione dei giovani milanesi al sesso responsabile». A stretto giro di posta la replica dell’assessore alla Salute: «Io aiuto i giovani ad avere una sessualità più protetta e respingo queste posizioni vetero-conservatrici».

Fin qui la polemica politica. Ma quello che conta di più è sottolineare l’arretratezza culturale della classe politica italiana nei confronti di argomenti così dannatamente seri come quello dell’AIDS. Si pensava (o almeno si sperava) che sull’uso necessario del profilattico come strumento di lotta al contagio fossimo tutti d’accordo. Si pensava (o almeno si sperava) che fossimo ormai tutti consapevoli che i giovani (e non solo loro) fanno sesso, lo fanno spesso e vanno aiutati a farlo in maniera sana e responsabile. Si pensava (o almeno si sperava) che nessuno pretendesse ancora dai giovani la castità totale fino al matrimonio, soprattutto in un’epoca in cui ci si sposa se tutto va bene non prima dei 34-35 anni.

Invece pare che la strada da fare sia ancora lunga e la distinzione tra convinzioni personali dei politici e bene comune dei cittadini amministrati sia tutta da costruire, rispettare e condividere. Ma se la commistione tra due sfere così diverse può dar fastidio, in generale, a chi preferirebbe una politica laica, nel caso specifico la reazione diventa ancora più rabbiosa. Semplicemente, e non è poco, perché si sta parlando di AIDS, di una malattia devastante che ha ucciso tanta, troppa gente, e che ancora oggi in Africa o in altre zone in via di sviluppo si espande a macchia d’olio tra l’impotenza (o l’indifferenza?) dell’Occidente. E di AIDS, almeno questo speriamo lo si sappia, non si guarisce, non esistono vaccini né cure. Se un occidentale si ammala oggi può sperare di vivere a lungo grazie alla ricerca sui farmaci retrovirali, ma guarire no, non è possibile. Ed è impossibile anche evitare le decine di complicazioni connesse al virus che rendono la vita del malato ben al di là del limite della sopportazione.

Stante questa situazione ancora drammatica, dunque, è il caso di contestare e contrastare la diffusione dell’uso del preservativo? I mass media da tempo hanno abbassato la guardia sull’Hiv, forse perché non è più di moda. Ma il problema c’è, anche in Occidente, ed è enorme. Chi prende le decisioni che contano, che sia un consigliere comunale o un capo di Stato, tenti di rendersene conto appieno. Oppure, se credono, vietino per legge il sesso occasionale e prematrimoniale. In fondo, le cose illegali hanno sempre una certa innegabile attrattiva...

Ci mancava solo la polemica sui profilattici e l’AIDS. Giampaolo Landi di Chiavenna, assessore alla Salute del comune di Milano, non aveva fatto altro che lanciare un’iniziativa di sensibilizzazione contro la sindrome da immunodeficienza acquisita, per il semplice motivo (e lo dicono chiaramente i dati) che i contagi da HIV sono in preoccupante crescita nel capoluogo lombardo. L’idea era quella di distribuire preservativi allo stadio di San Siro, approfittando dell’alta affluenza di pubblico per far capire alla gente che non bisogna abbassare la guardia o abbandonare le minime (e credevamo universalmente accettate) misure di prevenzione.

giovedì 26 novembre 2009

Perché il Ringraziamento non è solo il pranzo col tacchino

Ffwebmagazine
26 novembre 2009
Un tacchino ripieno, abbondante salsa di mirtilli, patate dolci con zucchero, una tavola riccamente imbandita e tanta gente attorno. Ecco cosa conosciamo del giorno del Ringraziamento, forse la festa più sentita e celebrata negli Stati Uniti d’America. Del Thanksgiving Day abbiamo un’immagine stereotipata, figlia dei film e delle serie televisive a stelle e strisce. Il nostro immaginario collettivo, dunque, si è nutrito di tacchino e riunioni di famiglia, ignorando completamente l’origine e il vero significato della festa.

Il 16 dicembre 1620, il Mayflower dei Padri pellegrini era giunto sulle coste del Massachussets alla ricerca di un posto dove poter vivere secondo i dettami del loro credo religioso e lontano dalle imposizioni della Chiesa anglicana. Gli inizi della loro avventura in terra americana furono terribili: quasi la metà di loro non superò il primo inverno. Mancava il cibo, non si sapeva come far fruttare la terra, non si conoscevano molte specie animali e vegetali presenti in America. È qui che subentra la leggenda dalla quale trae origine il giorno del Ringraziamento. Si narra, infatti, che i nativi americani (probabilmente Irochesi) abbiano accolto gli immigrati inglesi (perché di immigrati stiamo parlando) nel migliore dei modi, insegnando loro a cacciare, a seminare e a cuocere i mirtilli e altri frutti. L’abbondanza del raccolto successivo permise ai Padri pellegrini di rafforzare la loro presenza e dare il la a quella che successivamente diverrà una vera e propria colonizzazione.

Ma all’epoca, a quanto pare, gli immigrati inglesi non avevano ancora deciso di sterminare gli indiani d’America e organizzarono una festa di ringraziamento per l’abbondanza dei raccolti, alla quale invitarono anche gli Irochesi. Furono loro, sempre secondo la leggenda, a portare tacchino e mirtilli, che poi sarebbero diventati gli ingredienti principali del Thanksgiving. Una festa di accoglienza, dunque, e di contaminazione reciproca tra indigeni e immigrati, a simboleggiare una collaborazione tra diverse culture e religioni che non può che portare benefici a entrambi.

Successivamente le cose cambiarono, bisogna ammetterlo, e il rafforzamento della presenza bianca e cristiana in quelle terre si accompagnò a una politica di sterminio dei nativi americani, a quello che possiamo tranquillamente definire come uno dei peggiori genocidi della storia. Gli americani dei giorni nostri lo sanno perfettamente, hanno fatto i conti con il loro passato e hanno ammesso colpe e responsabilità. Basti pensare al giorno del Ringraziamento del 1988, quando quattrocento persone (molte delle quali nativi americani) celebrarono la festa nella Chiesa di Saint John The Divine, a New York, per riaffermare il ruolo fondamentale degli indiani non solo nell’origine del Thanksgiving Day ma anche, e soprattutto, nell’insediamento dei primi coloni provenienti dall’Inghilterra.

Ricordare quella festa improvvisata una sera d’autunno del 1621 è importante, e non solo per i nostri amici americani. Quell’incontro tra due mondi così diversi, tra culture che di lì a poco si sarebbero scontrate sanguinosamente, è un seme di tolleranza da non disperdere. L’accoglienza dei migranti, soprattutto per un Occidente che si proclama a gran voce cristiano, dovrebbe essere alla base del nostro vivere civile. Con il rispetto delle leggi e della nostra cultura, ovviamente, ma senza dimenticare che nel corso della storia tutti, ciclicamente, siamo stati migranti, “pellegrini” alla ricerca di una vita migliore. Se pensassimo ai barconi che solcano il canale di Sicilia come a moderni Mayflower, forse riusciremmo a capire meglio le speranze e le attese di chi li affolla. E allora potremmo, simbolicamente, insegnare loro a “cacciare, seminare e procurarsi il cibo”, per poi festeggiare insieme una prospera abbondanza figlia dell’aiuto reciproco. Sostituendo al tacchino, beninteso, i nostri ben più succulenti piatti tradizionali.

mercoledì 11 novembre 2009

Il salotto di Vespa e la casa del Gf? Non sono poi così lontani...

 Ffwebmagazine
11 novembre 2009
“Questa o quella, per me pari sono...”. O forse non è il caso di scomodare Giuseppe Verdi, visto che ci stiamo riferendo alle scintille tra Porta a Porta e Grande Fratello. Questi i fatti: la settimana scorsa Bruno Vespa ha dedicato una puntata al reality dei reality, al padre di tutti gli spioni catodici, ospitando in studio anche Floriana Secondi e Augusto De Megni, ex concorrenti della casa di Cinecittà. Due ore filate per criticare il Gf, per ribadire quanto sia cheap, kitsch, out, desengagé, guardare questo sommo esempio di tv spazzatura e quanto sia stato bello, benefico, rivoluzionario, candido e puro, il successo di ascolti di Pinocchio sui segregati di Canale 5. Bene. Bravo. Bis. Anche se i punti di share che frutta la discussione sul Gf al buon Vespa piacciono e non poco.

Pochi giorni dopo (esattamente lunedì), Alessia  Marcuzzi risponde in diretta, pur senza nominare mai il giornalista di Raiuno: «Ringrazio tutti quelli che ci seguono e tutti i programmi che parlano di noi. Anche quei programmi che parlano di noi in maniera scorretta. Loro sanno a chi mi riferisco. Chi vuole capire capisca». Parata e risposta.

Diatriba tra televisione alta e televisione bassa? Tra il salotto buono della politica e la discarica del nazionalpopolare? Non proprio. Pensiamoci un attimo. Nella casa del Grande Fratello, sconosciuti senza arte né parte urlano, litigano, danno uno spettacolo orribile di sé e del paese. Nel salotto di Bruno Vespa, politici conosciuti o meno (a volte senza arte né parte), urlano, litigano, danno uno spettacolo orribile di sé e del paese. Che sia un capogruppo parlamentare o un tamarro di periferia, dunque, il succo è sempre quello: televisione urlata, inacidita, dove ognuno cerca di gridare più forte dell'altro, perché secondo lo schema dominante chi urla vince e “buca” lo schermo.

Due tipi diversi di reality, dunque, entrambi distanti anni luce, però, dalla realtà. Viene rappresentato un modello di Italia che va per la maggiore, quello degli scontri, delle contrapposizioni frontali (che siano tra coalizioni politiche o gruppetti di gieffini poco cambia), dell'eccesso e del cattivo gusto. Sappiamo benissimo che il nostro paese non è così. Il problema è che nella società dell'immagine e della comunicazione, la verità è quella veicolata dai media. Quindi, checché ne pensiate, l'Italia è quella di Porta a Porta e del Grande Fratello. Punto.

Lo scontro al vetriolo tra Vespa e Marcuzzi (un giornalista e una showgirl, ruoli paradigmatici spesso sovrapponibili) è uno scontro interno, lotte intestine al reality show ininterrotto della televisione italiana. Forse Vespa risponderà alla reazione della conduttrice di Canale 5, forse no. Di sicuro continuerà ad andare in onda il circo infinito dell'Italia che vogliono farci trangugiare.

Niente atteggiamento antitelevisivo da radical chic, per carità. Ma il nostro famelico interesse nei confronti della televisione (di qualsiasi genere essa sia) vacilla sotto i colpi dello strapotere del reality style. Noi resisteremo, rimarremo incollati al nostro divano con il telecomando in mano e la classica Peroni familiare gelata di fantozziana memoria. E la prossima volta che Vespa criticherà il Grande Fratello ci faremo una risata. Il bue che dice cornuto all'asino.

martedì 3 novembre 2009

Quello che il rugby può insegnare alla politica

Ffwebmagazine
novembre 2009

Oggi è il gran giorno: a San Siro sbarcano gli All Blacks, i marziani neozelandesi del rugby. La nazionale italiana proverà a giocare la propria gara con il solito impegno, gettando il cuore oltre l’ostacolo, sapendo quanto è difficile anche solo impensierire quella macchina perfetta proveniente dall’emisfero australe. Bello sport, il rugby, che dovrebbe farci capire alcune cose.

A vederli scendere in campo, a osservare le azioni di gioco, a seguire le furibonde mischie, si direbbe che i 30 giocatori di una partita di rugby siano la quintessenza dello sport violento, “maschio”, senza esclusione di colpi. E invece, ormai si sa anche in Italia, ogni benedetto match si conclude con il “terzo tempo”, un momento conviviale tra le due squadre, durante il quale ci si dimentica di tutto, delle botte da orbi prese e date, delle piccole scorrettezze che si compiono durante gli ottanta minuti di gioco, di chi ha vinto e di chi ha perso. Perché alla base di tutto c’è lo sport, il confronto deciso ma all’insegna del fair play. Perché un conto è giocare una partita, un altro  è il rapporto civile e rispettoso che deve esserci tra le opposte fazioni, una volta usciti dal campo di gioco.

Il pensiero corre subito (e come non potrebbe?) alle vicende politiche di casa nostra. Non solo durante la “partita” se le danno di santa ragione. Anche dopo, magari nel tunnel che porta agli spogliatoi, i giocatori continuano a menarsi, a urlare e sbraitare, a dire che l’altra squadra ha barato, ha giocato sporco, ha vinto solo perché, magari, ha corrotto l’arbitro. Ecco perché il terzo tempo servirebbe anche per la politica italiana. Lo scontro politico e parlamentare, sia chiaro, è sacrosanto e salutare. Ci si confronta, anche duramente. Si portano avanti le proprie idee, gettandosi nella mischia e tentando energicamente di spingere la palla verso l’area di meta avversaria. Tutto lecito: sono le regole del gioco democratico e guai se non fosse così. Ma almeno ci si risparmi l’azzuffata finale, quella che da troppo tempo non si riesce proprio a evitare. Si tenti di distinguere e separare il confronto politico dalla correttezza politica e istituzionale, si evitino le invasioni di campo (una volta un giudice, l’altra un giornalista) che esacerbano gli animi e invitano alla baruffa.

Lo sport a quanto pare c’entra davvero in questa triste e sconfortante prassi. L’Italia, in fondo, è il paese del calcio. Di quella disciplina sportiva, per intenderci, che, almeno da noi, non riesce a vivere senza i veleni, gli sgambetti, le simulazioni, la fobia dei complotti di ogni genere, le calciopoli di ogni colore, la gara a chi urla più dell’altro davanti ai microfoni dopo il novantesimo minuto. E si riverbera anche in politica questa predilezione calcistica, questo stillicidio di fallacci da dietro e interventi a gamba tesa. Almeno una volta c’erano i fantasisti a farci divertire. Ora la regola è una sola: menate e dimenatevi, alla fine qualcuno vincerà.

Ed è per questo che oggi ci godiamo lo spettacolo del Meazza. Dimentichiamo per un po’ la gazzarra calcistica (e politica) per incitare lealmente la nostra squadra contro le divinità del rugby mondiale. Forse vinceremo, molto più probabilmente soccomberemo. Ma allo scoccare dell’ottantesimo minuto, costi quel che costi, sarà il momento del terzo tempo, delle pacche sulle spalle, di una pinta di birra in compagnia degli avversari. Perché tra vincere o perdere mantenendo comunque la dignità e il rispetto per l’altro, e vincere a ogni costo infischiandosene delle più basilari regole di convivenza civile, c’è una differenza enorme. Grazie al cielo.

lunedì 2 novembre 2009

Alda, tra le brutture del mondo e la grandezza del Cielo

Ffwebmagazine
2 novembre 2009
Muor Giove, e l'inno del poeta resta, diceva Giosué Carducci. La notizia della morte di Alda Merini, quindi, è senz'altro dolorosa, ma non è il suo addio definitivo al mondo. Non può esserlo, se è vero come è vero che le sue poesie, quella lucida follia frutto vermiglio e lacerato di interminabili anni di internamento psichiatrico, ci accompagneranno fino alla fine dei tempi, come quelle di Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi o Montale. Sì, perché Alda Marini non è stata soltanto una reduce di quell'inferno chiamato manicomio. È stata molto di più, a dispetto di tv e giornali che le avevano affibbiato il ruolo mediaticamente utile e spendibile della poetessa folle. Senza dubbio quell'esperienza ha inciso, e profondamente, sul suo percorso umano e artistico. Ma le opere di Alda Merini travalicano persino un'esperienza indelebile del genere. Perché la poesia è poesia, perché non è terrena ma frutto di un animo che anela al trascendente, perché un poeta è una semidivinità sospesa tra le brutture del mondo e la grandezza del Cielo.

Alda Merini era tutto ciò: un essere umano fragile che con le sue poesie riusciva a raggiungere vette ineguagliabili, che trasformava il dolore di una vita in arte, con quel suo stile così carnale, passionale, viscerale, che trasporta e stravolge, conquista e ammalia. E poi la sua Fede nell'Uno al di sopra del bene e del male, anch'essa così diversa dalla normalità, a volte ribelle e critica ma sempre viva e rigogliosa.

Gli ultimi anni della sua vita la poetessa milanese li ha vissuti attorniata da un calore che meritava tutto e che per troppo tempo le era stato negato. Si erano finalmente mobilitati intellettuali e maitre-à-penser, per rendere il dovuto onore a uno dei più grandi poeti del nostro Novecento. Poi potremmo parlare anche delle strumentalizzazioni, dei tentativi di chi sperava di poter ascrivere Alda Merini a una parte politica. I salotti milanesi radical chic ci avevano provato, pensando che il genio poetico potesse essere patrimonio esclusivo di qualcuno a discapito di qualcun altro. Niente di più sbagliato, niente di più lontano dalla vera essenza dell'Arte. Piuttosto, la regola, se proprio una regola serve, dovrebbe essere la seguente: “Ci piace, è nostro”.

E così dovrebbe essere anche per Alda Merini, che nella sua poesia irregolare, genialmente confusa, libera e libertaria, potrebbe entrare di diritto nel Pantheon culturale della nuova destra. Senza strumentalizzazioni, per carità. Niente appropriazioni indebite di geni imperituri. Solo un segno di riconoscenza nei confronti di una poetessa che da oggi entra nell'Olimpo della cultura italiana.

Un unico rammarico, però, c'è: il mancato Nobel. Ma da un'Accademia di Svezia che compie scelte spesso discutibili, forse non ci si poteva aspettare niente di diverso. «Non cercate di prendere i poeti perché vi scapperanno tra le dita». Parola di una donna, di una poetessa, di uno spirito libero e irregolare che ci mancherà terribilmente.