FareitaliaMag
2 maggio 2011
Il concertone del primo maggio continua a tirare, c'è poco da fare. Piazza San Giovanni è puntualmente piena, stracolma di giovani che arrivano da tutta Italia per la musica (la stragrande maggioranza di loro) e per la politica (una sparuta ma rumorosa minoranza). E ieri, ammettiamolo, musicalmente lo spettacolo è stato di altissima qualità: grandi della musica leggera come Dalla e De Gregori, la rivisitazione originale dell'inno di Mameli di Ennio Morricone, la musica lirica con le arie più belle di Verdi. Un concerto italiano, che ha saputo offrire lo spettro completo della tradizione musicale di casa nostra.
Detto questo, però, anche quest'anno abbiamo notato il solito vizietto del concertone sindacale del primo maggio: le ovvietà storico-politiche. A un certo punto, ad esempio, quattro attori italiani hanno recitato (male) una lunghissima serie di frasi celebri sul nostro paese. Da Flaiano a Garibaldi, da Benigni a Gioberti, tante pillole di banalità e di discutibili “verità” date in pasto all'appassionatissima platea giovanile. E poi, ancora, un insolitamente trombonesco e buonista Neri Marcoré ha interpretato nel peggiore dei modi il liturgico ruolo di conduttore “peace and love”, il guru del politically correct che deve ad ogni costo presentare la faccia “pulita” (secondo loro) dell'Italia.
Dal prossimo anno, vorremmo ci fosse più spazio per la musica, ancora di più. Certo, essendo un evento organizzato dalla Triplice sindacale, è sacrosanto parlare anche dei problemi del mondo del lavoro. Ma lo si può fare, a nostro avviso, anche senza indossare l'elmetto dell'appartenenza politica. In fondo, l'estrema ideologizzazione del concerto di piazza San Giovanni è uno dei motivi per cui la ricorrenza del primo maggio è vissuta come di parte, non in grado di rappresentare tutti gli italiani. Eppure lavorano tutti, i nostri connazionali. Anche noi, ad esempio, che la maglietta di Che Guevara non l'abbiamo mai indossata eppure in quella piazza ci siamo stati varie volte, perché speravamo di trovare un nostro piccolo spazio di rappresentanza giovanile. Cosa che non c'è ancora oggi, purtroppo.
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