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martedì 3 novembre 2009

Quello che il rugby può insegnare alla politica

Ffwebmagazine
novembre 2009

Oggi è il gran giorno: a San Siro sbarcano gli All Blacks, i marziani neozelandesi del rugby. La nazionale italiana proverà a giocare la propria gara con il solito impegno, gettando il cuore oltre l’ostacolo, sapendo quanto è difficile anche solo impensierire quella macchina perfetta proveniente dall’emisfero australe. Bello sport, il rugby, che dovrebbe farci capire alcune cose.

A vederli scendere in campo, a osservare le azioni di gioco, a seguire le furibonde mischie, si direbbe che i 30 giocatori di una partita di rugby siano la quintessenza dello sport violento, “maschio”, senza esclusione di colpi. E invece, ormai si sa anche in Italia, ogni benedetto match si conclude con il “terzo tempo”, un momento conviviale tra le due squadre, durante il quale ci si dimentica di tutto, delle botte da orbi prese e date, delle piccole scorrettezze che si compiono durante gli ottanta minuti di gioco, di chi ha vinto e di chi ha perso. Perché alla base di tutto c’è lo sport, il confronto deciso ma all’insegna del fair play. Perché un conto è giocare una partita, un altro  è il rapporto civile e rispettoso che deve esserci tra le opposte fazioni, una volta usciti dal campo di gioco.

Il pensiero corre subito (e come non potrebbe?) alle vicende politiche di casa nostra. Non solo durante la “partita” se le danno di santa ragione. Anche dopo, magari nel tunnel che porta agli spogliatoi, i giocatori continuano a menarsi, a urlare e sbraitare, a dire che l’altra squadra ha barato, ha giocato sporco, ha vinto solo perché, magari, ha corrotto l’arbitro. Ecco perché il terzo tempo servirebbe anche per la politica italiana. Lo scontro politico e parlamentare, sia chiaro, è sacrosanto e salutare. Ci si confronta, anche duramente. Si portano avanti le proprie idee, gettandosi nella mischia e tentando energicamente di spingere la palla verso l’area di meta avversaria. Tutto lecito: sono le regole del gioco democratico e guai se non fosse così. Ma almeno ci si risparmi l’azzuffata finale, quella che da troppo tempo non si riesce proprio a evitare. Si tenti di distinguere e separare il confronto politico dalla correttezza politica e istituzionale, si evitino le invasioni di campo (una volta un giudice, l’altra un giornalista) che esacerbano gli animi e invitano alla baruffa.

Lo sport a quanto pare c’entra davvero in questa triste e sconfortante prassi. L’Italia, in fondo, è il paese del calcio. Di quella disciplina sportiva, per intenderci, che, almeno da noi, non riesce a vivere senza i veleni, gli sgambetti, le simulazioni, la fobia dei complotti di ogni genere, le calciopoli di ogni colore, la gara a chi urla più dell’altro davanti ai microfoni dopo il novantesimo minuto. E si riverbera anche in politica questa predilezione calcistica, questo stillicidio di fallacci da dietro e interventi a gamba tesa. Almeno una volta c’erano i fantasisti a farci divertire. Ora la regola è una sola: menate e dimenatevi, alla fine qualcuno vincerà.

Ed è per questo che oggi ci godiamo lo spettacolo del Meazza. Dimentichiamo per un po’ la gazzarra calcistica (e politica) per incitare lealmente la nostra squadra contro le divinità del rugby mondiale. Forse vinceremo, molto più probabilmente soccomberemo. Ma allo scoccare dell’ottantesimo minuto, costi quel che costi, sarà il momento del terzo tempo, delle pacche sulle spalle, di una pinta di birra in compagnia degli avversari. Perché tra vincere o perdere mantenendo comunque la dignità e il rispetto per l’altro, e vincere a ogni costo infischiandosene delle più basilari regole di convivenza civile, c’è una differenza enorme. Grazie al cielo.

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