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24 ottobre 2009 Nessun italiano che si rispetti, retorica nazionalista di qualsiasi colore a parte, può evitare di emozionarsi visitando il Museo nazionale dell’Emigrazione italiana, inaugurato ieri al Vittoriano, alla presenza del presidente Napolitano, del ministro Bondi e del presidente della Camera Fini. Nelle curatissime sale espositive c’è davvero di tutto, in un percorso multimediale che immerge il visitatore nelle struggenti, ma speranzose atmosfere dell’emigrazione nostrana nel corso degli ultimi due secoli: lettere, telegrammi, cartoline, oggetti personali, pagine di giornali dell’epoca, video, audio, persino canzoni dedicate agli emigranti. Lo spazio museale, fortemente voluto dal sottosegretario agli Affari esteri Alfredo Mantica, rende finalmente omaggio a un fenomeno cruciale per la storia dell’Italia post-unitaria, che ha segnato intere generazioni e ha marchiato a fuoco le carni di un intero popolo. Non c’è facile retorica tra le splendide sale del complesso del Vittoriano; non c’è nostalgia fine a se stessa del tempo che fu; né esaltazione aprioristica di quel momento storico. C’è semplicemente il dovuto omaggio a chi, citando le parole del sottosegretario Mantica, «è partito con un sogno; non tutti hanno potuto realizzarlo ma ognuno ha, comunque, una storia da raccontare».
Ce ne sono davvero tante di storie da rivivere. Dalle più note, come l’affondamento dell’Andrea Doria al largo di Boston o il vergognoso caso di Sacco e Vanzetti, alle meno conosciute, quelle personali, le più numerose, che riguardano un’intera schiera di emigranti senza nome che con la valigia piena di sogni e il cuore ancorato all’Italia, si è diffusa a macchia d’olio in ogni angolo del pianeta. Particolarmente toccante, ad esempio, una lettera di un emigrante italiano in Svizzera indirizzata alla madre: poche righe, tantissima dignità, e la felicità di aver iniziato un nuovo lavoro come “assistente manovale”. E alla fine la promessa più toccante: i primi risparmi saranno per lei, per la madre lontana. Italiani brava gente, potremmo dire utilizzando un vecchio cliché. E in molti casi non ci sbaglieremmo di certo. Ma i cliché sui nostri connazionali in giro per il mondo, si sa, sono spesso negativi. E allora ecco una carrellata vergognosa e drammatica di “ronde contro gli italiani” in svariati paesi del mondo, a cominciare dalla “civilissima” Svizzera. A Zurigo, all’inizio del Novecento, la caccia all’italiano sembrava lo “sport” preferito, segno di una xenofobia senza uguali, piena zeppa di preconcetti molto spesso privi di fondamento. O ancora un cartello appeso alla porta di un negozio tedesco che recitava lapidariamente “Vietato l’ingresso agli italiani”. Storie dure, di umiliazioni e fatiche immani. Ma anche di grandi drammi, come la tragedia della miniera belga di Marcinelle, ormai riconosciuto come l’evento simbolo della nostra secolare vicenda di emigrazione.
Non mancano, e ci mancherebbe altro, gli esempi positivi, le storie di successi e realizzazioni di sogni. Le scuole italiane all’estero, le aziende, i contributi determinanti dei nostri connazionali nello sviluppo economico e culturale di molti paesi (soprattutto in Sud America). L’emigrazione italiana, come ogni altro fenomeno sociale, è piena di sfaccettature, di chiaroscuri, di trionfi e fallimenti, di cervelli in fuga, di bocche da sfamare e di braccia mai stanche. E pensare che fino a ieri, nonostante la presenza di numerosi musei locali dell’emigrazione sparsi in tutta Italia, non c’era ancora un punto di riferimento nazionale nella Capitale. L’impegno del sottosegretario Mantica è stato davvero encomiabile. Prova ne siano, e in Italia è una notizia, i tempi brevi di realizzazione: solo un anno è trascorso, infatti, da quando l’idea è stata ripresa e rimessa in moto da zero. Tempi da record per un’iniziativa pubblica. E anche i soldi spesi sono stati pochi e utilizzati con splendida efficacia: circa un milione di euro.
Ma questo museo era un atto dovuto ai milioni di persone che sono andati via alla ricerca di un futuro migliore, portando nel cuore l’Italia e diffondendo ovunque i nostri valori (a volte anche quelli per nulla positivi, ammettiamolo senza problemi). Quando si affrontano certi argomenti il rischio della retorica è sempre in agguato. A volte, però, crediamo che valga la pena correre il rischio e ricordarsi che quello che siamo oggi è il frutto di quello che abbiamo fatto ieri. E dovrebbero ricordarselo anche quelli che oggi si rivoltano sguaiatamente contro gli immigrati che vengono in Italia con lo stesso sogno dei nostri connazionali di allora. Non a caso, infatti, il percorso espositivo del Museo nazionale dell’Emigrazione italiana si chiude con un enorme collage di foto appese al muro. Sono le foto di decine di immigrati, tutti ritratti mentre lavorano. Sono il frutto, tangibile e innegabile, di un capovolgimento della storia che non possiamo e non vogliamo evitare, di un contrappasso che in fondo non è affatto negativo. In giro per il mondo con le valigie di cartone ci siamo andati noi per primi, per secoli. Non dimentichiamolo mai.
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