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lunedì 27 giugno 2011

Musica balorda e maledetta. Ecco la guida Rockriminal


ilfattoqtuotidiano.it
26 giugno 2011

Alzi la mano chi conosce i Gorgoroth o le Rockbitch. Forse nessuno, ma poco male. Musicalmente, a parte per i patiti del genere gothic c’è poco da dire. Ma assistere a uno dei loro concerti, quella sì che era una esperienza indimenticabile. Teschi (forse umani, forse no) appoggiati su villosi pubi femminili, donne nude crocifisse, sesso orale saffico degno di un film porno di quart’ordine. E poi droga, autolesionismo, problemi psichici e qualche morte misteriosa. È il rock, bellezza. E in questo caso è anche rock mischiato all’estremismo politico di destra nell’Europa settentrionale e orientale. Roba che riesce a influenzare periodicamente qualche teenager schizzato che, armi in pugno, fa irruzione in un liceo e massacra qualche coetaneo.

Ma è rock di basso livello, almeno per il grande pubblico. E il connubio tra musica dura (e non) e devianza di qualsiasi genere arriva ai massimi livelli delle chart internazionali di tutti i tempi. Di vite distrutte tra palchi, droghe, psicofarmaci ne possiamo elencare a iosa. Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, David Bowie, e potremmo continuare all’infinito.

Il caso più paradigmatico, che unisce tutta la forza della musica e la debolezza dell’uomo è quello di Syd Vicious, frontman dei Sex Pistols e irregolare simbolo del punk che sconvolse il mondo e la Londra benpensante, sapientemente e cinicamente manovrato da quel genio senza scrupoli del marketing che è stato Malcom McLaren. Sid era un disadattato. Sid era un tossico. Sid era un fottuto e stonatissimo genio della musica. Sid era un assassino. E la vittima non era una persona qualsiasi ma la sua Nancy, la donna che forse amava e che con lui condivideva nottate di stordimento eroinomani e crisi d’astinenza colme di vomito , bava alla bocca e sudori freddi. Accoltellata nel bagno di una camera del Chelsea Hotel (luogo maledetto anzichenò), Nancy Spungen era l’angelo nero di una coppia maledetta e perduta nel vortice dell’eccesso. Un eccesso figlio del disagio, non del vizio di una star capricciosa. Sid era figlio di una tossicodipendente, la stessa madre snaturata che poco tempo dopo il rilascio su cauzione diede a Sid una dose evidentemente tagliata male. L’ultima dose di una vita bruciata troppo in fretta. Ventidue anni, un omicidio, tanta droga, alcune pietre miliari della musica punk. Basta, nient’altro. La leggenda di Sid Vicious è tutta qui.

Ma il connubio tra musica e vita spericolata è antico e esplode soprattutto nell’epoca del flower power, del peace and love, nella summer of love californiana. Esplode a Woodstock nel 1969, ad esempio, e non è un caso se molta gente che ha calcato quel palco sia morta prematuramente. Come miss Janis Joplin, talento adamantino che si sentiva un cesso e cercava nella droga una sicurezza che non troverà mai, una pace che arriverà solo con la morte (ovviamente per overdose) a soli 27 anni. O Jimi Hendrix, chitarrista da Dio, tossico mica da ridere e noto erotomane dalle dimensioni falliche leggendarie, che nei suoi 28 anni di vita non si è negato davvero niente, a parte un po’ di felicità.

Ma gli anni Sessanta erano anche gli anni del “surf” disimpegnato, della musichetta californiana da spiaggia. E chi, meglio degli scanzonati Beach Boys, sono i simboli di quel periodo? Ebbene, nemmeno i fratelli Dennis e Brian Wilson, desengagés massimi in un’epoca di impegno, furono immuni dagli eccessi. Soprattutto Dennis, anche lui drogato ma soprattutto “amico” per un lungo periodo della Manson Family, il gruppo di pazzi invasati guidati dal guru svitato Charles Manson che pochi mesi dopo avrebbe fatto a pezzi Sharon Tate nella villa di Roman Polanski a Bel Air.

Su Beatles e Rolling Stones glissiamo, non fosse altro perché di inchiostro sulle loro imprese fuori dal palco se ne è parlato a sufficienza. Ma del Duca Bianco David Bowie no, non possiamo proprio tacere. Altro che Ziggy Stardust, il vero marziano era proprio lui. Efebico, ambiguo, gay o bisessuale o Dio solo sa chi, una volta arrivato al successo planetario aveva perso completamente la testa. Cocaina e disagio mentale, cocaina e disagio mentale, ad libitum, senza soluzione di continuità. Tant’è che recentemente ha raccontato di aver temuto più di una volta di morire, in quegli anni Settanta fatti di siringhe, sniffate e sesso sporco e sudaticcio. A vederlo oggi, col ciuffone mechato a coprire il viso segnato dall’età e dagli stravizi, fa quasi tenerezza. E invece David Bowie è stato il Signore del vizio per molti anni, fieramente convinto che proprio quel vizio produceva quei concept album meravigliosi dove i giovani disagiati dell’epoca trovavano una pur effimera via d’uscita.

Continuare nell’elenco dei miti della musica vissuti male o finiti peggio sarebbe un esercizio sterile e ripetitivo. Potremmo parlare di Jim Morrison, del malessere disperato di Kurt Cobain, della versione di plastica del cantante maledetto che ha nome Marilyn Manson, di altre morti misteriose, di omicidi, regolamenti di conti tra gang rap del Bronx o del Queens. Persino della morte misteriosissima e della vita poco edificante del re del pop Michael Jackson. Ma ci servirebbe davvero troppo spazio.

Ci ha pensato (riuscendoci peraltro molto bene) Sergio Gilles Lacavalla, che nel suo Rockcriminal (Coniglio editore) ha messo insieme una vera e propria enciclopedia del “rock balordo e maledetto”. Ci sono tutti, proprio tutti, anche gli sconosciutissimi metallari naziskin norvegesi che prima si scopavano tra loro e poi si uccidevano pure. Cinquecento pagine che sono una scarica di adrenalina, un viaggio nel tempo tra musica e droga, gloria e merda, siringhe e orgioni da capogiro. Si legge tutto d’un fiato e il dramma è che alla fine ti senti anche un po’ in colpa. Il perché è presto detto: quei balordi finiti male, vissuti come bestie e esempi non certo edificanti, ci mancano maledettamente. È il rock, bellezza

domenica 26 giugno 2011

Virus a chi?



FareitaliaMag
25 giugno 2011

Ha mille volti, il protagonista di questa settimana. Il suo nome, dalla radice sanscrita, o forse greca o latina, vuol dire comunque la stessa cosa: veleno. E non è un'esagerazione visto che stiamo parlando del virus. È nato per far male all'uomo, per debilitarlo e spesso ucciderlo. È un natural born killer, è spietato. Wikipedia ne dà una definizione tranchant, che rende bene la cattiva stampa di cui gode: “entità biologica elementare intracellulare parassita, agisce entrando nella cellula e prendendone il controllo. Dopo un periodo di tempo i virus che si sono formati nella cellula la distruggono ed escono fuori andando ad infettare il resto del corpo”. Che pessimismo ultracosmico, verrebbe da dire. Sì, perché in fondo il virus è molto più di questo e ridurlo soltanto a un guastafeste biologico che si pappa il nostro corpo è rendergli un pessimo servigio.
La parola, per traslato, è diventata sinonimo di contagio, spesso negativo, altre volte meno, o di contaminazione. Il vocabolario Treccani parla di “intensità quasi patologica di affetti, sentimenti, passioni, istinti irrefrenabili e dannosi”. Ecco, dunque, il virus della gelosia, quello del razzismo, del qualunquismo e di tutti gli -ismi che possiate immaginare. Qualsiasi cosa faccia male o dia fastidio, eccovi serviti: è un virus.
Bella forza prendersela sempre con il nostro venefico protagonista, il classico "alieno" che fa paura e fa irrigidire, che provoca reazioni scomposte solo perché non lo conosciamo. Noi siamo molto più morbidi nei suoi confronti. Questa nostra strana empatia con il “virus”, di qualsiasi tipo esso sia, ha origini antiche. Chi è cresciuto negli anni Ottanta conoscerà senza dubbio il cartone animato “Esplorando il corpo umano”. Per gli altri, sintetizziamo: il nostro corpo era stato trasformato in una sorta di città dove ognuno aveva un ruolo da svolgere. C'erano i grassocci e bonari globuli rossi che trasportavano emoglobina e ossigeno, o ancora gli anticorpi che intervenivano alacremente come un team di supereroi quando qualcosa non andava. E poi c'erano loro , i virus. Brutti, brufolosi, cattivissimi e puntualmente sconfitti. La nostra inguaribile tendenza a schierarci con chi perde ci aveva fregato di nuovo: virus, uno di noi. A cinque o sei anni, in effetti, non capivamo la differenza tra il fastidiosamente benefico globulo rosso e il cattivone virus e allora tifavamo per chi perdeva sempre. Un po' come con Silvestro, Will E. Coyote o Tom.
Crescendo abbiamo capito chi è il virus, e abbiamo imparato a starne alla larga, in qualsiasi campo della vita. D'inverno portiamo la sciarpa ed evitiamo luoghi affollati e promiscui per non incappare nel virus dell'influenza. Nel nostro computer è sempre in moto il provvidenziale “antivirus” che ci protegge da dialer, trojan, horse, worm, backdoor, spyware e chi più ne ha più metta (più il nome incute paura, più la Norton fa cassa). Nei rapporti interpersonali più intimi abbiamo diligentemente imparato a usare quelle che pudicamente si chiamano “precauzioni” per evitare qualche virus, quello sì, serio davvero, che potrebbe rovinarci la vita.
Siamo protetti, in tutto e per tutto, nei confronti del “nemico” che ci hanno insegnato a odiare. Ma a volte l'attenzione si trasforma in ossessiona e il virus che paventa il telegiornale della sera nemmeno esiste. Anzi sì: è il virus del virus. Un allarmismo spropositato che puntualmente ogni anno ci racconta di mucche pazze, uccelli influenzati, pecore guerce e Dio solo sa cosa. E al virus del virus (del virus del virus del virus, ad libitum) abbiamo dedicato gran parte di questo numero monografico. E mentre voi vi dannate l'anima per l'attuale virus da sbattere in prima pagina (il colpevole sarà il cetriolo o il germoglio di soia?), noi ce la ridiamo e, anzi, vi sfottiamo un po'. Non sottovalutando i virus veri, ma distinguendo con un minimo di buon senso tra ciò che fa male e basta e ciò che fa male perché così dicono.

sabato 18 giugno 2011

Se scoppia Barcellona...


FareitaliaMag
17 giugno 2011

Se, fino a qualche giorno fa, gli indignados madrileni affollavano Puerta del Sol per esprimere tutta la loro pacifica rabbia nei confronti dei politici spagnoli, a Barcellona l'esperimento era stato fallimentare. Pochi giorni di bivacco in Plaça Catalunya e poi basta, tende levate e tutti a casa, causando la delusione profonda dei ribellisti senza se e senza ma che proprio a Barcellona hanno creato il loro porto sicuro.
Mercoledì, però, qualcosa è successo anche nella capitale catalana: qualche migliaio di giovani ha assediato il Parlamento catalano, insultando e sputando addosso ai parlamentari che tentavano di forzare il blocco per prendere parte regolarmente alla seduta. I mossos d'esquarra (la polizia locale) hanno reagito in maniera dura e qualche manganellata ha esacerbato gli animi già incandescenti della gioventù ribelle barcellonese.
La situazione era diventata così critica che Artur Mas, presidente della Catalogna, è dovuto arrivare all'interno del Parlamento in elicottero, visto che via terra non c'era alcuna possibilità di passare.
La scintilla che ha innescato il tutto sono i tagli sociali, che proprio martedì si sarebbero dovuti discutere nell'ambito dell'approvazione della legge di bilancio. Anche la ricca Catalogna (un po' la Lombardia iberica) deve fare i conti con la crisi durissima che sta colpendo la Spagna e le misure drastiche sono necessarie per venirne fuori.
Ma di pura scusa si tratta, se è vero come è vero che la gioventù che ha messo radici a Barcellona è il massimo esempio dell'anticonformismo ribelle d'Europa. Il centro storico della città (Barrio Gotico, Raval, Born, La Ribera) è il cratere di un vulcano acceso stracolmo di magma incadescente, pronto a eruttare da un momento all'altro. Per capirlo basta fare una passeggiata da quelle parti: dalle case “alternative” dei giovani “alternativi” viene fuori una canzone di Manu Chao., guru dei “no global” di tutto il mondo che proprio a Barcellona gestisce una sorta di via di mezzo tra un pub e una comune. In queste zone la voglia di ribellione è incredibilmente diffusa. Altro che periferie parigine. Se scoppiasse una rivolta a Barcellona sarebbe il centro ad essere messo a ferro e fuoco, con tutto ciò che ne conseguirebbe.
Ha il suo bel da fare Artur Mas a invitare alla calma, ha condannare (giustamente) ogni episodio di violenza, a chiedere ai giovani di “lasciar lavorare la democrazia”. Di democrazia, quegli stessi giovani, non ne hanno vista molta. E non perché non ci fosse. Molto più semplicemente perché, nonostante vivano in una delle città più tolleranti e all'avanguardia d'Europa, hanno preferito chiudersi nella loro ridotta ai lati della Rambla per sognare un mondo utopico e irreale, privo di regole e leggi da rispettare, intriso della più stucchevole retorica pauperistica ed egualitaria.
Ecco perché non si possono prendere sottogamba gli scontri di pochi giorni fa. Barcellona non è Madrid. I manifestanti catalani non sono “indignati” ma incazzati furiosamente nei confronti di un sistema sociale, politico ed economico che non riescono ad accettare e che non vogliono solo migliorare o rendere più umano bensì distruggerlo completamente per fare spazio ai loro sogni hippy fuori tempo massimo.
Gli episodi di contestazione giovanile degli ultimi tempi vanno rispettati e compresi, a volte anche condivisi se necessario. Ma tra le sacrosante rivendicazioni di una generazione tradita e smarrita, precaria e senza futuro, e la volontà manifesta di buttare tutto in caciara e iniziare a menare le mani c'è una bella differenza. Tutta da cogliere, ovviamente, se vogliamo evitare altre Seattle, Goteborg o Genova.

mercoledì 15 giugno 2011

Se per rovesciare Berlusconi si danneggia il Paese

FareitaliaMag
14 giugno

Partiamo da un assunto di base: i risultati dei referendum sono troppo clamorosi perché si faccia finta di nulla. E allora è importante tentare di analizzarli nella maniera più asettica e distaccata possibile, cercando di separare le questioni importantissime sottoposte al voto degli italiani dalla più prosaica e incasinata quotidianità politica e istituzionale.
Una cosa è certa: per gli elettori si è trattato dell'ennesimo referendum contro Silvio Berlusconi, dopo le prime due “sberle” (la definizione è di Calderoli, non di Repubblica) dei due turni amministrativi. Poco male, perché una delle poche regole certe della politica dice che gli elettori hanno sempre ragione.
La complicazione, però, subentra quando un voto politico contro il governo pregiudica gli interessi basilari del Paese. Ed è esattamente quello che è successo lo scorso weekend. Per dare una “lezione” a Berlusconi e Bossi, al Pdl e alla Lega, gli italiani hanno rigettato con troppa disinvoltura una delle poche riforme liberali che questo governo aveva portato a termine. Stiamo parlando della liberalizzazione delle reti idriche, peraltro “imposta” anche dall'Unione europea e necessaria per migliorare il servizio ai cittadini. Ma il merito dei quesiti referendari lo abbiamo spiegato molto bene già nei giorni scorsi e non è il caso di tornarci.
Quello che ci preoccupa è l'atteggiamento irresponsabile di chi, pur di rovesciar il “tiranno”, è disposto anche a mandare a ramengo il poco che di buono è stato fatto, dimenticando posizioni precedenti, voti parlamentari e coerenza personale. Chi alla Camera e al Senato aveva votato convintamente per la liberalizzazione delle reti idriche e per il ritorno al nucleare, come spiega, oggi, un cambiamento così radicale dettato solo da piccoli interessi di bottega?
Questa è la domanda chiave, visto che il dietrofront di molte forze politiche (dal Pd a Futuro e libertà, passando per l'atteggiamento tiepido della Lega Nord) ha confuso (e ingannato) gli italiani. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: Berlusconi ha accusato il colpo ma l'Italia ha perso ancora una volta terreno nei confronti degli altri paesi europei.
Parigi varrà bene una messa, ma rovesciare Berlusconi vale una dannosa marcia indietro che ci allontana dallo sviluppo?

lunedì 13 giugno 2011

“Sculettamenti da comunisti”. L’Europride visto dalla stampa cattolica e di centrodestra

ilfattoquotidiano.it
12 giugno 2011

“Ahò, ma ce stanno pure i froci de destra?”. Se lo chiede un signore sulla sessantina che per caso ha incrociato il corteo dell’Europride all’altezza di via Cavour, vedendo passare la delegazione di Fli e GayLib con Flavia Perina e Enzo Raisi in testa. In risposta riceve solo una gomitata stizzita della moglie e qualche sorrisino divertito di alcuni partecipanti. La risposta, lapalissiana, è sì, ci sono anche loro.

Ma stamattina, a leggere i giornali cattolici o di centrodestra, sembrerebbe quasi che la parata dell’orgoglio omosessuale di ieri non sia stata altro che la solita carnevalata di comunisti. C’è chi preferisce minimizzare l’evento come Jacopo Granzotto sul Giornale, chi sceglie l’indignazione papista per gli “insulti” al Vaticano (Avvenire) o chi predilige uno stile più aggressivo, strumentalizzando senza vergogna la presenza di molti bambini alla manifestazione (Libero).

Granzotto inizia sminuendo il discorso di Lady Gaga dal palco, definito un “pistolotto”, banalizzando un messaggio che certo non sarà stato rivoluzionario ma che lanciato dalla più grande icona pop dei nostri giorni qualche effetto benefico può averlo comunque. Ovviamente nel mirino anche i finiani (“rossi dentro”) e i numeri dei partecipanti comunicati dall’organizzazione. Per il Giornale è stato “un flop, altro che carica dei 500mila. […] E fino alle 19 il circo Massimo rimane per pochi intimi”. Granzotto dimentica che fino alle 19 la gente stava sfilando per le vie della Capitale…

Molto più indignato il resoconto di Avvenire. Luca Liverani firma un articolo che già dal titolo fa capire l’andazzo: “Europride: applausi a Lady Gaga, insulti al Papa”. Anche qui si inizia sminuendo, proponendo di togliere uno zero ai 500mila partecipanti. Ma chi ieri c’è stato davvero e ha potuto constatare che di gente ce n’era eccome. Al giornalista di Avvenire non è piaciuto quello che definisce “il logoro corredo di trasgressioni da copione e sberleffi anticlericali” e nemmeno i “cartelli che rinnegano la tolleranza tanto invocata ed esibiscono un umorismo nero quantomeno discutibile, obiettivo fisso il Papa e la Chiesa”. La chiusura del pezzo è affidata alle considerazioni di Paola Ricci Sindoni, docente di filosofia morale dell’Università di Messina: “Pare abbiano il monopolio della differenza, solo loro sono discriminati e il mondo deve essere diviso in due: filo omosessuale o filo omofobo. L’irritazione cresce quando si lanciano offese gravi alla Chiesa. Chi vuole rispetto deve per primo dare rispetto”.

Più aggressiva, infine, è Brunella Bolloli su Libero. Le strumentalizzazioni partono fin dal primo rigo e i protagonisti sono i bambini: “I giocattoli sono out. Va di moda il palloncino a forma di fallo. E le piume di struzzo, le paillettes, il frustino. Bambine di 12 anni sul carro arcobaleno dei diritti gay, primi sculettamenti ingenui sulle note di Waka Waka. La mamma approva, il papà è con il fidanzato”. La Bolloli continua: “Passeggini fucsia e musica a palla. Tommaso, dieci mesi, forse vorrebbe farsi un sonno come tutti i bebé, ma nella baraonda dell’Europride e sotto la canicola romana non ce la fa. Tocca sfilare già da neonati. Con le drag queen e i trans tacco dodici a seno scoperto”. Evidentemente la Bolloli era alla sua prima partecipazione, visto che a detta di tutti gli abitués, quest’anno le “nudità” erano davvero ridotte all’osso (chi scrive ha visto solo un seno in mostra in più di sei ore di manifestazione).

Fin qui le polemiche della stampa cattolica e berlusconiana. Resta un dubbio: l’illustre docente di filosofia morale interpellata da Avvenire, quando parlava di “dare rispetto per ricevere rispetto” si rivolgeva all’Europride o al Vaticano?

venerdì 10 giugno 2011

Domani sera Corrado Guzzanti torna in Tv (su SkyUno) con “Aniene”

ilfattoquotidiano.it
9 giugno 2011

Corrado Guzzanti torna in tv venerdì 10 giugno, alle ore 21.10, su SkyUno con il suo nuovo show “Aniene”. Sul satellite, appunto, perché le antenne “terrestri” e generaliste preferiscono deliziare il loro pubblico con il Saturday Night Live (un inno sfacciato alla filosofia del bunga bunga che peraltro va in onda di mercoledi) o con gli show della coppia Pupo-Emanuele Filiberto.

E allora Guzzanti, che non è certo il tipo che vende l’anima al diavolo pur di apparire in video, si era preso nove anni di riposo catodico, spuntando qua e là solo nei programmi dell’amica Dandini o interpretando un personaggio cult nella serie Boris (sempre di Sky, tanto per cambiare). “Il caso Scafroglia” infatti è del 2002, ultimo ruggito in Rai di uno strano e meraviglioso animale da palcoscenico, timido nei propri panni e scatenato in quelli dei suoi personaggi.

L’attesa è stata lunga, è vero, ma a quanto pare ne è valsa la pena. Chi ha avuto modo di guardare le anticipazioni diffuse su internet è già in fibrillazione e si è rimessa in moto la macchina mai del tutto sopita dei tanti fan di Corrado Guzzanti. Niente format classici della comicità televisiva, promette l’attore, e un nuovo ritmo veloce, imposto dall’immediatezza della Rete, con pillole di satira e un montaggio curatissimo che dovrà tenere insieme i pezzi che godono di vita propria.

Un evento televisivo annunciato, dunque, che andrà a far compagnia a Vieni via con me e a Raiperunanotte nella particolarissima bacheca dei megaeventi in tv (o fuori da quella dei circuiti tradizionali) che hanno fatto arrabbiare non poco politici e dirigenti dei piani alti. Corrado Guzzanti, che non ha mai voluto interpretare il ruolo della vittima della censura e del sistema berlusconiano, avrà senza dubbio raccolto il materiale necessario per confezionare un prodotto comico degno delle sue migliori prove del passato. In fondo stanno ancora tutti lì, i protagonisti della vita politica italiana che già quindici anni fa il comico romano prendeva di mira. Tutti lì con i loro tic, i loro vizi e vizietti, le loro grottesche abitudini.

E forse anche loro saranno seduti in poltrona, venerdì sera. Perché in fondo sono così narcisi e poco consapevoli dei loro difettacci che non capiscono appieno quanto si diverta Guzzanti a prenderli per i fondelli, a mostrare agli italiani il vero volto (pur se estremizzato nel classico esercizio della satira) di una classe dirigente che può permettersi il lusso di tenere 9 anni Guzzanti fuori dalla tv, visto che a far ridere la gente ci riescono benissimo da soli.

giovedì 9 giugno 2011

Sabato al Pride, da destra


FareitaliaMag
8 giugno 2011

Tra tre giorni Roma ospiterà la più importante manifestazione continentale in difesa dei diritti delle persone omosessuali. L'Europride riempirà fino all'inverosimile le vie della Capitale e l'Italia provinciale, un po' omofoba e bigotta, a volte fastidiosamente intollerante, diventerà il centro dell'universo LGBT. Come si dice in questi casi? “Ogni manifestazione pubblica è segno di libertà e vitalità democratica”, e via cantando. Vero, verissimo. E la parata di sabato rappresenta un'occasione importante per la società italiana, che non può più chiudere gli occhi di fronte a una necessità di regolare diritti (e doveri) di migliaia di coppie figlie di un Dio minore.
La politica, innanzitutto, dovrebbe fare la sua parte. Perché nel 2011 è vergognoso e inconcepibile che il Parlamento non affronti una problematica di tale portata, che riguarda davvero qualche milione di persone (le stime della popolazione omosessuale in Italia variano tra il 5 e il 10%). Solo affrontarlo, per carità. Perché nessuno si aspetta una legge in tal senso da una legislatura come quella attuale. Sarebbe qualcosa di inimmaginabile, purtroppo. Ma un passetto in avanti, soprattutto a destra, ce lo aspettiamo eccome.
Nel centrodestra italiano, solo fino a pochi anni fa, l'argomento era un vero e proprio tabù. A destra non si doveva né poteva parlare di gay, di omoaffettività, di Pacs, unioni civili e men che meno di matrimonio “alla spagnola”. Ne è prova anche qualche avventata affermazione di alcuni leader politici di primissimo piano che oggi hanno finalmente capito quale deve essere l'approccio al problema ma solo dieci anni fa si lanciavano in tesi sgangherate al limite dell'omofobia più gretta. E invece, oggi si può parlare di omosessualità anche a destra, interrogandosi su quale debba essere l'istituto normativo che riconosca finalmente i sacrosanti diritti di due persone dello stesso sesso che si amano e decidono di condividere la loro esistenza. Anche perché l'Italia è rimasta uno degli ultimi paesi in Occidente a non prevedere alcun tipo di garanzia. Ci si può sposare in Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda, Svezia e Norvegia, mentre esistono altre forme di riconoscimento delle unioni gay in Francia, Svizzera, Germania, Inghilterra, Austria, Irlanda, Finlandia, Danimarca, Repubblica Ceca, Slovenia e Ungheria. Manchiamo solo noi, insomma.
E se persino Marine Le Pen si è recentemente schierata a favore delle unioni gay, smentendo decenni di omofobia del Fronte Nazionale e usando l'argomento in chiave anti-islamica (in soldoni: “Noi siamo civili, rispettiamo le differenze e riconosciamo i diritti alle coppie gay”), l'anomalia italiana diventa sempre più preoccupante. Ecco, allora, che una parte della destra politica italiana comincia a interrogarsi e finalmente molti politici liberali o conservatori trovano il coraggio di dire pubblicamente che sì, le coppie gay devono avere un riconoscimento giuridico anche nel nostro paese. Fino a pochi mesi fa, la mosca bianca era Benedetto Della Vedova, che ogni anno sfidava i fischi della piazza ultraideologizzata per sfilare al Gay Pride, orgoglioso della sua appartenenza politica di centrodestra ma non per questo chiuso in steccati omofobici che non fanno onore alla grande famiglia liberalconservatrice e moderata di casa nostra. Dalla prossima legislatura, ne siamo certi, si potrà cominciare a parlarne, trovando un punto di contatto tra centrodestra e centrosinistra e uscendo a testa alta da una vergogna continentale che ci vede fuori dal consesso delle nazioni civili su questo tema.
E allora, nell'attesa che il futuro sia migliore di questo desolante presente, sabato andiamo in piazza, da destra, a reclamare diritti civili inalienabili. Lo dobbiamo non solo a chi lotta da decenni per queste elementari conquiste di civiltà, ma anche, e forse soprattutto, a quella nuova destra liberale che abbiamo in mente, che è diversa dai rigurgiti omofobi e intolleranti di certe frange estremiste o bigotte e che ha capito, finalmente, che i diritti degli individui non sono negoziabili e che soprattutto non sono in contrasto con i sacrosanti principi ispiratori della destra politica. Non si tratta di chiedere “matrimoni alla spagnola” o adozione. È un discorso che sta a monte, che concerne il rispetto e la tolleranza nei confronti dell'altro da noi. Solo quando avremo capito questo potremo iniziare a parlare di forme di regolamentazione normativa. È arrivato il momento di prendere posizioni in merito. Se non ora, quando?

mercoledì 8 giugno 2011

Lady Gaga sarà la star dell’Europride. Fenomenologia di miss Germanotta

ilfattoquotidiano.it
7 giugno 2011

La notizia è di quelle che mandano in iperventilazione i fan più accaniti e che creano grande curiosità anche tra chi ha gusti musicali ben diversi: Lady Gaga chiuderà l’Europride che si svolgerà sabato prossimo a Roma. E il merito, a quanto pare, non è di un impresario musicale ma addirittura dell’ambasciatore americano in Italia David Thorne. Su segnalazione del comitato promotore del Gay Pride europeo, infatti, il rappresentante statunitense non ci ha pensato due volte e ha scritto una lettera accorata di invito alla pop star più famosa del mondo, sensibilizzandola sulla piattaforma politica dell’evento e stuzzicando la sua già spiccata sensibilità nei confronti delle tematiche Lgbt. Ed ecco, allora, che la già affollatissima parata per i diritti omosessuali si trasformerà in un happening senza precedenti, con una partecipazione che rischia di diventare strabordante.

L’impegno per la tutela di ogni differenza, a partire da quelle sessuali, non è certo una novità per Stefani Joanne Angelina Germanotta. Born this way, uno degli ultimissimi successi della cantante, è infatti un manifesto orgoglioso di tolleranza e rispetto reciproco: “Non essere un peso, sii solo una regina, se sei povero, o ricco, nero, bianco, beige oppure di stirpe chola, libanese o orientale. Anche se la vita ti ha ferito, emarginato, maltrattato o preso in giro, gioisci di te stesso ed amati, perché sei nato così. Non importa se gay, etero o bisessuale, lesbica o transessuale, sono sulla strada giusta, sono nato per sopravvivere”.

Che la si consideri un fenomeno da baraccone costruito a tavolino o una cantautrice rivoluzionaria e talentuosa, una cosa è certa: Gaga è l’icona del mondo contemporaneo. Non tanto, o non solo, perché ha venduto 16milioni di copie del suo primo album. Non tanto, o non solo, perché ha soppiantato Madonna e disintegrato Britney Spears e Christina Aguilera. Non tanto, o non solo, perché qualsiasi respiro della giovane italo-americana diventa notizia di culto, tendenza, vangelo per milioni di fans in giro per il mondo. Semplicemente Lady Gaga interpreta al meglio lo zeitgeist di questo inizio di terzo millennio. È la profetessa dell’individualità, la capofila dell’hic et nunc, la Regina di milioni di little monsters (così chiama i suoi fans). Milioni di persone che prima di riconoscere in Lady Gaga la loro leader erano disadattati, ai margini della società giovanile dei nostri tempi per una serie di motivi diversi: omosessuali, freaks, nerd. Schiere di teenagers americani che nella scalata verso la gloria di miss Germanotta si sono riconosciuti, hanno trovato uno spiraglio per le loro strampalate aspettative. È l’american dream, ancora una volta, a fare da leitmotiv all’epopea pop di Lady Gaga. Lo racconta lei stessa, ogni volta che ne ha l’opportunità: “Ero una ragazza cattiva, una disadattata. Scappavo da casa, prendevo droghe, avevo relazioni con uomini molto più grandi di me”. Ora è la regina del pop mondiale e tenta di utilizzare la fama anche per aiutare i suoi innumerevoli fan.

Lady Gaga esempio positivo per i giovani d’oggi, dunque? Nì, o almeno andiamoci piano. È vero che il suo impegno per i diritti civili (soprattutto per il matrimonio omosessuale in America) è encomiabile e coraggioso. Ma è altrettanto vero che che Gaga è una perfetta macchina da soldi, che fa leva sulle istanze più sentite tra i suoi fans per vendere ancora più dischi e riempire gli stadi. La ragazza sembra sincera quando si batte per il same sex marriage, quando ne parla accoratamente con Barack Obama, quando interviene da consumato leader politico alle manifestazioni organizzate dalle associazioni LGBT a stelle e strisce. Ma da un istrione come lei ci si può aspettare di tutto: anche che si tratti semplicemente di una “paraculata” senza ritegno a scopo commerciale.

E intanto, mentre ci si chiede se c’è o ci fa, mentre osserviamo attoniti e a volte disgustati il suo stile sempre sopra le righe e di cattivo gusto, tipico di una certa subcultura italoamericana che potremmo definire come la versione impegnata degli ultratamarri di Jersey Shore, lei se ne infischia e va dritta per la sua strada. Macina milioni di dollari, di dischi e di chilometri. Ha creato una religione pop che ha milioni di adepti sparsi in ogni angolo del globo, provoca benpensanti e baciapile con videoclip sempre sull’orlo della blasfemia (Judas è l’ultimo esempio). Piaccia o meno, è il fenomeno di pop culture più dirompente dai tempi di Madonna e Michael Jackson. Piaccia o meno, moltissimi giovani si riconoscono nel suo stile sfacciato e fintamente politicamente scorretto (quando invece predica uguaglianza di diritti e amore universale). Lady Gaga è tutto questo, e molto altro. Capiremo con il tempo se si tratta di un geniale talento o di un bluff senza precedenti. Nel frattempo, e non possiamo davvero fare altrimenti, canticchiamo di nascosto le sue canzoni (perché i radical chic ci giudicherebbero troppo commerciali) e attendiamo di capire chi è davvero Stefani Joanne Angelina Germanotta, monarca di questo mondo dominato dal pensiero debole.

Terzo Polo in affanno sul referendum


FareitaliaMag
7 giugno 2011

Un Terzo Polo che si definisce europeo, moderno, liberale e riformatore può decidere di non decidere sui referendum su acqua e nucleare che si terranno domenica prossima? Se lo è chiesto, dalle pagine del Sole 24 Ore di domenica, Alessandro De Nicola, docente di business law alla Bocconi di Milano e presidente della Adam Smith Society. La risposta, ovviamente, è stata quella che qualsiasi osservatore realmente riformatore può dare: no, non può permettersi di non decidere.
E infatti, dopo il solito bailamme di dichiarazioni pre-voto, con una situazione confusa anziché no, il Terzo Polo ha finalmente deciso di esprimersi ufficialmente: due no sui servizi idrici, libertà di voto su nucleare e legittimo impedimento.
Decisione attesa e necessaria, anche per placare le polemiche relative a prese di posizione che potremmo quantomeno definire singolari. Paradigmatico è il caso di Futuro e Libertà. La normativa che liberalizza i servizi idrici porta la firma di un suo autorevole esponente (l'ex ministro Andrea Ronchi) e all'epoca del voto in Parlamento tutti i futuristi avevano espresso parere favorevole. A distanza di qualche anno, e dopo qualche baruffa di troppo all'interno del centrodestra, alcuni finiani sembrano aver cambiato radicalmente idea. Niente di male, per carità, se non fosse che il tutto sembra strumentale a un'operazione che è politica fino al midollo, senza reali cambiamenti di opinioni sui temi sottoposti a referendum. Se da un lato c'è chi come Benedetto Della Vedova, si schiera apertamente per i due no, dall'altro ci pensa il solito Granata con i sui quattro sì urlati ai quattro venti a confondere le già confuse opinioni dell'elettore moderato e liberale, che proprio in riforme come quelle in oggetto confida per una sterzata riformatrice nel nostro paese. E anche chi si schiera apertamente per il no ma invitando gli elettori a recarsi in massa alle urne, oggettivamente fa un regalo immenso agli abrogazionisti, alla spasmodica ricerca del fatidico quorum. Ma il punto, almeno dentro Fli, sembra essere più che altro l'affermarsi di un “liberi tutti” che spiazza e preoccupa. Ma soprattutto: se la linea ufficiale del Terzo Polo (e quindi anche di Fli) è "due no e due libertà di voto", pare più che lecita, all'interno della decisione di ieri, la posizione di chi si è schierato apertamente per i quattro no. Meno accettabile, perché si pone al di fuori della linea ufficiale decisa dalla coalizione, è chi fa campagna attiva e pressante per i quattro sì. I custodi gelosi dell'unità del partito dovrebbero prenderne atto e intervenire puntualmente.
L'Udc ha sempre avuto le idee più chiare sui quesiti (2 no sull'acqua, sì sul legittimo impedimento e libertà di voto sul nucleare) e solo sul nucleare fa un leggero passo indietro, senza dubbio dettato dagli allarmismi del dopo Fukushima che rischiano di spaventare l'elettorato. Api non pervenuta, ma sembra che sia contro il nucleare.
“Il terzo polo si è sciolto nel referendum”, titolava il Sole domenica. E in effetti, con questa situazione confusa, la conclusione non può essere che questa. Ci si aspettava di più, francamente, da chi aveva promesso di far proprie le istanze liberali e riformatrici di un'Italia bloccata, da chi aveva assunto pubblicamente l'impegno di compiere scelte anche dolorose per modernizzare un paese piegato su se stesso. E invece no, la decisione è arrivata in ritardo e con i contorni non certo ben definiti. E la cosa che stupisce maggiormente è che nemmeno chi è schierato sin dall'inizio con il no abbia solo lontanamente accarezzato l'idea di invitare l'elettorato all'astensione. Ipocrisie a parte, l'astensione è un'opzione da sempre quando si tratta di affrontare un referendum che richiede il quorum. Andare a votare vuol dire dare una mano ai promotori del referendum e quindi a chi vuole abrogare le norme in esame. Non andare a votare, oltre che essere una libera scelta di ognuno, vuol dire cercare di bloccare un rigurgito conservatore che vorrebbe tenere l'Italia ferma al palo, instillando nella gente paure prive di fondamento.
Il Terzo Polo, se fosse davvero liberale, europeo, moderno e riformatore, dovrebbe prenderne atto e difendere con ogni mezzo lecito (quindi anche attraverso l'invito all'astensione) alcune riforme fondamentali che non possono essere cancellate attraverso campagne referendarie approssimative e figlie di una demagogica e preoccupante ignoranza.