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mercoledì 30 dicembre 2009

Twilight, una favola moderna sulla "contaminazione positiva"

Ffwebmagazine
30 dicembre 2009
17 novembre 2008 – 16 novembre 2009: sono le due date d’uscita (a meno di un anno di distanza) dei film Twilight e New Moon. I due capitoli iniziali della saga nata della penna di Stephenie Meyer hanno sbancato i botteghini di tutto il mondo, con un incasso di 385 milioni di dollari per il primo e addirittura di 662 milioni per il secondo. Un fenomeno globale, dunque, che non è solo cinematografico.

Le ragioni del successo di Twilight vanno ricercate nei messaggi che le pellicole (e prima ancora i libri) hanno veicolato. Sì, messaggi. E nemmeno di poco rilievo. Pur trattandosi di un universo creato a uso e consumo di adolescenti romantici (ma non confondiamoli con i seguaci di Moccia), con accenni dark-gothic e strizzatine d’occhio alla moda emo, tra le pagine della Meyer e le scene interpretate dagli idoli delle folle Pattinson e Stewart c’è molto di più. Innanzitutto c’è l’accettazione del diverso come approccio naturale nelle relazioni interpersonali. Quando Bella (questo è il nome della protagonista) scopre che il ragazzo che le fa girare la testa è un vampiro, infatti, non si chiude a riccio, non organizza ronde livorose e spaventate nella piovosa cittadina (oseremmo dire quasi padana) di Forks, non reprime il sentimento. Semplicemente cerca di capire, si documenta, vuole conoscere di più e meglio l’altro, quel diverso da se che dalla maggior parte della gente verrebbe visto come una minaccia mortale. 
Il diverso come arricchimento reciproco: lei, umana, gli insegna cos’è l’amore, gli fa riscoprire un cuore che batte all’impazzata dopo 90 anni di vita senza vita; lui, vampiro, le fa provare cose che nessun altro coetaneo “normale” era riuscito a farle provare prima, scuotendola da quell’apatia tipica di molti adolescenti occidentali. Metafora culturale e politica? Perché no. In fondo i messaggi socioculturali non devono provenire a tutti i costi da film dichiaratamente impegnati o d’essai. Stiamo parlando di due film commerciali, dunque? Sì, anzi di due splendide favole nazionalpopolari, di quelle che ci piacciono perché arricchiscono senza polverose sovrastrutture ideologiche la nostra visione del mondo. Altro che Natali in giro per il mondo.
Bella Swan, dunque, è il prototipo del cittadino perfetto. Debole, insicuro, pieno di dubbi e paure, ovviamente. Ma non per questo arroccato su posizioni di chiusura, non per questo impegnato a proteggere solo il proprio orticello. È la cultura del Nimby (Not in my backyard) che diventa Pimby (Please, in my backyard) e provoca una reazione a catena di esperienze nuove, esaltanti, arricchenti, che forgiano i caratteri dei protagonisti e li fanno interagire fino a influenzarsi a vicenda. Un’osmosi benefica che dal fantastico mondo dei vampiri e dei lupi mannari potrebbe essere tranquillamente traslata nel più terreno campo dei rapporti tra cittadini e immigrati, etero e omosessuali, credenti e non credenti, diverse fazioni politiche.
E, come se non bastasse, il bel tenebroso Edward è un vampiro buono. Niente sangue umano per lui e il resto della sua famiglia (i Cullen). Solo animali, cacciati nei boschi dello Stato di Washington come milioni di altri americani (magari iscritti alla National Rifle Association). Niente canini aguzzi, né cripte umide e polverose. Vampiri “normali”, che vogliono vivere vite “normali”, accanto agli esseri umani. E il bello, è questa la cosa più importante, è che si tratta di una pura e semplice scelta. 
Buoni per scelta, dunque, nell’epoca in cui i buoni sentimenti e le buone intenzioni vengono confuse con il buonismo di maniera, con il politically correct. Quasi come se essere buoni fosse una colpa, un marchio d’infamia indelebile negli anni del “cattivismo” e dell’aggressione che spadroneggia in politica e nel mondo dei media. Le creature più spaventose dell’immaginario collettivo della storia dell’uomo (dalla leggenda di Vlad l’Impalatore a Francis Ford Coppola, passando per i romanzi di Bram Stoker) sceglie di essere buono. Questo è, se vi pare. Con buona pace di chi preferirebbe il trionfo a tutti i costi del politicamente scorretto, ormai così abusato da esser diventato conformismo allo stato puro.
Dialogo, accettazione del diverso, buoni sentimenti. Queste le stelle polari dei protagonisti della saga di Twilight. E se milioni e milioni di giovani (e non) in ogni angolo del mondo hanno affollato le sale cinematografiche, qualcosa vorrà pur dire. Forse che gli individui (e soprattutto le nuove generazioni) sono stanchi del muro contro muro perenne, degli steccati ideologici, culturali, sociali, economici, religiosi, sessuali, che ammorbano e offuscano le nostre vite. Twilight è un inno alla contaminazione. E lo si vedrà ancora meglio nei due restanti capitoli della saga. Nel quarto libro (che diventerà film tra due anni) si raggiungerà l’apice del “meticciato”, un monumento benefico a quel relativismo che, se non è estremizzato e portato all’esasperazione, non è affatto un concetto negativo. 
La cosa buffa, forse triste, è che nel 2009 questi concetti dobbiamo farceli insegnare da un vampiro bello e ricco e da una imbranata e timida adolescente americana. Mala tempora currunt?

domenica 20 dicembre 2009

Beato Povia che ha le sue verità...

Ffwebmagazine 
20 dicembre 2009

Povia perde il pelo ma non il vizio. Non pago delle polemiche dello scorso anno su Luca che “era gay e ora sta con lei”, nel 2010 tornerà a Sanremo con un brano dal titolo evangelico: La verità. La verità in questione, a quanto pare, è quella sul caso Englaro. Altro tema scottante, altro tema di attualità portato sul palco dell’Ariston. Sembrerebbe che il cantante milanese sia particolarmente sensibile agli argomenti del dibattito pubblico del nostro paese. Poco male, se non fosse che ogni volta la solfa sia sempre la stessa: un lungo e stereotipato sermone pieno zeppo di certezze granitiche su argomenti così delicati da coinvolgere nel dibattito per anni fior di esperti in tutto il mondo dibattono da anni. 

Tralasciando il merito delle questioni (omosessualità, eutanasia e chissà cos’altro in futuro) la cosa che ci sembra riprovevole è l’opportunismo di Povia, la sua fame bulimica di fatti di cronaca. È una sete che sa tanto di vampirismo, con il vincitore del Festival del 2006 (con la memorabile canzone sul becco dei piccioni con verso annesso) pronto a sfoderare i canini e ad accanirsi sulla questione del momento. 

Non siamo tra quelli che credono che in fondo “sono solo canzonette” e via dicendo. La canzone di denuncia e di protesta ha in Italia una tradizione lunga e gloriosa. La generazione dei cantautori (Tenco, Bindi, De André, De Gregori e via cantando) ha regalato alla nostra storia musicale delle vere e proprie pietre miliari. Magari intrise di ideologia, ma comunque espressione alta della sapienza musicale nostrana. Povia, invece, il lato musicale lo trascura, lo mette in secondo piano. La cosa importante per lui è il fatto in sé, il tema trattato. Melodia orecchiabile, testo al limite dello Zecchino d’Oro, ma tante polemiche create ad arte per attirare l’attenzione su di sé. E ogni anno è la stessa storia, con le pagine degli spettacoli dei giornali piene di botte e risposte, di dichiarazioni di questa o quella associazione e repliche divertite e compiaciute dello stesso cantante. Sì, perché alle provocazioni vampiresco-musicali di Povia ci caschiamo tutti, ogni benedetto anno. Anche noi, in questo momento, stiamo facendo il suo gioco. 

Ma il conte Vlad dell’Ariston esce una volta l’anno dal suo castello in Transilvania (Povia si tranquillizzi: non è il nome di una signorina di via Gradoli) e sbarca sulla Riviera ligure con i suoi cartelli da bacio Perugina, con la sicumera di chi crede (beato lui) di avere tutte le verità in tasca. Chissà cosa ci dirà su Eluana. Chissà qual è questa “Verità” che sta per regalarci in mondovisione. Non si conosce ancora il testo della canzone, per fortuna. Almeno non ci potranno dire che è una polemica strumentale perché le tesi di Povia sono più o meno distanti dalle nostre. 

Quello che proprio non riusciamo a sopportare è l’accanimento del cantante sui fatti di cronaca, altro che plastico di Cogne. Chi organizza il Festival della canzone italiana, dunque, dovrebbe rendersi conto che la polemica a tutti i costi non giova alla nostra musica. Ma soprattutto non giova al nostro dibattito pubblico. Su temi così importanti e spinosi, da trattare con la massima delicatezza, non ci servono portatori pentagrammatici di verità assolute. Piuttosto, si discuta pacatamente per trovare le soluzioni più giuste e che tengano conto dei diritti di ciascuno. Tra qualche mese assisteremo all’ennesimo siparietto “poviesco”. Rassegnamoci, dunque, perché anche a Sanremo la Verità è una. E chi non è d’accordo è un provocatore sovversivo.

sabato 19 dicembre 2009

E il giudice blocca lo sciopero: quando un paese è normale...

Ffwebmagazine
19 dicembre 2009
Lady Justice Laura Cox è l’eroina del Natale inglese. Questo giudice dell’Alta Corte, infatti, ha bocciato lo sciopero di dodici giorni degli equipaggi di British Ariways, programmato per il periodo natalizio. Quasi due settimane di caos totale che avrebbe coinvolto quasi un milione di passeggeri.

E invece no, la sentenza è stata chiara: la decisione della maggioranza dei dipendenti non è valida, innanzitutto perché le conseguenze sarebbero state terribili per i cittadini (e non soltanto per l’azienda) e poi, cosa non di poco conto, le votazioni degli scioperanti sarebbero avvenute in maniera opaca e non regolare. Fatto sta, questioni prettamente sindacali a parte, che nessuno sciopero turberà le vacanze natalizie dei sudditi di Sua Maestà. In un paese normale, in effetti, funziona così. Una corte di giustizia blocca uno sciopero sconsiderato e tutela i cittadini. Nel paese di Wimbledon, potremmo dire: punto, gioco e incontro. Con annesso e rumoroso sospiro di sollievo del pubblico sugli spalti.

In Italia, ahinoi, la situazione è tragicamente diversa. Lo strapotere di alcune frange sindacali è tale che il sistema politico e giudiziario nulla può contro quelli che vengono comunemente chiamati “scioperi selvaggi”. La questione sindacale nel nostro paese è aperta da tempo, con allarmi lanciati periodicamente da chi vorrebbe riformare il sistema. Nessuno, però, lo fa. E forse nessuno lo può fare. Perché, diciamocelo chiaramente, il sindacato italiano (la Cgil su tutti) è ormai parte integrante del nostro sistema di potere. Non si muove una foglia che Epifani non voglia, verrebbe da dire per sdrammatizzare. Ma c’è poco da stare allegri, se pensiamo alle scene di caos che periodicamente si verificano negli aeroporti italiani. O alle strade del centro di Roma intasate un giorno sì e l’altro pure per questa o quella manifestazione.

Nessuno vuole toccare il diritto di sciopero, per carità. Ma c’è un limite, quello del rispetto per gli utenti, che non può e non deve essere valicato. Le organizzazioni sindacali britanniche ci avevano provato, ma qualcuno le ha stoppate, non con coraggio o temerarietà, ma con buonsenso e saggezza. E soprattutto seguendo le leggi.

Anche perché, e lo ha ribadito British Airways, in un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo (e sul Tamigi si sente molto più che da noi) le posizioni radicalsindacali tipiche del secolo scorso non aiutano. Al contrario, esacerbano gli animi già preoccupati di lavoratori e cittadini e non contribuiscono affatto a uscire dalla recessione.

Sarebbe una notizia rivoluzionaria sentire un italiano (politico o manager che sia) assumere posizioni simili. Ogni tanto ci prova Brunetta e il risultato (attacco mediatico senza precedenti) è noto. Il sindacato italiano gode di una posizione privilegiata che non è sana né utile in una moderna democrazia liberale. Il conservatorismo di certe organizzazioni di lavoratori è uno dei tanti freni che non permettono al nostro paese di ripartire.

Ancora una volta, dunque, bisognerebbe prendere esempio dalla perfida (mica tanto) Albione. Lì, dove la democrazia liberale è nata ed è cresciuta, le cose vanno come devono andare. Anche, e soprattutto, in momenti difficili come quello attuale. Riusciremo mai a fare lo stesso? Per adesso ne dubitiamo fortemente. Ma per il nuovo anno non sarebbe male, magari, assumere questo buono e utilissimo proposito: diventare un paese normale.


mercoledì 16 dicembre 2009

Silvana, quel sorriso amaro entrato nel mito

Ffwebmagazine
16 dicembre 2009
Quella ragazza dalle forme generose con pantaloncini corti e a vita alta, calze lise ma sensualissime e cappello a falde larghe rimarrà impressa indelebilmente nell’immaginario collettivo dell’Italia del XX secolo. Il mito Silvana Mangano è nato lì, tra le umide risaie di Riso amaro, nell’Italia postbellica del 1949. Che poi, diciamolo pure, il film di Giuseppe De Santis non è questo gran capolavoro. A cavallo tra neorealismo e residui del cinema italiano dei primi anni Quaranta, Riso amaro si regge (peraltro egregiamente) sulla carica espressiva ed erotica di Silvana Mangano. Bella, troppo bella. Ma anche brava, troppo brava, e scusate se è poco in un ambiente come quello del cinema italiano dell’epoca in cui contavano più le forme abbondanti che la capacità di recitare.

Sono passati vent’anni dalla morte dell’attrice (stroncata da un male incurabile a soli cinquantanove anni) e Maite Carpio ha voluto ricordarla con Sorriso amaro, un documentario a lei dedicato. È un’opera importante e curata, e non solo perché rende omaggio a una delle attrici più importanti del cinema italiano ma anche, e forse soprattutto, perché si sofferma sul suo lato umano. Le testimonianze di Piero Tosi, Enrico Lucherini, Aurelio De Laurentiis, Furio Scarpelli, Enrico Medioli, Mario Monicelli, Carlo Lizzani, Suso Cecchi D’Amico, Bruna Parmesan, Tullio Kezich e Alessandra Levatesi tratteggiano una figura fragile, vulnerabile, diva suo malgrado, convinta di non saper recitare (quanto si sbagliava!) e preda di lunghi periodi di depressione.

Silvana Mangano donna, moglie e madre è un personaggio enigmatico, algido, all’apparenza addirittura freddo e sprezzante. La ventenne che nel 1950 sposa Dino De Laurentiis, allora giovane e promettente produttore cinematografico, dedicherà la sua vita alla famiglia e ai figli (quattro) pur senza lasciarsi andare a plateali effusioni o a pubbliche dimostrazioni d’affetto. La Mangano non sapeva amare se stessa e forse per questo, come ha dichiarato la figlia Veronica nel documentario di Maite Carpio, non riusciva ad amare gli altri. Una donna terribilmente sola nonostante il suo ruolo meritatissimo di diva del grande schermo. Dopo l’exploit di Riso amaro è stata una continua scalata al successo con interpretazioni piene di intensità e perizia attoriale. E pensare che Silvana Mangano non aveva mai frequentato nemmeno un corso di recitazione per dilettanti…

È del 1950 Il brigante Musolino con Amedeo Nazzari, del 1951 Anna (con la mitica scena in cui l’attrice canta e balla El negro zumbon, canzone ancora oggi notissima e ripresa anche da Nanni Moretti in Caro diario). Poi tre gioielli nel 1954: Mambo (con Vittorio Gassman e Shelley Winters), Ulisse (con Kirk Douglas e Anthony Quinn) e L’oro di Napoli di Vittorio De Sica. Siamo solo alla metà degli anni Cinquanta, appena cinque anni dopo l’esordio trionfale di Riso amaro, e Silvana Mangano è già una star di livello mondiale. Suo malgrado, dicevamo prima, perché di fare la diva, l’attrice romana figlia di un siciliano e di un’inglese, non ne aveva proprio voglia. Forse è per questo che selezionava con maniacale cura i copioni da interpretare (facendo penare il marito prima di dire sì) o forse per la sua insicurezza umana e professionale.

Il rifiuto più grande della sua carriera, però, pare non sia dipeso da lei. Nel 1960 Federico Fellini le offrì il ruolo poi interpretato da Anouk Aimée ne La Dolce Vita, ma De Laurentiis si oppose, quasi certamente per gelosia. Questa occasione persa, però, non ha intaccato la sua carriera. Un anno prima, ad esempio, aveva girato La grande guerra di Mario Monicelli, a fianco di Vittorio Gassman e Alberto Sordi (il cui ruolo nella vita della Mangano provocò non poche gelosie nel marito) e nel 1963 è Edda Ciano ne Il processo di Verona di Carlo Lizzani. Ruolo intensissimo, profondo, di una donna arrabbiata con il mondo e con la propria famiglia. Ruolo per cui Silvana Mangano studiò molto e volle rendere al meglio. Non per niente, infatti, le fruttò il primo dei tre David di Donatello vinti in carriera.

Con il film di Lizzani, però, si chiuse la prima fase della sua carriera, quella più lunga, che servì a consacrare al grande pubblico il suo talento. Già dall’anno dopo (con La mia signora di Mauro Bolognini) decise che era giunto il momento di cimentarsi nella commedia. Lato trascurato, questo, della sua carriera. Eppure i risultati furono più che buoni, grazie anche al collaudato connubio artistico con Alberto Sordi (memorabile la loro interpretazione ne Lo scopone scientifico).

La terza e ultima fase della carriera di Silvana Mangano fu all’insegna dell’impegno, dei grandi maestri come Pier Paolo Pasolini e Luchino Visconti, di una bulimica fame di conoscenza e cultura che, a detta di alcuni degli intervistati da Maite Carpio, derivava dalla scarsa istruzione dell’attrice. Il sodalizio con Pasolini inizia nel 1967 con Edipo Re, nel quale la Mangano interpreta una Giocasta meravigliosa, intensa, struggente. Poi ci saranno Teorema (1968) e un cammeo nel Decameron (1971). Ed è proprio in quell’anno che arrivò anche Visconti, con tre capolavori uno dopo l’altro con Silvana Mangano come protagonista: nel 1971 è la madre di Tadzio (e quindi dello stesso Visconti) in Morte a Venezia, nel 1972 è Cosima Von Bulow in Ludwig e nel 1974 la marchesa Bianca Brumonti in Gruppo di famiglia in un interno. Tre ruoli forti, terribilmente acidi e borghesi, duri e malinconici al tempo stesso. Tre ruoli da Mangano, dissero allora e dicono ancora oggi i critici. Perché l’immagine della Mangano è stata quella di una donna dura, quasi anaffettiva. Resta il fatto innegabile, tuttavia, che stiamo parlando delle tre interpretazioni migliori della sua carriera, dell’eccellenza raggiunta con stile ed eleganza da quella ragazzina che faceva la mannequin a via Veneto nell’Italia postbellica e che non aveva alcuna intenzione di fare l’attrice.

Siamo negli anni Settanta e si prepara un’ulteriore strappo nella vita personale e professionale di Silvana Mangano. Il marito Dino De Laurentiis decise di trasferirsi in America e la moglie lo seguì. Ma proprio Oltreoceano la Mangano diede sfogo di nuovo al suo lato triste e malinconico, tentando addirittura il suicidio. Nel documentario questo episodio è ricordato con partecipazione dalla figlia Veronica, testimone della corsa in ospedale e della consapevolezza della fragilità estrema della madre. Ma la tragedia vera e lacerante della vita di Silvana Mangano arriverà qualche anno dopo, nel 1981, con la morte del figlio Federico in un incidente aereo in Alaska.

Cesura definitiva, crollo inappellabile, fine del matrimonio forse privo d’amore con De Laurentiis. «Mia madre comandava e lui era in adorazione di lei», dice ancora Veronica. E Aurelio De Laurentiis aggiunge: «Rimaneva nella sua stanza anche fino alle due del pomeriggio e lui spesso mangiava da solo perché lei si alzava tardi, a volte rimaneva chiusa per giornate intere, senza parlare con nessuno, senza mangiare». Un rapporto per nulla paritario, con un marito innamorato pazzo e una moglie solo affezionata e grata al produttore napoletano. Game over, dunque, per un legame ultratrentennale, troppo debole per poter resistere a un colpo così duro come la morte di un figlio ventiseienne.

È il crollo, dicevamo. Anche e soprattutto fisico. Il cancro, le ultimissime apparizioni cinematografiche (Dune di David Lynch e Oci ciornie di Nikita Mikhalkov) e poi la morte, a Madrid, il 16 dicembre 1989. La diva che non voleva esser tale ha abbandonato definitivamente le scene, con tutta la sua schiva fragilità. Quegli occhi dal taglio originalissimo, quel naso affusolato che addosso a qualsiasi altra donna avrebbe allertato decine di chirurghi estetici, quel portamento elegante, rimangono ancora oggi scolpiti nella mente degli italiani.

Sophia Loren e Gina Lollobrigida sono considerate ancora oggi le dive per eccellenza della settima arte italica. Forse dovrebbero ringraziare la proverbiale pigrizia della Mangano, troppo fragile ed enigmatica per giocare a fare la star. Se solo avesse creduto maggiormente in se stessa, sconfiggendo i demoni del suo animo tumultuoso, non ce ne sarebbe stato per nessuno.