Pagine

venerdì 30 ottobre 2009

Altro che Asterix. Noi stiamo con Cesare

Ffwebmagazine
fine ottobre 2009

Asterix? No, grazie, preferiamo Cesare. Proprio oggi cade il cinquantenario dall’esordio del fumetto di Goscinny e Uderzo, uscito il 29 ottobre 1959 sulle pagine del periodico francese Pilote, e dappertutto è un fiorire di celebrazioni, di interpretazioni positive di una saga che, a guardarla bene, di positivo ha davvero poco. Per intenderci: nella perenne sfida tra le legioni romane e i forsennati abitanti del villaggio, noi stiamo con Cesare, con la Roma simbolo di modernità e multiculturalità, con quello che diventerà l’Impero romano, che non è assoggettamento ma contaminazione e integrazione. Quello stesso Impero che è stato usato, strumentalizzato ideologicamente e politicamente, esaltato o bistrattato per convenienza, e che invece ha rappresentato il primo modello multiculturale degno di nota della storia, ben prima dell’epopea americana. Non ci sarebbe il mondo come lo conosciamo oggi senza quel melting pot formidabile nato sulle rive del Tevere. Altro che Roma ladrona.

Al contrario, il villaggio gallo di Asterix e Obelix, da sempre elevato a modello di resistenza all’omologazione, è piuttosto l’esempio di una cultura identitaria stantìa, il simbolo di una difesa della tradizione a oltranza e fine a se stessa, il monumento alla paura del nuovo e del diverso. Altro che eroici resistenti, custodi di una purezza antica. I Galli che resistono all’avanzata di Cesare sono conservatori, nel senso più deleterio del termine, sono oltranzisti localisti, nemici a prescindere dello “straniero” e di ogni forma di melange culturale. Diciamolo pure senza problemi: sono leghisti. È la cultura dei sindaci-sceriffi che esacerbano gli animi e lanciano anatemi sull’ondata multietnica e multiculturale, dei respingimenti senza se e senza ma. E Cesare, invece, rappresenta l’Italia globale, quella inevitabile, quella che ci piacerebbe vedere all’orizzonte ma che a qualcuno fa così paura, quella della generazione Balotelli.

Le analogie con il presente sono davvero sorprendenti. In una vignetta della saga, ad esempio, Asterix vede un acquedotto romano, oggi come allora esempio magnifico di architettura e ingegneria, ed esclama: «Sono pazzi questi romani! Stanno rovinando le nostre valli». È la versione fumettistica del No Tav, del not in my back yard, di chi si trincera dietro la retorica del federalismo strapaesano per nascondersi all’altro, al progresso, al futuro. Di chi non vuole che la propria vita abitudinaria e spesso banale venga sconvolta da agenti esterni, negativi o positivi che siano. 

La vita di quei leghisti ante litteram, dunque, è intrisa di tradizionalismo e di totale chiusura nei confronti dell’innovazione. Basti pensare al povero Assurancetourix, il bardo, musico e poeta che tutti emarginano perché, a loro dire, è stonato. In realtà, Assurancetourix altro non è che un jazzista, un musicista irregolare, un innovatore, quasi un punk, un artista che non ha bisogno di essere intonato per sentirsi libero di esprimersi. E i suoi concittadini che lo disprezzano e lo sfottono somigliano tanto a chi, all’interno di qualsiasi regime totalitario, ha sempre osteggiato quella che definivano “musica degenerata”, come i nazisti strenui nemici del jazz e del suono della tromba modificato da aggeggi “infernali”. Assurancetourix diventa, di conseguenza, il vero resistente, il creativo del gruppo. È l’unico che sperimenta, che si lancia nella mischia di un mondo in trasformazione, che crede nell’enorme potenzialità della contaminazione.

Ma i riferimenti storici sono numerosi. Quel villaggio nel cuore della Gallia in fondo è vagamente vandeano. Come la Vandea, che tanto è piaciuta e piace a una certa destra, è un’enclave tradizionalista che disprezza un processo storico che cancella l’ancien regime, e con esso la tradizione, che sia buona o cattiva a quel punto non ha più molta importanza. Ma il mondo inevitabilmente cambia e si adatta alle nuove condizioni storiche, accoglie e non respinge. Sia chiaro: nessuno sta mettendo in discussione il valore incontestabile della tradizione, molto spesso utile motore anche per il presente e il futuro. C’è però una tradizione portata all’eccesso che diventa bacchettonismo, che si arrocca su posizioni vetuste e anacronistiche, che non coglie i cambiamenti storici, sociali e culturali e li osteggia, li rifiuta. La destra che ci piace non è questa, ma quella di Marinetti, dello slancio impavido e quasi un po’ sconsiderato verso il futuro. E il padre del Futurismo, ne siamo certi, avrebbe buttato via Asterix, Obelix e tutto il resto, nell’immondezzaio delle cose superate, inutili, incompatibili con il domani.

Come potremmo, dunque, celebrare i cinquant’anni di un fumetto così tremendamente attuale e dal messaggio opposto rispetto all’Italia che vorremmo, che sogniamo, che riteniamo l’unica possibile? 
Se è vero, come è vero, che non moriremo leghisti, oggi non possiamo far altro che sperare che i goffi centurioni di Giulio Cesare scoprano il segreto della pozione preparata dal druido Panoramix e riescano, finalmente, a contagiare tutti con la loro voglia di globalità. Forse è una speranza solo fumettistica. Ma forse no.

sabato 24 ottobre 2009

Siamo stati emigranti, non scordiamolo mai

Ffwebmagazine
24 ottobre 2009

Nessun italiano che si rispetti, retorica nazionalista di qualsiasi colore a parte, può evitare di emozionarsi visitando il Museo nazionale dell’Emigrazione italiana, inaugurato ieri al Vittoriano, alla presenza del presidente Napolitano, del ministro Bondi e del presidente della Camera Fini. Nelle curatissime sale espositive c’è davvero di tutto, in un percorso multimediale che immerge il visitatore nelle struggenti, ma speranzose atmosfere dell’emigrazione nostrana nel corso degli ultimi due secoli: lettere, telegrammi, cartoline, oggetti personali, pagine di giornali dell’epoca, video, audio, persino canzoni dedicate agli emigranti. Lo spazio museale, fortemente voluto dal sottosegretario agli Affari esteri Alfredo Mantica, rende finalmente omaggio a un fenomeno cruciale per la storia dell’Italia post-unitaria, che ha segnato intere generazioni e ha marchiato a fuoco le carni di un intero popolo. Non c’è facile retorica tra le splendide sale del complesso del Vittoriano; non c’è nostalgia fine a se stessa del tempo che fu; né esaltazione aprioristica di quel momento storico. C’è semplicemente il dovuto omaggio a chi, citando le parole del sottosegretario Mantica, «è partito con un sogno; non tutti hanno potuto realizzarlo ma ognuno ha, comunque, una storia da raccontare».

Ce ne sono davvero tante di storie da rivivere. Dalle più note, come l’affondamento dell’Andrea Doria al largo di Boston o il vergognoso caso di Sacco e Vanzetti, alle meno conosciute, quelle personali, le più numerose, che riguardano un’intera schiera di emigranti senza nome che con la valigia piena di sogni e il cuore ancorato all’Italia, si è diffusa a macchia d’olio in ogni angolo del pianeta. Particolarmente toccante, ad esempio, una lettera di un emigrante italiano in Svizzera indirizzata alla madre: poche righe, tantissima dignità, e la felicità di aver iniziato un nuovo lavoro come “assistente manovale”. E alla fine la promessa più toccante: i primi risparmi saranno per lei, per la madre lontana. Italiani brava gente, potremmo dire utilizzando un vecchio cliché. E in molti casi non ci sbaglieremmo di certo. Ma i cliché sui nostri connazionali in giro per il mondo, si sa, sono spesso negativi. E allora ecco una carrellata vergognosa e drammatica di “ronde contro gli italiani” in svariati paesi del mondo, a cominciare dalla “civilissima” Svizzera. A Zurigo, all’inizio del Novecento, la caccia all’italiano sembrava lo “sport” preferito, segno di una xenofobia senza uguali, piena zeppa di preconcetti molto spesso privi di fondamento. O ancora un cartello appeso alla porta di un negozio tedesco che recitava lapidariamente “Vietato l’ingresso agli italiani”. Storie dure, di umiliazioni e fatiche immani. Ma anche di grandi drammi, come la tragedia della miniera belga di Marcinelle, ormai riconosciuto come l’evento simbolo della nostra secolare vicenda di emigrazione.

Non mancano, e ci mancherebbe altro, gli esempi positivi, le storie di successi e realizzazioni di sogni. Le scuole italiane all’estero, le aziende, i contributi determinanti dei nostri connazionali nello sviluppo economico e culturale di molti paesi (soprattutto in Sud America). L’emigrazione italiana, come ogni altro fenomeno sociale, è piena di sfaccettature, di chiaroscuri, di trionfi e fallimenti, di cervelli in fuga, di bocche da sfamare e di braccia mai stanche. E pensare che fino a ieri, nonostante la presenza di numerosi musei locali dell’emigrazione sparsi in tutta Italia, non c’era ancora un punto di riferimento nazionale nella Capitale. L’impegno del sottosegretario Mantica è stato davvero encomiabile. Prova ne siano, e in Italia è una notizia, i tempi brevi di realizzazione: solo un anno è trascorso, infatti, da quando l’idea è stata ripresa e rimessa in moto da zero. Tempi da record per un’iniziativa pubblica. E anche i soldi spesi sono stati pochi e utilizzati con splendida efficacia: circa un milione di euro.

Ma questo museo era un atto dovuto ai milioni di persone che sono andati via alla ricerca di un futuro migliore, portando nel cuore l’Italia e diffondendo ovunque i nostri valori (a volte anche quelli per nulla positivi, ammettiamolo senza problemi). Quando si affrontano certi argomenti il rischio della retorica è sempre in agguato. A volte, però, crediamo che valga la pena correre il rischio e ricordarsi che quello che siamo oggi è il frutto di quello che abbiamo fatto ieri. E dovrebbero ricordarselo anche quelli che oggi si rivoltano sguaiatamente contro gli immigrati che vengono in Italia con lo stesso sogno dei nostri connazionali di allora. Non a caso, infatti, il percorso espositivo del Museo nazionale dell’Emigrazione italiana si chiude con un enorme collage di foto appese al muro. Sono le foto di decine di immigrati, tutti ritratti mentre lavorano. Sono il frutto, tangibile e innegabile, di un capovolgimento della storia che non possiamo e non vogliamo evitare, di un contrappasso che in fondo non è affatto negativo. In giro per il mondo con le valigie di cartone ci siamo andati noi per primi, per secoli. Non dimentichiamolo mai.

venerdì 23 ottobre 2009

Woody torna a casa. Pessimista come sempre

Ffwebmagazine
23 ottobre 2009

Woody Allen torna a New York (dopo le parentesi europee di Londra e Barcellona) e colpisce ancora. Basta che funzioni, l'ultima sua fatica cinematografica, è un concentrato di tutte le geniali nevrosi e i tic al limite del fastidioso che il cineasta americano ci ha regalato negli ultimi quarant'anni. E pensare che sullo schermo Allen non compare proprio. C'è un alter ego, un personaggio che non è altro che la sua riproposizione. Efficace, per giunta, nonostante la difficoltà oggettiva di riprodurre, senza scimmiottare, uno dei caratteri più originali del cinema contemporaneo.

La New York che è al centro della storia è quella più vitale e radical chic, quella del Village, degli intellettuali liberal della Grande Mela. E ogni spunto è buono per prendere di mira tutte le ipocrisie dell'american way of life, gli steccati asfittici che reprimono le differenze, le diversità, le voci fuori dal coro. La famigliola bigotta e timorata di Dio che dal Mississippi sbarca a New York e sconvolge la vita del protagonista Boris (un ottimo Larry David), è il catalizzatore di tutte le traversie, i cambiamenti radicali, la perdita dell'innocenza e l'educazione sentimentale (forse sarebbe meglio dire sessuale) di un mondo tradizionale che in fondo innocente non è, che non ha “visione globale”, che è esponente di punta di un paese che all'esterno ha tutt'altra immagine, che è esportatore di cultura (alta o bassa, dipende dai punti di vista) e si fa paladino di diritti e libertà. Ed ecco la madre irreprensibile coinvolta in un bollente ménage à trois, o il padre membro della National Rifle Association che si scopre gay.

Woody Allen mette il proverbiale dito nella piaga, sottolineando le ristrettezze mentali non solo dell'America, ma dell'intera cultura occidentale. Le battute da riportare sarebbero troppe e tutte gustosissime. È esilarante, ad esempio, il dubbio che a un certo punto sorge al protagonista riflettendo sui perché della xenofobia degli americani: «Ce l'avevano con i neri per il pene grande. Ma perché ce l'hanno anche con gli ebrei che hanno notoriamente un pene minuscolo?». E poi un fiume in piena contro ogni forma di fondamentalismo religioso, spesso maschera di ipocrite pulsioni non espresse.

È un Allen in forma, forse addirittura più pessimista del solito. Il regista-clarinettista ci ha ormai abituati a visioni catastrofiche della vita, ad attacchi di panico continui e a sconfortanti momenti di ipocondria. Stavolta supera se stesso («Mi sono svegliato pensando di avere l'Aids. Ma ero soltanto al buio!» o ancora: «Ho scambiato una puntura di zanzara per un melanoma») e il risultato è degno di nota. L'happy ending, seppur dopo travagliate circostanze, forse serve proprio a smorzare i toni apocalittici, la sfiducia nei confronti dell'essere umano che ha contraddistinto l'Allen degli esordi. E la sceneggiatura di Basta che funzioni, infatti, è datata anni Settanta, quando Woody dipingeva con schizoide sarcasmo una New York perennemente sull'orlo di una crisi di nervi.

A parte la qualità artistica del film, quello che maggiormente colpisce è la descrizione di un'America per niente migliore rispetto al passato, nemmeno adesso che c'è Obama, la presunta panacea di tutti i mali: «Adesso abbiamo un presidente di colore ma un secolo dopo la fine della schiavitù in neri non potevano nemmeno giocare a baseball da professionisti». E allora viene da chiedersi se sia Allen ad essere troppo pessimista o se l'America, in fondo, è sempre uguale a se stessa. E non è detto che sia un male. Perché, seppur con tutte le sue schizofreniche contraddizioni, quel mondo complesso e plurare al di là dell'Atlantico è comunque l'elemento stabilizzatore della società  in cui viviamo. Forse senza il consumismo a stelle e strisce, la beat generation, gli hamburger unti e maleodoranti, Topolino o Andy Warhol, noi non saremmo quello che siamo. E nonostante le rogne che dobbiamo affrontare, persino noi che ci consideriamo “sviluppati”, siamo sicuri che ci sia andata poi così male?

mercoledì 21 ottobre 2009

Mesina sull'Isola? Nessuna meraviglia, purtroppo

Ffwebmagazine
21 ottobre 2009

Forse la Sardegna degli pseudo vip del Billionaire era stata saccheggiata fino all'ultima goccia di notorietà, e allora non restava che attingere anche al resto dell'isola, a cominciare dall'impervia e banditesca Barbagia. Potrebbe essere una spiegazione all'incomprensibile scelta di Graziano Mesina come prossimo “naufrago” sull'Isola dei Famosi. Altrimenti non si riesce a motivare, volendo essere razionali, una idiozia del genere.

Ha ragione, è persino superfluo dirlo, chi dice che Graziano Mesina, la primula rossa del Supramonte, ha pagato il suo debito con la giustizia ed è un cittadino come tutti gli altri. Primo fra tutti, il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, sardo come Mesina e che si è appellato al diritto di andare in tv così come “le sgallettate”. Due torti non fanno una ragione. E comunque le “sgallettate”, quantomeno, non hanno trascorso quarant'anni in gattabuia per reati terribili. Le difese nei confronti di Grazianeddu, dunque, non dimostrano affatto che “arruolare” un ex bandito, condannato per tentato omicidio e sequestro di persona, autore di numerose e rocambolesche evasioni, non sia una colossale fesseria.

Cosa c'entra Mesina con l'Isola? Cosa c'entra con un reality show, pur se non certo di altissimo livello culturale? Con che coraggio la televisione pubblica ingaggia un bandito con i soldi dei cittadini? In una televisione normale di un paese normale nulla, è lapalissiano. Ma le stesse domande, poste in Italia e riguardanti la televisione del nostro paese, potrebbero ricevere risposte sconsolanti. Da qualche anno la nostra tv si è imbarbarita più del consueto e dell'accettabile, in nome della ricerca spasmodica di un'audience di bassissimo livello, che se ne infischia del pur abusato concetto del “ruolo pedagogico della televisione”. E i reality, che all'inizio di questo secolo avevano rappresentato una indubbia rivoluzione televisiva e sociologica (il primo Grande Fratello rimarrà per sempre uno spartiacque incontestabile), sono stati la prima linea dell'invasione barbarica del vuoto culturale televisivo.

È la stessa tv, per intenderci, che domenica scorsa ha offerto un penoso spettacolo a Domenica 5, durante la quale si è scatenata una volgarissima rissa verbale tra Alessandro Cecchi Paone e il cattolico “tradizionale” (un musulmano “tradizionale” è definito integralista) Maurizio Ruggero, provocata da un infuocato dibattito sull'omofobia. E la storia del trash televisivo è così ricca di aneddoti che non basterebbe questo articolo per ricordarli tutti.

Ciò premesso, dunque, quasi non stupisce l'assurdità di Mesina all'Isola. In fondo è la continuazione di un altro deleterio filone televisivo molto in voga in questo momento. È l'infotaiment, il connubio mortifero tra informazione e intrattenimento, gossip e cronaca nera insieme. Lo ha denunciato giusto due giorni fa Aldo Grasso sulle colonne del Corriere della Sera, prima che esplodesse la bomba Mesina.

Probabilmente l'affaire si sgonfierà, qualche dirigente Rai o Magnolia (la società che produce il reality) o Simona Ventura stessa (vestale dell'Italia stracafonal) diranno che no, loro il bandito sardo non l'hanno mai voluto. Se così sarà, ci rimarrà il dubbio che le prese di distanza siano state dettate solo dalle reazioni veementi e indignate, per una volta a buon diritto, di alcuni politici. Perché, in fondo, che l'Italia televisiva sia ormai senza vergogna è un dato di fatto tristemente acquisito. Totò Riina, Wanna Marchi e Renato Vallanzasca sono allertati: la prossima edizione dell'Isola dei Famosi si potrebbe svolgere all'Asinara...

sabato 17 ottobre 2009

Un teatro innovativo dove il futuro si fa spettacolo

 Ffwebmagazine
18 ottobre 2009 
Chiedete a un ventenne di accompagnarvi a teatro a vedere uno spettacolo di mimi, saltimbanchi, giocolieri e ballerini. Probabilmente vi riderà in faccia. Questo perché non sa che lo spettacolo in questione è I live you e mimi, saltimbanchi, giocolieri e ballerini sembrano usciti dal futuro, non dal passato.

È questa la prima sensazione che pervade lo spettatore: un flusso coloratissimo e vorticoso di futuro e futuribile, di sperimentazioni visive, di sapiente miscela tra talenti antichi e tecnologie ultramoderne. Quello che gli stessi autori hanno chiamato «uno show tecnologico vissuto attraverso esibizioni fortemente innovative» ha riscosso un grande successo al Teatro Olimpico di Roma. Michael Menes, i Coloro e i ballerini di Modulo Project hanno dato vita, guidati dalla giovane e onirica regia di Romano Marini Dettina a uno degli eventi teatrali più interessanti degli ultimi tempi. Troppo spesso ci si lamenta del fatto che il teatro italiano è troppo incartapecorito, che il nostro non è un paese per sperimentatori e innovatori. Ipotesi non del tutto peregrina, per intenderci, se è vero come è vero che sui palcoscenici di tutta Italia le piéces sono sempre le stesse, e al massimo arriva qualche trasposizione in italiano dell’ultimo musical à la page di Broadway o West End. I live you, invece, rompe gli schemi del teatro tradizionale, propone un progetto per il futuro, miscela con la pazienza e la perizia di un alchimista elementi apparentemente distanti anni luce.

È così che i giocolieri svizzeri Coloro giocano con la luce, con effetti visivi all’avanguardia, con quelli che potremmo definire avatar teatrali e interagiscono con loro. La grande tela bianca si riempie di spunti artistici e culturali (l’influenza di Magritte è evidente e regala un tocco di classe al tutto) e le luci irrompono sul corpo dei protagonisti per creare un tutt’uno magico tra reale e virtuale. Gli artisti si sdoppiano, interagiscono con i loro alter ego virtuali, si trasformano in un’opera d’arte in divenire, che prende corpo sotto gli occhi esterrefatti e increduli del pubblico in sala. È arte allo stato puro, avanguardia di un teatro che verrà, che non può non venire, che è figlio delle nuove tecnologie e di un nuovo modo di intendere il palcoscenico. Anche il mimo Michael Menes, lungi dallo scimmiottare i grandi maestri del genere come Marcel Marceau, riempie il palco di buffi spruzzi di colore, di mosse mai banali né noiose, di giochi divertenti che conquistano lo sguardo. Persino il corpo di ballo dei Modulo Project diventa altro dalla danza che siamo abituati a vedere. È un hip hop che si fa sperimentazione, che crea movimenti genuini e maledettamente giovanili. Sul palco sembra di veder muoversi un’intera generazione di teenager, con movimenti così riconoscibili che non sembrano frutto di coreografie studiate a tavolino.

E poi, come se il talento umano che per quasi due ore riempie la scena non bastasse, ecco arrivare la voce fuoricampo, quasi metallica, proveniente da un futuro che si fa presente. Spiega il concept dello spettacolo, parla di esperimento tra uomo, immagine e suono, lancia la provocazione di una nuova forma d’arte che non è più procrastinabile, nonostante le strenue resistenze dell’ancien regime del teatro e della cultura. Ne viene fuori qualcosa che possiamo definire “teatro iPhone”. L’opera teatrale somiglia sempre più a uno degli ultimi gioielli ultratecnologici della Apple, l’ultimo status symbol dell’Occidente. I talenti coloratissimi e interattivi degli artisti sono come le applicazioni diverse e piene di sorprese. La musica sembra venir fuori da un iPod. È teatro wifi, a banda larga, 2.0. È la prova tangibile che c’è spazio per l’innovazione, che Pirandello o Eduardo vanno bene, per carità, ma bisogna guardare avanti, bisogna essere avanguardia di un ineluttabile domani.

La leggerezza cromatica dello spettacolo non traggano in inganno: non è per nulla qualcosa di rassicurante o conservatore. È una rupture fragorosa che cancella con un solo colpo i retaggi di un’arte teatrale che con i giovani d’oggi non ha nulla a che fare. E la solita voce fuoricampo, alla fine dello spettacolo, lo dice chiaramente: l’esperimento è finito, è nato l’uomo nuovo, l’uomo del futuro, che «si fonde con l’immagine e il suono dando vita a un quarto elemento: la fantasia». Nonostante le grandissime differenze storiche, culturali e concettuali, il primo pensiero corre al Futurismo e alla sua funzione socioculturale di spartiacque. Certo, nel soporifero e omologato mondo di oggi le avanguardie fanno più fatica a emergere, ma la strada tracciata è quella giusta. I live you può rappresentare per il nostro paese una prima linea di rinnovamento. Sicuramente allo stadio embrionale e migliorabile, ma già piena di spunti positivi e sorprendenti. A partire dai talenti della più classica tradizione italiana si può modellare quello che verrà. Anche perché il treno del futuro passa a velocità forsennata e in Italia, forse, lo stiamo perdendo irreparabilmente.

giovedì 1 ottobre 2009

Non solo "poveri ma allegri": il Brasile tra sviluppo e favelas

Ffwebmagazine
ottobre 2009

Con Russia, India e Cina compone il Bric, il gruppo a quattro delle potenze economiche emergenti; sta lottando per ottenere un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu che verrà; ospiterà i Mondiali di calcio del 2014 e i Giochi olimpici del 2016: nessuno, fino a pochi anni fa, avrebbe pensato che stiamo parlando del Brasile. Il più vasto Stato dell’America meridionale non è più soltanto il paese della samba, del Carnevale, delle favelas, dei poveri ma allegri. È in corso un profondo cambiamento economico e sociale, con prospettive nel lungo periodo che fanno sperare un boom senza precedenti. In Sudamerica, a parte l’Argentina pre-crack, nessun paese era riuscito a sfruttare appieno le sue potenzialità, uscendo dalla proverbiale instabilità politica e istituzionale che ha fatto dell’altra metà d’America uno dei posti al mondo con la più alta concentrazione di colpi di Stato, guerriglie e dittature di vario colore.

Il Brasile sta riuscendo a invertire la rotta e il merito, ammettiamolo pure, è anche e soprattutto del presidente Lula. Quando l’ex sindacalista di sinistra venne eletto, due diverse curve da stadio fecero sentire la loro: da un lato i fan dell’ultrasinistra e dell’America latina rossa, che inneggiavano al presidente compagno, pronto a percorrere sentieri radicali e anticapitalisti; dall’altro quelli che temevano una dittatura socialista, un regime da guerriglia pronto a espropri e nazionalizzazioni selvagge. Niente di tutto questo, per fortuna. Luiz Inácio da Silva detto Lula ha dimostrato buonsenso e una buona dose di realismo politico. E i risultati si vedono, a distanza di poco meno di sette anni dall’insediamento del presidente.

Proprio in questi giorni cade il centottantasettesimo anniversario dell’indipendenza del Brasile dal Portogallo e la recentissima assegnazione delle Olimpiadi del 2016 a Rio de Janeiro è il regalo migliore per festeggiare la ricorrenza. La vittoria contro la Chicago di Obama, la supertecnologica Tokyo e la vivace e giovane Madrid è un innegabile segno dei tempi. C’è un mondo dalle mille potenzialità, nascosto fino a oggi tra le pieghe della storia, che ha voglia di riemergere, di far fruttare i propri talenti. Rio de Janeiro è da sempre meta di vacanze all’insegna del divertimento e della trasgressione. L’intero Brasile, in realtà, è stato usato da milioni di turisti occidentali come valvola di sfogo, come luogo adatto a scaricare tensioni, repressioni e tabù di una vita. E allora, in barba al rispetto per donne e, purtroppo, ragazzini, il turismo sessuale verdeoro è uno dei più floridi (insieme a quello thailandese). L’etichetta di popolo povero ma allegro ha fatto dei brasiliani i giullari del mondo, come se fossero lì solo per quello, per farci divertire senza limiti di decenza e di legge.

E invece bisognerebbe ricordare che il Brasile è un paese dalla storia ricca di fenomeni e personaggi meravigliosi, è il terreno di coltura nel quale sono fioriti movimenti culturali e musicali di altissimo livello, è la patria della saudade che, lungi dall’essere una banale e non meglio precisata “nostalgia”, è lo struggente sentimento di triste inquietudine di un popolo che ha sofferto e continua a soffrire per colpe non sue. È comprensibile, dunque, il senso di orgoglio che ha pervaso, dopo la scelta del Cio, la spiaggia di Copacabana, i vicoli colorati di Salvador de Bahia, i villaggi amazzonici. È il riscatto (almeno simbolico) di una nazione grande ventotto volte l’Italia che si è stufata di far da Cenerentola e di “sala giochi” per adulti.

Non bisogna dimenticare, tuttavia, che i problemi sociali ed economici del paese carioca sono ancora lì, urgenti e drammatici come sempre. Le favelas sono ancora colme all’inverosimile di gente che vive nel degrado e nell’illegalità; la prostituzione minorile (maschile e femminile) è diffusissima e trova un bacino d’utenza vergognoso nei turisti occidentali; le disuguaglianze sociali persistono; le forze di polizia hanno dimostrato più volte la loro troppo facile corruttibilità.  Però qualcosa è cambiato davvero negli ultimi anni.

E se oggi parliamo del Brasile come di una potenza economica in divenire che va tenuta in considerazione anche nei consessi internazionale, qualcosa vorrà pur dire. Il presidente Lula, nonostante abbia deluso gli oltranzisti di sinistra, ha dimostrato una capacità politica senza precedenti a quelle latitudini. Il ruolo di guida del subcontinente latinoamericano, per molto tempo appannaggio di Buenos Aires, è ormai saldamente nelle mani di Brasilia. L’allegro e straccione danzatore di samba si è cambiato d’abito. Continua a dimenarsi tra le vie di Rio ma con una consapevolezza nuova; la consapevolezza di chi sa che, come recitava lo slogan di Rio 2016) é a vez do Brasil (è il turno del Brasile).