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sabato 17 ottobre 2009

Un teatro innovativo dove il futuro si fa spettacolo

 Ffwebmagazine
18 ottobre 2009 
Chiedete a un ventenne di accompagnarvi a teatro a vedere uno spettacolo di mimi, saltimbanchi, giocolieri e ballerini. Probabilmente vi riderà in faccia. Questo perché non sa che lo spettacolo in questione è I live you e mimi, saltimbanchi, giocolieri e ballerini sembrano usciti dal futuro, non dal passato.

È questa la prima sensazione che pervade lo spettatore: un flusso coloratissimo e vorticoso di futuro e futuribile, di sperimentazioni visive, di sapiente miscela tra talenti antichi e tecnologie ultramoderne. Quello che gli stessi autori hanno chiamato «uno show tecnologico vissuto attraverso esibizioni fortemente innovative» ha riscosso un grande successo al Teatro Olimpico di Roma. Michael Menes, i Coloro e i ballerini di Modulo Project hanno dato vita, guidati dalla giovane e onirica regia di Romano Marini Dettina a uno degli eventi teatrali più interessanti degli ultimi tempi. Troppo spesso ci si lamenta del fatto che il teatro italiano è troppo incartapecorito, che il nostro non è un paese per sperimentatori e innovatori. Ipotesi non del tutto peregrina, per intenderci, se è vero come è vero che sui palcoscenici di tutta Italia le piéces sono sempre le stesse, e al massimo arriva qualche trasposizione in italiano dell’ultimo musical à la page di Broadway o West End. I live you, invece, rompe gli schemi del teatro tradizionale, propone un progetto per il futuro, miscela con la pazienza e la perizia di un alchimista elementi apparentemente distanti anni luce.

È così che i giocolieri svizzeri Coloro giocano con la luce, con effetti visivi all’avanguardia, con quelli che potremmo definire avatar teatrali e interagiscono con loro. La grande tela bianca si riempie di spunti artistici e culturali (l’influenza di Magritte è evidente e regala un tocco di classe al tutto) e le luci irrompono sul corpo dei protagonisti per creare un tutt’uno magico tra reale e virtuale. Gli artisti si sdoppiano, interagiscono con i loro alter ego virtuali, si trasformano in un’opera d’arte in divenire, che prende corpo sotto gli occhi esterrefatti e increduli del pubblico in sala. È arte allo stato puro, avanguardia di un teatro che verrà, che non può non venire, che è figlio delle nuove tecnologie e di un nuovo modo di intendere il palcoscenico. Anche il mimo Michael Menes, lungi dallo scimmiottare i grandi maestri del genere come Marcel Marceau, riempie il palco di buffi spruzzi di colore, di mosse mai banali né noiose, di giochi divertenti che conquistano lo sguardo. Persino il corpo di ballo dei Modulo Project diventa altro dalla danza che siamo abituati a vedere. È un hip hop che si fa sperimentazione, che crea movimenti genuini e maledettamente giovanili. Sul palco sembra di veder muoversi un’intera generazione di teenager, con movimenti così riconoscibili che non sembrano frutto di coreografie studiate a tavolino.

E poi, come se il talento umano che per quasi due ore riempie la scena non bastasse, ecco arrivare la voce fuoricampo, quasi metallica, proveniente da un futuro che si fa presente. Spiega il concept dello spettacolo, parla di esperimento tra uomo, immagine e suono, lancia la provocazione di una nuova forma d’arte che non è più procrastinabile, nonostante le strenue resistenze dell’ancien regime del teatro e della cultura. Ne viene fuori qualcosa che possiamo definire “teatro iPhone”. L’opera teatrale somiglia sempre più a uno degli ultimi gioielli ultratecnologici della Apple, l’ultimo status symbol dell’Occidente. I talenti coloratissimi e interattivi degli artisti sono come le applicazioni diverse e piene di sorprese. La musica sembra venir fuori da un iPod. È teatro wifi, a banda larga, 2.0. È la prova tangibile che c’è spazio per l’innovazione, che Pirandello o Eduardo vanno bene, per carità, ma bisogna guardare avanti, bisogna essere avanguardia di un ineluttabile domani.

La leggerezza cromatica dello spettacolo non traggano in inganno: non è per nulla qualcosa di rassicurante o conservatore. È una rupture fragorosa che cancella con un solo colpo i retaggi di un’arte teatrale che con i giovani d’oggi non ha nulla a che fare. E la solita voce fuoricampo, alla fine dello spettacolo, lo dice chiaramente: l’esperimento è finito, è nato l’uomo nuovo, l’uomo del futuro, che «si fonde con l’immagine e il suono dando vita a un quarto elemento: la fantasia». Nonostante le grandissime differenze storiche, culturali e concettuali, il primo pensiero corre al Futurismo e alla sua funzione socioculturale di spartiacque. Certo, nel soporifero e omologato mondo di oggi le avanguardie fanno più fatica a emergere, ma la strada tracciata è quella giusta. I live you può rappresentare per il nostro paese una prima linea di rinnovamento. Sicuramente allo stadio embrionale e migliorabile, ma già piena di spunti positivi e sorprendenti. A partire dai talenti della più classica tradizione italiana si può modellare quello che verrà. Anche perché il treno del futuro passa a velocità forsennata e in Italia, forse, lo stiamo perdendo irreparabilmente.

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