Ffwebmagazine
16 dicembre 2009
Quella ragazza dalle forme generose con pantaloncini corti e a vita alta, calze lise ma sensualissime e cappello a falde larghe rimarrà impressa indelebilmente nell’immaginario collettivo dell’Italia del XX secolo. Il mito Silvana Mangano è nato lì, tra le umide risaie di Riso amaro, nell’Italia postbellica del 1949. Che poi, diciamolo pure, il film di Giuseppe De Santis non è questo gran capolavoro. A cavallo tra neorealismo e residui del cinema italiano dei primi anni Quaranta, Riso amaro si regge (peraltro egregiamente) sulla carica espressiva ed erotica di Silvana Mangano. Bella, troppo bella. Ma anche brava, troppo brava, e scusate se è poco in un ambiente come quello del cinema italiano dell’epoca in cui contavano più le forme abbondanti che la capacità di recitare.
Sono passati vent’anni dalla morte dell’attrice (stroncata da un male incurabile a soli cinquantanove anni) e Maite Carpio ha voluto ricordarla con Sorriso amaro, un documentario a lei dedicato. È un’opera importante e curata, e non solo perché rende omaggio a una delle attrici più importanti del cinema italiano ma anche, e forse soprattutto, perché si sofferma sul suo lato umano. Le testimonianze di Piero Tosi, Enrico Lucherini, Aurelio De Laurentiis, Furio Scarpelli, Enrico Medioli, Mario Monicelli, Carlo Lizzani, Suso Cecchi D’Amico, Bruna Parmesan, Tullio Kezich e Alessandra Levatesi tratteggiano una figura fragile, vulnerabile, diva suo malgrado, convinta di non saper recitare (quanto si sbagliava!) e preda di lunghi periodi di depressione.
Silvana Mangano donna, moglie e madre è un personaggio enigmatico, algido, all’apparenza addirittura freddo e sprezzante. La ventenne che nel 1950 sposa Dino De Laurentiis, allora giovane e promettente produttore cinematografico, dedicherà la sua vita alla famiglia e ai figli (quattro) pur senza lasciarsi andare a plateali effusioni o a pubbliche dimostrazioni d’affetto. La Mangano non sapeva amare se stessa e forse per questo, come ha dichiarato la figlia Veronica nel documentario di Maite Carpio, non riusciva ad amare gli altri. Una donna terribilmente sola nonostante il suo ruolo meritatissimo di diva del grande schermo. Dopo l’exploit di Riso amaro è stata una continua scalata al successo con interpretazioni piene di intensità e perizia attoriale. E pensare che Silvana Mangano non aveva mai frequentato nemmeno un corso di recitazione per dilettanti…
È del 1950 Il brigante Musolino con Amedeo Nazzari, del 1951 Anna (con la mitica scena in cui l’attrice canta e balla El negro zumbon, canzone ancora oggi notissima e ripresa anche da Nanni Moretti in Caro diario). Poi tre gioielli nel 1954: Mambo (con Vittorio Gassman e Shelley Winters), Ulisse (con Kirk Douglas e Anthony Quinn) e L’oro di Napoli di Vittorio De Sica. Siamo solo alla metà degli anni Cinquanta, appena cinque anni dopo l’esordio trionfale di Riso amaro, e Silvana Mangano è già una star di livello mondiale. Suo malgrado, dicevamo prima, perché di fare la diva, l’attrice romana figlia di un siciliano e di un’inglese, non ne aveva proprio voglia. Forse è per questo che selezionava con maniacale cura i copioni da interpretare (facendo penare il marito prima di dire sì) o forse per la sua insicurezza umana e professionale.
Il rifiuto più grande della sua carriera, però, pare non sia dipeso da lei. Nel 1960 Federico Fellini le offrì il ruolo poi interpretato da Anouk Aimée ne La Dolce Vita, ma De Laurentiis si oppose, quasi certamente per gelosia. Questa occasione persa, però, non ha intaccato la sua carriera. Un anno prima, ad esempio, aveva girato La grande guerra di Mario Monicelli, a fianco di Vittorio Gassman e Alberto Sordi (il cui ruolo nella vita della Mangano provocò non poche gelosie nel marito) e nel 1963 è Edda Ciano ne Il processo di Verona di Carlo Lizzani. Ruolo intensissimo, profondo, di una donna arrabbiata con il mondo e con la propria famiglia. Ruolo per cui Silvana Mangano studiò molto e volle rendere al meglio. Non per niente, infatti, le fruttò il primo dei tre David di Donatello vinti in carriera.
Con il film di Lizzani, però, si chiuse la prima fase della sua carriera, quella più lunga, che servì a consacrare al grande pubblico il suo talento. Già dall’anno dopo (con La mia signora di Mauro Bolognini) decise che era giunto il momento di cimentarsi nella commedia. Lato trascurato, questo, della sua carriera. Eppure i risultati furono più che buoni, grazie anche al collaudato connubio artistico con Alberto Sordi (memorabile la loro interpretazione ne Lo scopone scientifico).
La terza e ultima fase della carriera di Silvana Mangano fu all’insegna dell’impegno, dei grandi maestri come Pier Paolo Pasolini e Luchino Visconti, di una bulimica fame di conoscenza e cultura che, a detta di alcuni degli intervistati da Maite Carpio, derivava dalla scarsa istruzione dell’attrice. Il sodalizio con Pasolini inizia nel 1967 con Edipo Re, nel quale la Mangano interpreta una Giocasta meravigliosa, intensa, struggente. Poi ci saranno Teorema (1968) e un cammeo nel Decameron (1971). Ed è proprio in quell’anno che arrivò anche Visconti, con tre capolavori uno dopo l’altro con Silvana Mangano come protagonista: nel 1971 è la madre di Tadzio (e quindi dello stesso Visconti) in Morte a Venezia, nel 1972 è Cosima Von Bulow in Ludwig e nel 1974 la marchesa Bianca Brumonti in Gruppo di famiglia in un interno. Tre ruoli forti, terribilmente acidi e borghesi, duri e malinconici al tempo stesso. Tre ruoli da Mangano, dissero allora e dicono ancora oggi i critici. Perché l’immagine della Mangano è stata quella di una donna dura, quasi anaffettiva. Resta il fatto innegabile, tuttavia, che stiamo parlando delle tre interpretazioni migliori della sua carriera, dell’eccellenza raggiunta con stile ed eleganza da quella ragazzina che faceva la mannequin a via Veneto nell’Italia postbellica e che non aveva alcuna intenzione di fare l’attrice.
Siamo negli anni Settanta e si prepara un’ulteriore strappo nella vita personale e professionale di Silvana Mangano. Il marito Dino De Laurentiis decise di trasferirsi in America e la moglie lo seguì. Ma proprio Oltreoceano la Mangano diede sfogo di nuovo al suo lato triste e malinconico, tentando addirittura il suicidio. Nel documentario questo episodio è ricordato con partecipazione dalla figlia Veronica, testimone della corsa in ospedale e della consapevolezza della fragilità estrema della madre. Ma la tragedia vera e lacerante della vita di Silvana Mangano arriverà qualche anno dopo, nel 1981, con la morte del figlio Federico in un incidente aereo in Alaska.
Cesura definitiva, crollo inappellabile, fine del matrimonio forse privo d’amore con De Laurentiis. «Mia madre comandava e lui era in adorazione di lei», dice ancora Veronica. E Aurelio De Laurentiis aggiunge: «Rimaneva nella sua stanza anche fino alle due del pomeriggio e lui spesso mangiava da solo perché lei si alzava tardi, a volte rimaneva chiusa per giornate intere, senza parlare con nessuno, senza mangiare». Un rapporto per nulla paritario, con un marito innamorato pazzo e una moglie solo affezionata e grata al produttore napoletano. Game over, dunque, per un legame ultratrentennale, troppo debole per poter resistere a un colpo così duro come la morte di un figlio ventiseienne.
È il crollo, dicevamo. Anche e soprattutto fisico. Il cancro, le ultimissime apparizioni cinematografiche (Dune di David Lynch e Oci ciornie di Nikita Mikhalkov) e poi la morte, a Madrid, il 16 dicembre 1989. La diva che non voleva esser tale ha abbandonato definitivamente le scene, con tutta la sua schiva fragilità. Quegli occhi dal taglio originalissimo, quel naso affusolato che addosso a qualsiasi altra donna avrebbe allertato decine di chirurghi estetici, quel portamento elegante, rimangono ancora oggi scolpiti nella mente degli italiani.
Sophia Loren e Gina Lollobrigida sono considerate ancora oggi le dive per eccellenza della settima arte italica. Forse dovrebbero ringraziare la proverbiale pigrizia della Mangano, troppo fragile ed enigmatica per giocare a fare la star. Se solo avesse creduto maggiormente in se stessa, sconfiggendo i demoni del suo animo tumultuoso, non ce ne sarebbe stato per nessuno.
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