Ffwebmagazine
23 ottobre 2009
Woody Allen torna a New York (dopo le parentesi europee di Londra e Barcellona) e colpisce ancora. Basta che funzioni, l'ultima sua fatica cinematografica, è un concentrato di tutte le geniali nevrosi e i tic al limite del fastidioso che il cineasta americano ci ha regalato negli ultimi quarant'anni. E pensare che sullo schermo Allen non compare proprio. C'è un alter ego, un personaggio che non è altro che la sua riproposizione. Efficace, per giunta, nonostante la difficoltà oggettiva di riprodurre, senza scimmiottare, uno dei caratteri più originali del cinema contemporaneo.
La New York che è al centro della storia è quella più vitale e radical chic, quella del Village, degli intellettuali liberal della Grande Mela. E ogni spunto è buono per prendere di mira tutte le ipocrisie dell'american way of life, gli steccati asfittici che reprimono le differenze, le diversità, le voci fuori dal coro. La famigliola bigotta e timorata di Dio che dal Mississippi sbarca a New York e sconvolge la vita del protagonista Boris (un ottimo Larry David), è il catalizzatore di tutte le traversie, i cambiamenti radicali, la perdita dell'innocenza e l'educazione sentimentale (forse sarebbe meglio dire sessuale) di un mondo tradizionale che in fondo innocente non è, che non ha “visione globale”, che è esponente di punta di un paese che all'esterno ha tutt'altra immagine, che è esportatore di cultura (alta o bassa, dipende dai punti di vista) e si fa paladino di diritti e libertà. Ed ecco la madre irreprensibile coinvolta in un bollente ménage à trois, o il padre membro della National Rifle Association che si scopre gay.
Woody Allen mette il proverbiale dito nella piaga, sottolineando le ristrettezze mentali non solo dell'America, ma dell'intera cultura occidentale. Le battute da riportare sarebbero troppe e tutte gustosissime. È esilarante, ad esempio, il dubbio che a un certo punto sorge al protagonista riflettendo sui perché della xenofobia degli americani: «Ce l'avevano con i neri per il pene grande. Ma perché ce l'hanno anche con gli ebrei che hanno notoriamente un pene minuscolo?». E poi un fiume in piena contro ogni forma di fondamentalismo religioso, spesso maschera di ipocrite pulsioni non espresse.
È un Allen in forma, forse addirittura più pessimista del solito. Il regista-clarinettista ci ha ormai abituati a visioni catastrofiche della vita, ad attacchi di panico continui e a sconfortanti momenti di ipocondria. Stavolta supera se stesso («Mi sono svegliato pensando di avere l'Aids. Ma ero soltanto al buio!» o ancora: «Ho scambiato una puntura di zanzara per un melanoma») e il risultato è degno di nota. L'happy ending, seppur dopo travagliate circostanze, forse serve proprio a smorzare i toni apocalittici, la sfiducia nei confronti dell'essere umano che ha contraddistinto l'Allen degli esordi. E la sceneggiatura di Basta che funzioni, infatti, è datata anni Settanta, quando Woody dipingeva con schizoide sarcasmo una New York perennemente sull'orlo di una crisi di nervi.
A parte la qualità artistica del film, quello che maggiormente colpisce è la descrizione di un'America per niente migliore rispetto al passato, nemmeno adesso che c'è Obama, la presunta panacea di tutti i mali: «Adesso abbiamo un presidente di colore ma un secolo dopo la fine della schiavitù in neri non potevano nemmeno giocare a baseball da professionisti». E allora viene da chiedersi se sia Allen ad essere troppo pessimista o se l'America, in fondo, è sempre uguale a se stessa. E non è detto che sia un male. Perché, seppur con tutte le sue schizofreniche contraddizioni, quel mondo complesso e plurare al di là dell'Atlantico è comunque l'elemento stabilizzatore della società in cui viviamo. Forse senza il consumismo a stelle e strisce, la beat generation, gli hamburger unti e maleodoranti, Topolino o Andy Warhol, noi non saremmo quello che siamo. E nonostante le rogne che dobbiamo affrontare, persino noi che ci consideriamo “sviluppati”, siamo sicuri che ci sia andata poi così male?
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