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mercoledì 28 aprile 2010

Se Paolo Del Debbio è l'anti-Santoro del mattino


Ffwebmagazine
28 aprile 2010
Da tempo immemore si cerca l'anti-Santoro, un giornalista berlusconiano che rintuzzi con un programma ad hoc gli attacchi settimanali di Annozero al premier. Ci ha provato Antonio Socci, con Excalibur. Poi è stato il turno di Giovanni Masotti e Daniela Vergara, con Punto e a capo. Due flop clamorosi che all'epoca, proprio durante l'esilio forzato di Santoro derivato dall'editto bulgaro, provocarono non pochi mugugni a viale Mazzini. Da allora non si è fatto nessun altro tentativo, perché è risultato evidente che non è facile confrontarsi con un giornalista di razza come Michele Santoro. Soprattutto se invece di un anchorman con gli attributi, magari indipendente, preferisci affidare la risposta berlusconiana a un bravo professionista che deve solo portare a termine il compitino.

Eppure, la risposta ad Annozero c'è eccome, ma non sui canali Rai. Mentre molti di noi sono già a lavoro, o stanno per andarci, ci pensa Paolo Del Debbio con il suo Mattino 5 (Canale 5, ore 8.40) a dare il buongiorno alle casalinghe d'Italia, agli anziani annoiati o agli studenti svogliati che preferiscono sentire i sermoni di Del Debbio piuttosto che tuffarsi tra le pagine di Diritto privato, Matematica finanziaria o Filosofia teoretica. Mentre Federica Panicucci si occupa di Grande Fratello, gossip e di altri simili orrori della televisione di oggi, l'editorialista del Giornale infila qui e là, appena può, e con una faccia tosta che è da ammirare sinceramente, un po' di politica. Anzi, la politica di Silvio Berlusconi, per essere precisi. Una onesta e palese propaganda che a quell'ora del mattino, e con un target di pubblico non propriamente esperto di politica, sicuramente dà i suoi frutti.

E pensare che Paolo Del Debbio non è il primo arrivato. Considerato un intellettuale di talento, insegna allo Iulm di Milano, ha scritto libri di successo, si è distinto, in passato, per una elaborazione mica da ridere del pensiero liberale. Quando Berlusconi decide di “scendere in campo”, il nostro è uno dei primi ad accorrere, partecipando attivamente alla creazione di Forza Italia (giovane intellettuale tra gli intellettuali che allora credettero alla “rivoluzione liberale”) e dirigendo anche l'Ufficio Studi nazionale del partito. Nel mezzo c'è anche una candidatura di bandiera come presidente della Regione Toscana nel 1995.

Poi il colpo di genio, il programma televisivo cult che ha fatto conoscere Del Debbio al grande pubblico. Stiamo parlando del mitico Secondo voi, trasmissione realizzata tra la “gggente” (il numero di g da utilizzare è a discrezione di chi legge), intervistata sui fatti del giorno. Guarda caso, tutti pensavano la stessa cosa. Guarda caso, tutti pensavano la stessa cosa che pensava anche Berlusconi. Guarda caso, non c'era nemmeno un bastian contrario, uno che rispondeva in maniera differente, fosse anche solo perché aveva capito male la domanda. Duro giornalismo di inchiesta, verrebbe da dire se volessimo fare facile ironia. Ma ci ha pensato Gene Gnocchi, all'epoca, con una imitazione spassosissima di Del Debbio.

E ora la promozione a condottiero del mattino berlusconiano di Canale 5, spalleggiato anche dall'agguerrito spazio quotidiano di Maurizio Belpietro. È un Mattino 5 così berlusconiano, ma così berlusconiano, che la veloce lettura dei giornali di Filippo Facci sembra qualcosa di rivoluzionario. Altro che anti-Santoro, dunque. Diamo un bel talk show politico di prima serata a Paolo Del Debbio. Magari non avrà una verve trascinante, ammettiamolo. Ma il compitino lo svolge. E bene.

mercoledì 21 aprile 2010

E con l'addio a Raimondo, è finita la storia della tv

Ffwebmagazine
21 aprile 2010
Con la morte di Raimondo Vianello si è definitivamente arrivati alla fine della stora televisiva. Prima Corrado nel 2000, poi Mike Bongiorno solo pochi mesi fa, e ora appunto Vianello. La tv che ha unito l'Italia non c'è più, va in soffitta per sempre, diventa materiale d'archivio da tirare fuori di tanto in tanto, magari nei pomeriggi afosi e annoiati dell'estate italiana, quando i nuovi volti noti del piccolo schermo vanno in vacanza e svuotano i palinsesti. La fine della storia televisiva italiana era, ovviamente, inevitabile. I personaggi che tennero a battesimo il tubo catodico nel nostro paese non erano immortali. Il vuoto che hanno lasciato, e va detto al di fuori di ogni discorso retorico o frase di circostanza, però è davvero incolmabile. Il caso di Vianello è emblematico, forse più di quello di Mike Bongiorno o Corrado Mantoni. Nel 1954, quando la Rai iniziò le trasmissioni, lui c'era già e con Ugo Tognazzi realizzò Un, Due, Tre, il programma televisivo più importante della storia.

Qualcuno obietterà dicendo che no, non è così, perché c'è Lascia o Raddoppia?, Canzonissima, i grandi show di Mina, i Fantastico e i Sanremo di Baudo. E invece nessuno, dal 1954 a oggi, è riuscito a fotografare meglio di Vianello e Tognazzi l'essenza stessa dell'identità italiana. Quando la censura era censura davvero, quando non si poteva nemmeno dire "membro del Parlamento" per non turbare le pudiche sensibilità dell'Italia postbellica delle due Chiese (cattolica e comunista), i due attori prendevano in giro i luoghi comuni, la retorica, l'approccio iperpedagogico della Rai. Sfottevano il Mario Soldati dei viaggi sul Po, dell'inchiesta sulla lettura tra i nostri connazionali; scimmiottavano le inchieste sulla donna che lavora, vista all'epoca come un esemplare raro, una mosca bianca, un fenomeno da studiare sociologicamente (resta insuperato e insuperabile lo sketch sulla mondina e sulla mondana).

Più delle suddette inchieste, più dei programmi di Alberto Manzi, più di qualsiasi altra cosa, Un, Due, Tre ha unito il paese. Non linguisticamente, né socialmente. Lo ha unito dando a tutti, da Sondrio a Ragusa, il senso dell'umorismo. Meno di dieci anni erano passati dalla tragedia bellica e c'era ancora ben poco da ridere. Il boom si stava innescando, ma non era ancora esploso. L'Italia stava ancora ricostruendo case, palazzi, istituzioni democratiche e soprattutto stava ricostruendo un'anima. Ebbene, il contributo leggero ma sferzante, cinico e sfacciato di Vianello e Tognazzi è stato decisivo.

Quella televisione è definitivamente scomparsa, dicevamo, il 15 aprile 2010. Non c'è più nessun reduce di quella fase pionieristica. Non c'è nessun Vecchio Saggio che possa continuare a testimoniare cos'era quell'Italia, cos'era quella televisione, cos'era quello spirito pionieristico che ha ricostruito una nazione. Oggi la tv è tutt'altro. È il Grande Fratello. È l'Isola dei Famosi. È la Pupa e il Secchione. È un pomeriggio domenicale trash e urlato. È uno Show dei Record che tratta la gente diversamente abile come un fenomeno da baraccone da premiare con una medaglia e mostrare al pubblico perché ne rimanga sconvolto, come una donna baffuta o un uomo forzuto dei circhi da 1 penny di un secolo fa. È la tv dell'informazione faziosa (di destra e di sinistra). È la superficialità, il vuoto al potere, la morte della creatività.

E il problema, in fondo, è di noi "giovani". I nostri genitori o i nostri nonni almeno hanno vissuto gli anni gloriosi della televisione italiana, prima che arrivassero le poppute cameriere di Drive In, le Cin Cin di Colpo Grosso, le Veline mute che hanno fatto scuola anche fuori dallo schermo. Ci dicono che la televisione di oggi è migliore, è al passo con i tempi, segue il mercato perché è il mercato che la fa vivere, sa leggere i gusti del pubblico, della stramaledetta casalinga di Voghera. "Beato chi ci crede", recitava la sigla di Di nuovo tante scuse (show del 1976 presentato proprio da Raimondo Vianello e Sandra Mondaini). Ma noi no, non ci crediamo. E ci tuffiamo, come nostalgici di un'epoca lontana sessant'anni e che non dovrebbe appartenerci, nel palinsesto di Rai Storia, costruito grazie all'immenso archivio delle Teche Rai. Non c'è altra soluzione: nella televisione italiana le emozioni sono diventate repliche.

lunedì 19 aprile 2010

Un ragazzo andaluso e lo spirito di una nazione

Ffwebmagazine
19 aprile 2010
Dicono che chi è nato e vive a Cadice, sulla punta estrema della Spagna meridionale, a un tiro di schioppo dalle coste marocchine, abbia molte probabilità di impazzire. Dicono sia colpa dei venti che arrivano dall'Atlantico e dal Mediterraneo, e che proprio lì si incontrano e si scontrano.
Sergio Dominguez Martinez, 22 anni, è nato lì vicino, ad Algeciras, nel cuore della Spagna che fu araba e che lo è ancora, almeno per la toponomastica. Algeciras, infatti, non è altro che la versione latinizzata della parola araba Al Jazeera, già nota al grande pubblico per il canale all news del Qatar. Sergio è andaluso, orgogliosamente andaluso. E degli andalusi ha tutto: pregi e difetti. Innanzitutto è fiero e orgoglioso di essere spagnolo. Tutto quello che viene dal paese iberico è, per lui, il non plus ultra. Nessuno al mondo sa fare le stesse cose, nello stesso modo.

Ma di andaluso ha anche l'irrefrenabile furia creativa, la voglia di conoscere nuove persone e culture, di influenzare e farsi influenzare, di essere l'emblema massimo di un meticciato che in Andalusia, prima che venisse soffocato nel sangue dalla Reconquista cattolica, aveva prodotto esempi mirabili di tolleranza e dialogo tra culture. E Sergio è orgoglioso anche del retaggio musulmano, pur essendo spagnolo al 100%.
Ma per vivere bene non basta il sangue andaluso, soprattutto se sei figlio di un muratore disoccupato e di una assistente sociale, se tuo fratello fa il meccanico e se la tua famiglia vorrebbe che tu restassi lì, a bruciarti la pelle sotto il sole cercando un lavoro che non c'è e accontentandoti del sorriso che hai nel Dna, della voglia di vivere che nessun problema economico potrà mai portarti via. Ma a Sergio non bastava e quattro anni fa ha deciso: si va a Madrid, a studiare e cercar fortuna. Pazienza se poi non vivi a Madrid ma a Torrejon de Ardoz, città-dormitorio a 27km dalla capitale, e condividi un appartamento piccolo con la nonna 86enne. Il sogno rimane e anzi si alimenta, anche se il tuo quartiere è da proletariato urbano, e il figlio del muratore studia Belle Arti, dipinge, legge, va a Parigi per un weekend e ci rimane un anno, lavorando di notte come panettiere, per respirare arte e aprirsi al mondo, accogliendolo anche nei suoi lati più deteriori.
Sergio è colto, sa tutto delle proprie radici e le rinnova giorno per giorno, senza per questo essere conservatore o bacchettone. Ha un vistoso orecchino di legno all'orecchio destro, è bohemien, eppure non fa altro che parlare della letteratura delle origini, dello struggente Lazarillo de Tormes, del «più grande scrittore della storia insieme a Shakespeare», quel Miguel Cervantes che dalle parti di Torrejon e Alcalà de Henares (città natale dello scrittore) è un dio. Sergio studia a La Latina, il quartiere degli artisti di Madrid, e ogni volta che esce dall'elegante palazzo storico che ospita la sua scuola alza lo sguardo, guarda le case, i volti, ascolta la musica e il brusio incessante che fa da colonna sonora alla movida e pensa che lui dovrebbe vivere lì, non a Torrejon.
Eppure, zaino in spalla, corre ad Atocha a prendere il treno della Cercanìa che lo riporterà a casa, dove la nonna lo aspetta con un piatto di baccalà o un riso alla cubana così buono che nemmeno Ferran Adrià con tutti i suoi intrugli chimici e "molecolari" potrebbe far di meglio. «Sono troppo sognatore, i miei me lo ripetono sempre. Di notte, quando vado a dormire, inizio a pensare a cosa vorrei fare, ai progetti che forse non realizzerò mai, alla vita che vorrei e che non ho». Così parla Sergio, e ascoltarlo è un pugno nello stomaco, perché sai che probabilmente ha ragione, che forse non realizzerà mai i suoi sogni. A differenza di molti altri suoi coetanei, però, Sergio non si rassegna e continua a sognare. «Sono così e sarò così per sempre. Non posso cambiare, nemmeno volendo».

Eccola la frase che aspettavi, che ti fa rendere conto che Sergio è il paradigma di una nazione intera. La Spagna è così e così sarà per sempre. Ci hanno provato in tanti a snaturarla, a violentarla e modificare la sua essenza: integralisti cattolici, sanguinari socialcomunisti, orchi franchisti che l'hanno soffocata per quarant'anni, terroristi baschi e islamici. Ma la Spagna è ancora lì, con i suoi pregi e i suoi difetti, i suoi sogni forse irrealizzabili e le sue piccole conquiste di civiltà che raccoglie come mollichine di pane per l'inverno che inevitabilmente verrà, perché è sempre venuto nel corso dei secoli. E' come Sergio, la Spagna. È come un ventiduenne che ama il cubismo e accudisce la nonna, che legge Cervantes e prepara le baguette a Parigi, che non compra un Moleskine perché è troppo caro (12 euro) e si commuove vedendo l'interno della Cattedrale dell'Almudena.
C'è da sperare che né Sergio, né la Spagna, cambino mai. Magari dovremmo cambiare noi, per ricominciare a sognare. Forse inutilmente, forse no. Gregorio Marañón, genio multiforme e liberale del Novecento spagnolo, è riuscito a racchiudere un intero stile di vita in una frase: «Vivere non è solo esistere, ma esistere e creare, saper godere e soffrire, e non dormire senza sognare. Riposarsi è cominciare a morire».

mercoledì 14 aprile 2010

La destra moderna dell'alcalde Gallardon

Ffwebmagazine
14 aprile 2010
È un politico stimato trasversalmente. È misurato, propositivo, moderno e pronto a incarnare l'anima più europea della destra. Si chiama Alberto Ruiz-Gallardon, ha 51 anni e di "mestiere" fa il sindaco di Madrid.

A ventinove anni era già portavoce del gruppo parlamentare popolare al Senato, a trentuno anni Segretario generale di Alianza Popular (il progenitore del Pp), a trentasette presidente della Comunidad de Madrid. Poi la sfida per diventare sindaco (alcalde, in castigliano) della capitale spagnola, su richiesta diretta di José Maria Aznar, in tandem proprio con la moglie dell'ex premier, Ana Botella: maggioranza assoluta e vittoria con il 51% dei voti. Quattro anni dopo si replica e Gallardon riesce addirittura ad aumentare i consensi (55%). Oggi Alberto Ruiz-Gallardon è uno dei politici più stimati del paese: lo certificano tutti i sondaggisti, di diverso orientamento politico.

La carriera e il gradimento dell'alcalde madrileno non sembrano essere particolari. In effetti sono molti i politici, spagnoli e non, stimati e votati in massa. Ma il cursus honorum di Gallardon non è lineare come sembra, soprattutto se si considera che i primi avversari del primo cittadino di Madrid sono all'interno del suo stesso partito, il Pp guidato da Mariano Rajoy. A cominciare dalla señora del centrodestra spagnolo, quella Esperanza Aguirre che ha preso il posto dello stesso Gallardon come presidente della Comunidad de Madrid (la regione che include la capitale e le città vicine).

La Aguirre è spagnola in tutto e per tutto: aggressiva, rampante, presenzialista, sempre sotto i riflettori (sabato sera è stata tra i vip più fotografati e ripresi dalle telecamere al Bernabeu durante il supermatch Real-Barcellona). E più passa il tempo, più la quasi sessantenne Aguirre sembra ringiovanire: immagini photoshoppate, più di un sospetto che ci sia anche lo zampino del chirurgo. Il suo potere all'interno del Partido Popular è in crescita, così come le continue gaffes pubbliche che sono pane fragrante per i denti voraci della televisione spagnola.

El alcalde è di tutt'altra pasta, e i madrileni lo dicono a gran voce. Uno dei momenti più tesi tra il sindaco e il Pp è del 2006, quando Gallardon decise, limitandosi ad applicare una legge dello Stato, di celebrare un matrimonio omosessuale, provocando l'ira del gotha popolare. Ma Madrid non è città che si scandalizza con poco. È la città che ospita Chueca, il quartiere gay più grande d'Europa e un Pride annuale da un milione e mezzo di persone.

Da un lato una destra di plastica, dunque, e dall'altro una nuova destra liberalconservatrice che non ha paura di confrontarsi con la modernità e il progresso. E nel paese eccessivo per antonomasia come quello iberico, nemmeno gli eccessi zapateristi da un lato e l'ipertradizionalismo di una parte del Pp e della Chiesa dall'altro, hanno fino ad oggi scalfito la popolarità di Gallardon e la sua azione politica che se ne infischia letteralmente delle divisioni politiche aprioristiche, del muro contro muro che conosciamo così bene anche in Italia.

La sfida è duplice e ugualmente difficile: offrire agli spagnoli un'alternativa allo zapaterismo dilagante e rinnovare un centrodestra imbolsito e ammuffito dalla scialba leadership di Mariano Rajoy. Chissà se il desiderio dei madrileni verrà esaudito e Alberto Ruiz-Gallardon potrà un giorno entrare alla Moncloa. Di sicuro c'è che l'unica novità degli ultimi anni è rappresentata dal suo nuovo approccio alla politica. Chi vincerà? La destra di plastica, ancorata al passato, che non ha visione o quella liquida, nuova, moderna ed europea? Parliamo della Spagna, ovviamente.

mercoledì 7 aprile 2010

Dopo Lost arriva Fringe, e la fiction gioca con la mente...

Ffwebmagazine
7 aprile 2010
Chi ha amato Lost alla follia (mai termine fu più appropriato) non può perdersi Fringe. La serie televisiva americana partorita dalla geniale e contorta mente di J.J. Abrams è finalmente arrivata sugli schermi di Italia 1. Dal 9 marzo, insomma, i telespettatori italiani possono godere delle cervellotiche indagini ai confini della realtà di uno speciale reparto dell'Fbi che si occupa di casi sovrannaturali. Qualcosa a metà tra X Files e il film Stati di allucinazione, secondo qualcuno, ma in realtà Fringe rappresenta qualcosa di diverso.

A differenza del telefilm cult che ci fece conoscere gli agenti Scully e Mulder, Fringe abbandona alcune banalità tipiche della tradizione fantascientifica e si mette a giocare con qualcosa di molto più pericoloso e affascinante: la mente umana. Il cast è di pregio, con un gran ritorno in tv di Joshua Jackson, il Pacey di Dawson's Creek che ha fatto impazzire una generazione di ragazzine. Ma più che le prove d'attore ci interessa altro, parlando di Fringe.

Tra morti misteriose provocate da allucinogeni prodotti da rane e rapitori che portano alla follia le loro vittime per condurre avveniristici e pericolosi esperimenti scientifici, la serie è la summa di tutte le cose, giuste o terribilmente sbagliate, che il cervello umano può fare. E il bello è che per molti fan la trama non è poi così fantascientifica. Anche perché ormai da molti anni si parla di una vera e propria branca scientifica che si occupa di quel 99% di capacità cerebrali che non abbiamo ancora scoperto e, forse, non scopriremo mai. Dal creatore di Lost, dunque, non c'era da aspettarsi niente di diverso. E in fondo, nonostante la trama così diversa e un canovaccio narrativo molto meno complicato, il tema alla base delle vicende è sempre quello: la mente umana e le paure che può generare.

Abrams è senza dubbio il capofila di questo nuovo genere quasi psicanalitico delle serie televisive americane. Seguendo le avventure, realistiche o meno, di personaggi di fantasia, lo spettatore entra in un vero e proprio percorso di autoanalisi. Può sembrare una teoria azzardata e campata in aria, ma alzi la mano chi, seguendo Lost, non si è mai immedesimato in uno dei personaggi, trasferendo su di sé anche per un solo secondo paure, dubbi, scelte, azioni. In fondo il quid è sempre quello, e capita da millenni, ben prima dell'avvento della tv. Lo scontro perenne tra Bene e Male, declinato in chiave moderna e catodica, in televisione funziona alla meraviglia, perché innesca i lati reconditi del carattere di ciascun spettatore.

Abbandoniamo i voli pindarici al limite della psicanalisi, però, per tornare a Fringe e alla sua natura prettamente televisiva. Il prodotto funziona e anche bene, la trama fila alla grande e il personaggio dello scienziato pazzo (letteralmente!) gioca molto sulla dicotomia a volte fittizia tra senno e follia, appassionando ancora di più lo spettatore. J.J. Abrams, dunque, ci ha regalato un altro piccolo gioiello. Ora c'è da sperare soltanto che Italia 1 non ripeta i soliti errori, interrompendo la trasmissione della serie o sacrificandola in orari improponibili. Per fortuna, da qualche anno a questa parte, satellite e digitale terrestre hanno messo una pezza nelle magagne dei palinsesti televisivi. Ma alla famosa casalinga di Voghera, da decenni indicata come lo spettatore tipo della tv italiana, e che magari non ha parabole né decoder, qualcuno ci vuole pensare?