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venerdì 29 gennaio 2010

Ma quant'è brutto Nine, ridicolo omaggio all'Italia dei cliché

Ffwebmagazine Uno va al cinema, sperando di vedere il giusto tributo al regista più grande del cinema italiano, a quel Federico Fellini che ha portato sul grande schermo i sogni (spesso proibiti) di milioni di suoi connazionali. Uno va al cinema convinto che un regista come Rob Marshall, che di musical se ne intende (pochi anni fa Chicago sbancò gli Oscar), era forse la persona adatta a dirigere un remake musicale addirittura di Otto e mezzo, mica un film così, ma uno di quelli che in qualsiasi classifica delle migliori pellicole della storia del cinema mondiale sta sempre tra i primi dieci.
29 gennaio 2010


Paghi i tuoi sette euro e mezzo di biglietto, compri il pop corn, ti siedi comodamente sulla poltrona di un noto cinema romano, e inizi a pregustare la goduria di quello che vedrai. Sopporti anche lo spottone della Regione Lazio, furbescamente mandato in onda prima dei trailer in vista delle prossime elezioni di marzo. Poi inizia il film: poche scene e capisci tutto. Nine, uno dei film più attesi della stagione, è una cagata pazzesca. Perdonateci il francesismo, ma vedere un grande attore come Daniel Day Lewis che si sforza goffamente di apparire fisicamente e mimicamente italiano è qualcosa che può far esplodere all’istante il fegato di un qualsiasi cinefilo. Respiri, attendi, pensi che migliorerà con il passare del tempo. Poi vedi il primo spider bianco, la riproposizione dei cliché dell’italiano anni Sessanta tutto approssimazione e ormoni ululanti. Vedi Penelope Cruz che riesce nell’incredibile impresa di recitare peggio di Sandra Milo. Almeno Sandrocchia svampita lo era davvero, non doveva fingere più di tanto.

Ma il colpo finale te lo dà Sophia Loren, l’icona vivente del cinema tricolore nel mondo che non avremmo mai voluto sprecare in un film così. Il suo non è un ruolo cinematografico. È l’apparizione di una madonna napoletana supertruccata che canticchia tra decine e decine di candele accese, una parodia eccessiva del fantasma della madre di Guido Contini, il protagonista del film. E poi il film non va, non scorre, non c’è il link tra le parti recitate e quelle cantate (troppo poche). A questo punto speri davvero che il tempo corra via veloce perché per te Federico Fellini è davvero il tempio della fantasia italica e nessuno, nemmeno un regista di Hollywood e un cast stellare, può profanarlo così.
Quando il peggio credi sia passato, poi, ci pensa la sexy Fergie (cantante degli arcinoti Black Eyed Peas) a provocare in te l’ultimo tipo di reazione (dopo lo sconforto e l’indignazione precedenti): una colossale e meritatissima incazzatura. La bella cantante americana, nella parte di una procace e selvaggia prostituta, ci elenca, in musica, le caratteristiche migliori della gente italica, quelli che nelle intenzioni del regista dovrebbero essere da noi considerati complimenti sinceri, attestati di stima alle naturali attitudini di un popolo. “Sii italiano”, dice la prostituta a un Contini in crisi sentimentale e creativa, “prova a rubare un bacio”. “Sii un cantante, sii un amante, sii gentile e sentimentale, dammi un buffetto sulla guancia, pizzicami dove c’è la ciccia”.
È il maschio italiano anni Sessanta riproposto come paradigma ancora valido di virilità e savoir faire con le donne, magari impegnato a cantare una sempreverde melodia napoletana. Peccato che il vitellone felliniano oggi non abbia più senso e al massimo può essere incarnato da tipi impresentabili come Costantino Vitagliano (ex tronista di Uomini e donne) o George Leonard (concorrente dell’ultimo Grande Fratello). E fortunatamente le donne di casa nostra sono cambiate. E molto. Non basta più l’aria da “uomo che non deve chiedere mai” per farle cedere. Uomini e donne sono sullo stesso piano e quasi sempre sono queste ultime a scegliere a chi concedersi. Non il contrario. Non più.

E la frase finale della canzone?  “Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo”. Sembra innocua e anche un po’ banale come affermazione, almeno all’apparenza. Invece incarna perfettamente il più grande vizio italiano: la malattia del presentismo. Conta solo oggi, al massimo ieri in chiave nostalgica. Non c’è visione, non c’è sguardo rivolto al domani. Non c’è immaginazione né voglia di costruire il futuro.  In questa frase non c’è, dunque, proprio quello che di migliore Federico Fellini ha regalato al cinema mondiale: il sogno, l’anelito onirico che univa miracolosamente il passato e il futuro. Il presente, nei film del regista riminese, era solo una parentesi, un momento di passaggio tra quello che siamo stati e quello che saremo.
Cari amici americani, è meglio che ve lo mettiate definitivamente in testa: gli italiani, o almeno la maggior parte di essi, non sono più quelli del boom, della Dolce Vita, dei paparazzi di via Veneto. Lo so, forse è la nostra televisione (o peggio la nostra politica) a fuorviarvi. Ma noi del presentismo esasperato e infruttuoso facciamo volentieri a meno. Lo sguardo degli italiani, soprattutto delle nuove generazioni, è saldamente proiettato nel futuro. Un futuro ancora tutto da immaginare e costruire, ma proprio per questo più eccitante ed esaltante che mai.

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