FareitaliaMag
25 giugno 2011
Ha mille volti, il protagonista di questa settimana. Il suo nome, dalla radice sanscrita, o forse greca o latina, vuol dire comunque la stessa cosa: veleno. E non è un'esagerazione visto che stiamo parlando del virus. È nato per far male all'uomo, per debilitarlo e spesso ucciderlo. È un natural born killer, è spietato. Wikipedia ne dà una definizione tranchant, che rende bene la cattiva stampa di cui gode: “entità biologica elementare intracellulare parassita, agisce entrando nella cellula e prendendone il controllo. Dopo un periodo di tempo i virus che si sono formati nella cellula la distruggono ed escono fuori andando ad infettare il resto del corpo”. Che pessimismo ultracosmico, verrebbe da dire. Sì, perché in fondo il virus è molto più di questo e ridurlo soltanto a un guastafeste biologico che si pappa il nostro corpo è rendergli un pessimo servigio.
La parola, per traslato, è diventata sinonimo di contagio, spesso negativo, altre volte meno, o di contaminazione. Il vocabolario Treccani parla di “intensità quasi patologica di affetti, sentimenti, passioni, istinti irrefrenabili e dannosi”. Ecco, dunque, il virus della gelosia, quello del razzismo, del qualunquismo e di tutti gli -ismi che possiate immaginare. Qualsiasi cosa faccia male o dia fastidio, eccovi serviti: è un virus.
Bella forza prendersela sempre con il nostro venefico protagonista, il classico "alieno" che fa paura e fa irrigidire, che provoca reazioni scomposte solo perché non lo conosciamo. Noi siamo molto più morbidi nei suoi confronti. Questa nostra strana empatia con il “virus”, di qualsiasi tipo esso sia, ha origini antiche. Chi è cresciuto negli anni Ottanta conoscerà senza dubbio il cartone animato “Esplorando il corpo umano”. Per gli altri, sintetizziamo: il nostro corpo era stato trasformato in una sorta di città dove ognuno aveva un ruolo da svolgere. C'erano i grassocci e bonari globuli rossi che trasportavano emoglobina e ossigeno, o ancora gli anticorpi che intervenivano alacremente come un team di supereroi quando qualcosa non andava. E poi c'erano loro , i virus. Brutti, brufolosi, cattivissimi e puntualmente sconfitti. La nostra inguaribile tendenza a schierarci con chi perde ci aveva fregato di nuovo: virus, uno di noi. A cinque o sei anni, in effetti, non capivamo la differenza tra il fastidiosamente benefico globulo rosso e il cattivone virus e allora tifavamo per chi perdeva sempre. Un po' come con Silvestro, Will E. Coyote o Tom.
Crescendo abbiamo capito chi è il virus, e abbiamo imparato a starne alla larga, in qualsiasi campo della vita. D'inverno portiamo la sciarpa ed evitiamo luoghi affollati e promiscui per non incappare nel virus dell'influenza. Nel nostro computer è sempre in moto il provvidenziale “antivirus” che ci protegge da dialer, trojan, horse, worm, backdoor, spyware e chi più ne ha più metta (più il nome incute paura, più la Norton fa cassa). Nei rapporti interpersonali più intimi abbiamo diligentemente imparato a usare quelle che pudicamente si chiamano “precauzioni” per evitare qualche virus, quello sì, serio davvero, che potrebbe rovinarci la vita.
Siamo protetti, in tutto e per tutto, nei confronti del “nemico” che ci hanno insegnato a odiare. Ma a volte l'attenzione si trasforma in ossessiona e il virus che paventa il telegiornale della sera nemmeno esiste. Anzi sì: è il virus del virus. Un allarmismo spropositato che puntualmente ogni anno ci racconta di mucche pazze, uccelli influenzati, pecore guerce e Dio solo sa cosa. E al virus del virus (del virus del virus del virus, ad libitum) abbiamo dedicato gran parte di questo numero monografico. E mentre voi vi dannate l'anima per l'attuale virus da sbattere in prima pagina (il colpevole sarà il cetriolo o il germoglio di soia?), noi ce la ridiamo e, anzi, vi sfottiamo un po'. Non sottovalutando i virus veri, ma distinguendo con un minimo di buon senso tra ciò che fa male e basta e ciò che fa male perché così dicono.
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