Pagine

domenica 6 giugno 2010

Quando morì Bobby, l'alfiere del sogno americano

Ffwebmagazine
6 giugno 2010
Più del fratello, scelto dal destino (e dal padre) come punta di diamante della famiglia. Più di tutto il resto dell'America liberal degli anni Sessanta. Più di tutto, più di tutti, Robert Francis Kennedy, classe 1925, cadetto della potentissima famiglia cattolica del Massachussets, ha segnato un'epoca, ha contribuito a costruire un intero immaginario culturale e politico che ha contraddistinto gli anni più tumultuosi (ed esaltanti) dell'epopea americana del XX secolo.

Quegli otto anni di differenza rispetto a JFK (il presidente ucciso a Dallas era nato nel 1917) lo costrinsero a un ruolo apparentemente di secondo piano. Doveva lavorare, questo era stato il compito affidatogli da papà Joseph, per portare il fratello maggiore alla Casa Bianca. Era l'ossesione del patriarca dei Kennedy, l'obiettivo di una vita, il fine ultimo verso il quale erano stati rivolti tutti gli sforzi della famiglia. Eppure Bobby aveva già iniziato una brillante carriera quando John era ancora senatore: negli anni Cinquanta aveva fatto parte del Subcomitato permanente del Senato per le investigazioni diretto dal senatore McCarthy e alla fine dello stesso decennio si era distinto per essersi schierato contro il discusso sindacalista Jimmy Hoffa durante i lavori della Commissione antiracket. 

Poi le dimissioni, per dedicarsi anima e corpo alla campagna presidenziale del fratello maggiore, la vittoria risicata contro Nixon e l'inizio dell'epopea kennediana. Ministro della Giustizia durante l'amministrazione di John, Robert Kennedy era considerato da molti la vera anima del governo democratico, il deus ex machina di un'operazione che era culturale e di immagine, oltre che politica. 

Gli anni di Kennedy alla Casa Bianca, lungi dall'essere quel perfetto quadretto iconico che è stato dipinto da una certa stampa agiografa, rappresentarono comunque uno spartiacque decisivo nel modo di intendere la vita e la politica al di là dell'Atlantico. E i frutti si videro dopo quel 23 novembre 1963, dopo l'uccisione a Dallas del presidente americano. Paradossalmente, una immensa tragedia familiare aveva permesso la liberazione di Robert dal ruolo di secondo piano al quale era stato relegato dagli eventi. Ora era libero di lasciare il governo (aveva accettato di diventare ministro solo perché doveva), di non nascondere l'avversione verso il neopresidente Johnson, di impegnarsi in battaglie che già dalla Casa Bianca aveva abbozzato. 

A cominciare da quella dei diritti civili, che era stata uno dei leitmotiv della campagna presidenziale kennediana e che tuttavia non era ancora stata portata a termine. I rapporti strettissimi con il reverendo Marthin Luther King sono la prova di un chiodo fisso coraggioso e, per i tempi, rivoluzionario. Il cattolico, bianco, ricchissimo e privilegiato Robert Kennedy si schierava apertamente con i milioni di neri che in quegli anni sfidavano consuetudini e razzismo, Ku Klux Klan e segregazionismo per aprire una pagina nuova nella storia americana. E fu lui, il 4 aprile del 1968, a scendere in strada e annunciare la morte del reverendo King, a invitare alla calma i neri pronti alla rivolta, in barba alla non violenza, per sfogare la frustrazione e la disperazione di una generazione che sognava di liberarsi dalle paradossali catene schiaviste del paese più democratico al mondo, a più di un secolo dalla vittoria degli antischiavisti di Abramo Lincoln. Due mesi dopo, però, Robert Kennedy doveva raggiungere il fratello John e Martin Luther King nel Pantheon degli eroi americani degli anni Sessanta.

Los Angeles, notte tra il 4 e il 5 giugno 1968. Bobby ha vinto, poche ore prima, le primarie presidenziali in California, quasi un'ipoteca sulla nomination democratica. Si festeggia all'Hotel Ambassador, si celebra l'ennesima resurrezione del sogno americano, l'incredibile affermazione di un'America rivoluzionaria per i tempi che si stavano vivendo. C'era il Vietnam, c'erano i diritti civili, c'erano i giovani delle università che protestavano e mettevano a ferro e fuoco i campus della West Coast. E Bobby era la carta, forse l'ultima, per venirne fuori, per istituzionalizzare lo scontento, per portarlo a Washington con più decisione e coerenza rispetto alla precedente esperienza di JFK. 

Ma torniamo all'Ambassador: si festeggia, dicevamo. E alla fine di una notte lunghissima ma esaltante, Bobby va via, passa per le cucine, saluta amici e cuochi, sostenitori e camerieri. Poi i colpi di pistola, sparati da Sirhan Sirhan, giordano di origine palestinese, sotto gli occhi di giornalisti e telecamere. Si ripete il frustrante dramma dell'America che sembra sempre sul punto di svoltare ma poi alla fine cede e deve ricominciare da capo. Bobby muore il giorno dopo, e con lui se ne va la possibilità di chiudere un periodo orribile della storia americana. 

Muore Kennedy, un altro Kennedy. Ma non muore l'idea di un'America più giusta e onnicomprensiva, un'America in cui davvero tutti gli uomini nascono uguali e hanno tutti il diritto a ricercare la felicità. Non muore quell'American dream che oggi, quarant'anni dopo, si è incarnato (forse un po' frettolosamente) in Barack Obama. Quell'anelito alla pax democratica che Bobby era riuscito a sintetizzare citando una calzante frase di George Bernard Shaw: «Ci sono coloro che guardano le cose come sono, e si chiedono perché..... Io sogno cose che non ci sono mai state, e mi chiedo perché no». 

mercoledì 2 giugno 2010

Sciopero degli spettatori, troppo poco per cambiare la tv

Ffwebmagazine
2 giugno 2010

La mania dei "No qualcosa Day" colpisce anche la televisione. Magie dell'era di facebook, dove un'iniziativa nasce in sordina e, se pubblicizzata bene, diventa un'onda gigantesca che si trasforma in evento. Nato come No tv day, e poi modificato in un più novecentesco e sindacale "Sciopero dei telespettatori”, ha già raccolto quasi 175mila adesioni. Numeri di un certo rilievo, bisogna ammetterlo, anche se su Facebook non è poi un boom così clamoroso. Basti pensare, giusto per fare un esempio restando nel campo televisivo, che la pagina ufficiale di Mauro Marin (l'ultimo vincitore del Grande Fratello) ha quasi 500mila fan.

Dicevamo dello sciopero dei telespettatori, dunque. Incuriositi da una mobilitazione così imponente e, a quanto risulta, spontanea, ci siamo messi in contatto con il fondatore della pagina. Ci aspettavamo una task force di arrabbiati critici e invece, sorpresa, l'idea è di un venticinquenne milanese (al quale si è poi accodata un'associazione) che, «tornando a casa dal lavoro e facendo un po' di zapping sui soliti programmi» ha immaginato la tv come «un fitto albero con diversi rami che rappresentano i canali tv e  un vasto numero di foglie che sono le trasmissioni, telegiornali e tutto quello che ci propinano ogni giorno. Vedendo questo albero all'interno di una stagione l’associazione è caduta sull’autunno, con programmi privi di una linfa di intelligenza come foglie secche». La metafora è comprensibile, anche se un po' contorta, ma il discorso si fa più interessante quando l'anonimo ribelle anticatodico (su facebook la sua pagina si chiama "Anche io ho smesso di guardare la tv") traccia un paragone tra tv e internet: «Le informazioni che la rete può dare hanno un potenziale infinito rispetto a una tv che ha un rapporto con chi la guarda di solo download. Quando noi apriamo una pagina su internet scarichiamo dei kb che ci mostrano la pagina web e quando scriviamo una parola su Google inviamo dei kb. Il rapporto è di invio e ricezione. È democratico perchè si interagisce. Con la tv, invece, il rapporto è unilaterale. Ricevo solo quello che vogliono i gestori delle tv». Già, non fa una piega. Sulla tv la pensavano così decine di massmediologi, ma la dicotomia download/upload non è niente male.

Il problema, però, è che organizzare uno sciopero del telespettare di sabato e domenica (26 e 27 giugno) ci sembra una scelta che oseremmo definire "paracula". Lo share nel week-end crolla come la temperatura arrivando sull'altopiano di Asiago, quindi non ci pare un'iniziativa coraggiosa, a esser sinceri. Se poi aggiungiamo che siamo a giugno e che sono già finiti campionato, varietà del sabato sera e contenitori domenicali, il quadro è completo. E cosa vogliono ottenere gli scioperanti della domenica? Leggendo le info su facebook si capisce poco. Ma cerchiamo di essere clementi: in fondo si tratta pur sempre di una iniziativa spontanea, dal basso, figlia dello spontaneismo (velleitario o meno, decidete voi) internettiano.

Scherzi a parte, di problemi la tv ne ha fin troppi. Lo sappiamo e lo abbiamo più volte sottolineato nei mesi scorsi. Non ci sembra che basti un'iniziativa così, però, a risolverli. Innanzitutto perché non sono efficati (vedi il flop del No Facebook day, nato e morto proprio sul social network). E poi perché i dirigenti delle nostre televisioni facebook non sanno nemmeno cos'è (purtroppo).

Dello sciopero dei telespettatori, però, salviamo la buona volontà. Almeno c'è qualche decina di migliaia di persone che vorrebbe una televisione migliore, meno superficiale e volgare. Facciamolo capire ai dirigenti televisivi. Fuori da facebook, possibilmente.  

mercoledì 26 maggio 2010

E con Monica Setta, in tv l'approfondimento è all'acqua di rose

Ffwebmagazine
26 maggio 2010
Avevamo promesso a noi stessi di non scriverne, per non sembrare i soliti critici televisivi inaciditi, che storcono il naso di fronte a ogni minima bruttura della tv, che snobbano con fare da radical chic da salotto i personaggi che vanno per la maggiore nel panorama catodico del nostro paese. Avevamo promesso, è vero. Ma non tutte le promesse si possono mantenere, soprattutto se il personaggio in questione si chiama Monica Setta. 

L'ascesa televisiva della giornalista brindisina è stata fulminea. Da una dignitosissima carriera giornalistica sulla carta stampata (Capital, Io Donna, Gente e Gente Viaggi), infatti, a un certo punto la Nostra si è dedicata anima e corpo alla tv. Prima a La7, con programmi di taglio prettamente femminile, poi il gran salto in Rai, lo spazio politico a Domenica In, fino ad arrivare alla doppietta da solista di quest'anno: Il Fatto del giorno (dal lunedì al venerdì, ore 14, Rai Due) e Peccati – I sette vizi capitali (sette seconde serate sempre su Rai Due). Il pubblico non sembra gradire granché, a esser sinceri, ma pare che i dirigenti di viale Mazzini non la pensino allo stesso modo. Si mormora, ed è più che un mormorio, che la Setta abbia santi mica da ridere nel Paradiso del centrodestra. Si spiegherebbe come mai, ad esempio, qualche mese si era fatto proprio il suo nome come anti-Santoro del Pdl a cui affidare un programma di approfondimento politico da contrapporre ad AnnoZero.

Le reazioni, anche all'interno dello stesso centrodestra, erano state a metà tra sbigottimento e ilarità. Forse Monica Setta ha pagato il maschilismo di una certa politica, ma forse no. Forse, ad esempio, i critici della giornalista hanno utilizzato come metro di giudizio Il Fatto del giorno, il programma quotidiano che riempie il palinsesto del primo pomeriggio della seconda rete. In effetti l'impostazione editoriale e stilistica della trasmissione lascia perplessi. Per una scelta che ci risulta di difficile comprensione, gli argomenti più seri dell'attualità politica, sociale ed economica vengono affrontati in studio con orde di opinionisti prezzemolini, ex soubrette in disgrazia, nani e ballerine.

Mitica una recente puntata sulla crisi economica greca (argomento mica da ridere) con Monica Setta che si rivolge alla soubrette di turno e chiede: «Tu, da madre, come pensi sul disastro economico di Atene?». Occhio vitreo dell'ospite, un momento di comprensibile terrore e poi due parole in croce biascicate con poca convinzione. Quando c'è da parlare di cose più leggere, però, ecco spuntare i politici: Daniela Santanché uber alles, visto che il sottosegretario all'Attuazione del programma di governo (prima o poi ci spiegheranno i suoi compiti?) è quasi ospite fisso e con la consueta pacatezza passa dall'immigrazione all'Isola dei famosi.

Peraltro, Monica Setta sta diventando un personaggione pop. I camionisti italiani, ad esempio, l'hanno scelta come loro icona sexy. Segno dei tempi che cambiano, visto che qualche anno fa in cabina si esponevano orgogliosamente le foto del prosperoso seno di Pamela Anderson. E non poteva mancare l'imitazione dell'ottima Gabriella Germani, che è così brava a replicare stile, voce e argomenti della giornalista che a volte non si capisce chi sta imitando chi.

Ecco, ci siamo sfogati. Abbiamo dato spago di nuovo alle nostre pulsioni snob. Abbiamo criticato un modo di concepire l'approfondimento giornalistico che è distante non solo dai nostri personali modelli, ma anche da quelli oggettivi all'insegna dell'obiettività, della serietà e della qualità. Non ce ne voglia Monica Setta, non ce ne vogliano i fan della neotelevisione all'acqua di rose. È più forte di noi. E temiamo che, nonostante le promesse ripetute, continueremo a farlo.

giovedì 20 maggio 2010

E nun ce vonno stà: la Padania e quei livori mai sopiti

Ffwebmagazine
20 maggio 2010


Per capire la portata dell'attacco scatenato dal nord, basta leggere la Padania di oggi. Richiamo bene in vista in prima, quattro pagine interne fitte di invettive e ricostruzioni complottiste e un unico leitmotiv a tenere insieme tutto: Roma ladrona. Ebbene sì, la Lega di governo si rituffa nel passato e denuncia il malaffare della godereccia capitale dell'Impero. È lo stesso Leoni, fondatore della Lega con Umberto Bossi, a guidare l'assalto padano: «Roma ladrona ci ha rubato anche le Olimpiadi. È così, questa città non si accontenta mai, vuole prendere tutto». E ancora, arrivando quasi a minacciare: «Da qui al 2020 il paese sarà profondamente cambiato. L'Italia sarà diversa col federalismo e allora magari anche la Padania avrà il suo Comitato olimpico e le sue Olimpiadi». Ecco, sarebbe il caso di spiegare al senatore Leoni che tra federalismo e secessione c'è una bella differenza. D'altronde, nemmeno regioni autonomiste molto più calde dell'inesistente Padania (dai Paesi Baschi alla Scozia, dalla Catalogna all'Irlanda del nord) hanno comitati olimpici indipendenti da quello nazionale.

Ma anche i giornalisti del quotidiano leghista non le mandano certo a dire. Alessandro Montanari, ad esempio, forse scrive pensando ad Asterix e alla sua saga, se è vero che conclude il suo articolo con un riferimento (tanto per cambiare) alle tasse: «Noi abitanti delle colonie periferiche padane siamo costretti a versare annualmente a Roma  per rientrare dai suoi, colpevoli, svolazzi». Come dire: la capitale dell'immorale Impero se la gode e a nord del Po si pensa solo a laurà per mantenere i vizi della corte dissipata. E le citazioni potrebbero essere molte di più, con una gara tra giornalisti e politici a chi la spara più grossa.

Nessuno, però, si è preoccupato di rispondere in maniera netta e definitiva a questa ridda di accuse sguaiate senza capo né coda. Eppure basterebbe davvero poco. Basterebbe dire, ad esempio, che le infrastrutture presenti a Roma danno la garanzia di avere una base sulla quale lavorare, senza costruire nuove cattedrali nel deserto che snaturerebbero l'armonia urbanistica e architettonica di una città. Basterebbe dire, ad esempio, che non si riesce proprio a immaginare un'Olimpiade a Venezia, innanzitutto perché non esiste fisicamente lo spazio per gli impianti. Oppure i Giochi olimpici di Venezia si sarebbero dovuti svolgere fuori dalla città lagunare? E che senso avrebbe avuto? Basterebbe dire, inoltre, che per Venezia le Olimpiadi sarebbero state una vera e propria iattura. Per una città così fragile, delicata, da preservare, un evento del genere avrebbe rappresentato un rischio incalcolabile per la salvaguardia dell'anima lagunare.

Basterebbe poco, insomma, per smontare le risibili accuse a sfondo politico di stampo leghista. Ma forse ha ragione chi non replica. Forse ha ragione chi preferisce lasciare i padani ai loro deliri demagogici a uso e consumo della loro “gggente” (non se ne può più di questa “gggente”, diciamolo). Quello che non si può evitare di fare, però, è riflettere pacatamente e con serietà sulla vera essenza della Lega Nord. Per qualche tempo gli incendiari di via Bellerio si erano trasformati in pacati e autorevoli uomini di governo. Ma è bastato poco, davvero poco, per far tornare a galla mai sopiti livori. E pensare, infine, che questi stessi nemici di Roma ormai fanno il bello e il cattivo tempo anche nella Capitale. Chissà se sa anche questo, la “gggente” del nord...
Il Coni ha deciso: sarà la Capitale a correre per l'assegnazione dei Giochi olimpici del 2020. Roma doveva essere, dunque, e Roma sarà. E non perché, come urlano sbavando dal nord, la Roma ladrona ha messo in campo tutto il proprio bagaglio occulto di poteri striscianti per battere la “serenissima” e innocente Venezia. Nossignore, non è andata così. Non stavolta, semmai sia realmente successo in passato. Le reazioni sguaiate alla scelta plebiscitaria del Consiglio nazionale del Comitato olimpico italiano (unica eccezione su 68 votanti: il presidente dell'Aeroclub d'Italia Giuseppe Leoni, senatore leghista) erano prevedibili, ammettiamolo, ma fino all'ultimo avevamo sperato che ci venisse risparmiato l'ennesimo teatrino livoroso che divide il paese, che lancia accuse da complottismo di quart'ordine per urlare allo scippo. Quasi come se avesse vinto un piccolo paesino di mille abitanti contro una metropoli attrezzata e organizzata.

mercoledì 19 maggio 2010

Ma quella di Rainews è professionalità da tutelare

Ffwebmagazine
19 maggio 2010

Proprio nel giorno in cui Mamma Rai cambia logo, rinnovandosi graficamente solo pochi anni dopo il funesto arrivo della criticatissima “farfallina”, dalle parti di viale Mazzini si scatena la tempesta. A innescarla, stavolta, non è Santoro, né Travaglio o Minzolini. Non si tratta di un capriccio di una star del piccolo schermo, insomma. La polemica monta direttamente dai sotterranei di Saxa Rubra, dalle catacombe del giornalismo televisivo, da quella realtà professionale piccola e bistrattata che è Rainews24 (da ieri solo Rainews). La rete all news diretta da Corradino Mineo, infatti, improvvisamente è sparita dai televisori italiani sul digitale terrestre e persino sul bouquet satellitare di Sky.

La reazione dei già mugugnanti giornalisti di Rainews non si è fatta attendere: nota ufficiale, richiesta di spiegazioni, Mineo infuriato e assemblea immediata. Risultato: sciopero indetto per il 28 maggio e sit-in pomeridiano all'ombra del cavallo morente. A nulla sono valse le motivazioni dell'azienda, pronta a giustificare il disguido tecnico con un cambio di frequenze dovuto allo switch over in alcune zone del nord. Anche perché i problemi di frequenza sul digitale non spiegherebbero comunque l'oscuramento sul satellite.

La professionalità di Rainews, in effetti, è calpestata da tempo dai piani alti della Rai. E nessuna differenza si è vista quando al governo c'era il centrosinistra. Sembra che, nonostante ciò che dicano i dirigenti, il canale all news non sia strategico per l'azienda. Errore madornale e pacchiano, visto che negli ultimi anni il canale televisivo che più di ogni altro ha riscosso successi roboanti, è cresciuto e si è fatto conoscere al grande pubblico è proprio un diretto competitor di Rainews, cioè SkyTg24 di Rupert Murdoch.

Fino a qualche tempo fa si imputava a Rainews la linea troppo estrema su alcuni argomenti per riuscire a raccogliere un'audience vasta e trasversale. Critica peraltro condivisibile, viste le spericolate posizioni politiche di chi ha preceduto Corradino Mineo alla scrivania di direttore. Da quando è arrivato l'ex giornalista del Tg3 e già corrispondente da Parigi, l'aria è cambiata e molto. Non solo contenutisticamente, per intenderci, ma anche e soprattutto nella forma e nello stile. Se a SkyTg24 sono tutti giovani, aitanti e à la page, infatti, a Rainews si prediligeva lo stile radical, molto informale (troppo informale!), con giornalisti attempati o che non trovavano spazio sulle reti generaliste.

Un po' funziona ancora così, visto che la rete è vista come una riserva dentro cui parcheggiare chi non è adatto a fare altro (o chi non ha abbastanza santi in Paradiso?). Per non parlare dei risibili mezzi economici destinati al progetto! Una manciata di noccioline, reperite tagliuzzando qua e là, il minimo indispensabile per continuare a vivacchiare, senza acuti né cambi di ritmo. Eppure, nonostante il quadro desolante, Mineo continua a innovare, a sperimentare, a cambiare il volto di una rete televisiva che piano piano sta tentando di mettersi al passo con i competitors italiani e stranieri. È piuttosto comprensibile, quindi, che una trincea già provata da anni di indifferenza, quando non di ostilità, reagisca duramente se persino il poco che si può fare non va in onda.

Le motivazioni addotte dall'azienda, dicevamo, sembrano un po' deboli. E le risposte vere devono arrivare con investimenti maggiori e più credito nei confronti di un team di professionisti che è riuscito a raggiungere livelli più che dignitosi, contando sui pochi mezzi a disposizione. Forse è questo che ha dato fastidio a viale Mazzini. Forse c'era qualcuno, lì ai piani alti, dove si preferisce decidere di grandi show del sabato sera o soubrette da collocare, che sperava che Rainews facesse la classica figura di chi spera di fare le nozze con i fichi secchi.

sabato 15 maggio 2010

Miss Usa è musulmana: forse è ora di imparare qualcosa...

Ffwebmagazine
15 maggio 2010

Vi ricordate quando, nel 1996, Denny Mendez, dominicana e di colore, venne scelta come Miss Italia? Settimane intere di dibattiti, iniziate ben prima della kermesse di Salsomaggiore, e fazioni contrapposte: una ragazza di colore rappresentava la tipica bellezza italiana?

Pare che negli Usa le discussioni di questo genere non abbiano lo stesso successo. Non c'entra, o almeno non si tratta solo di questo, della tipica propensione statunitense per il melting pot. Anche perché il concorso di Miss Usa 2010 non è stato vinto da una afroamericana, una ispanica o una asiatica (è già successo da tempo). Rima Fakih, nata nel Michigan 24 anni fa, ha qualcosa in più: è musulmana. La sua famiglia di origini libanesi festeggia sia le festività islamiche che quelle cattoliche.

Ecco la novità, ecco l'ultima frontiera da valicare nella sociologia a volte spicciola dei concorsi di bellezza. Una reginetta musulmana nel paese dell'11 settembre, dell'islamofobia che ha dominato i primi dieci anni di questo Terzo Millennio. Inutile fingere che non faccia specie: è un segnale importante di distensione, di una maturazione della società americana che forse può andare oltre quel giorno terribile di 9 anni fa, senza dimenticare nulla, ma anche senza generalizzazioni, senza pregiudizi, senza fare di tutta l'erba un fascio.

Ricordiamo tutti i mesi successivi all'attentato del World Trade Center: parecchi voli vennero fatti atterrare perché un passeggero spaventato aveva urlato al terrorista, solo perché il vicino di posto parlava arabo, o era di pelle olivastra, o indossava un turbante o una tunica. Questa lunga parentesi di diffidenza sembra essere finita, oggi, nella maniera più frivola possibile, con una fascia da miss consegnata dal multimiliardario Donald Trump a una immigrata di seconda generazione.

Eccolo l'altro punto cruciale, utile anche dalle nostre parti. Rima Fakih è figlia di libanesi, non dimentica le proprie origini né le tradizioni della sua famiglia. Eppure Rima è americana in tutto e per tutto. Abitudini, modi di pensare e di comportarsi, persino gusti alimentari: tutto nella nuova miss Usa è a stelle e strisce. E gli americani, popolo nato da un fenomeno globale di emigrazione, lo sanno bene.

Forse non lo capirebbero allo stesso modo alcuni italiani. Forse penserebbero che Rima è americana solo de jure. Forse penserebbero bene di manifestare contro la sua vittoria, magari portando un maiale al guinzaglio. Forse penserebbero che Rima è tutto fuorché occidentale, perché è musulmana, e l'Occidente è cristiano. Punto. Non si discute.

Eppure questi immigrati di seconda generazione sono sempre di più, parlano la nostra lingua meglio di molti di noi, tifano per le nostre squadre di calcio, vestono all'ultima moda del made in Italy, mangiano pasta e pizza. E proprio come è accaduto in America, anche in Italia prima o poi si dovrà prendere atto di un dato di fatto incontrovertibili, cioè che anche loro sono italiani, che anche loro (forse soprattutto loro, visto il tasso di natalità del nostro paese) rappresenteranno l'Italia di domani.
Chissà che ne pensano i leghisti, i filoleghisti, i metaleghisti, i postleghisti, della vittoria di Rima Fakih in quel di Las Vegas... Sarebbe il caso di imitare gli amici americani, anche solo “per vedere di nascosto l'effetto che fa”.

Scherzi a parte, reginette o meno, dall'America arriva una bella lezione. L'America a chi la ama, l'Italia pure. Speriamo.

mercoledì 12 maggio 2010

La5 un canale per donne: sì, ma quali?

Ffwebmagazine
12 maggio 2010

La nascita di un nuovo canale, soprattutto se contribuisce ad arricchire l'offerta per adesso scarsa del digitale terrestre, dovrebbe farci esultare. E la partenza de La5, nuovo canale Mediaset dedicato alle donne che comincerà le trasmissioni stasera alle 21, riesce solo in parte a farci gioire. Di buono, dicevamo, c'è che i colossi televisivi italiani cominciano a investire sul digitale gratuito non solo con repliche trite e ritrite, ma anche con programmi nuovi di zecca, produzioni (seppure a basso costo) solo per il pubblico del digitale, croce e delizia della nuova televisione.

Quello che ci convince meno, invece, è la vera e propria "linea editoriale" del nuovo canale femminile del Biscione. Sì, perché se stiamo parlando di un canale all pink, tutto dedicato alle donne, bisogna capire innanzitutto di che donne stiamo parlando. A giudicare dal primo palinsesto presentato in pompa magna da direttori, channel manager, funzionari e dirigenti (guarda caso tutti uomini), c'è ben poco da esultare. Provate a indovinare chi ha firmato il primo programma nuovo di zecca, tutto per La5. È Antonio Ricci, il padre di Striscia la notizia, l'ideatore delle Veline, quel modello femminile non proprio edificante che ha creato in Italia un vero e proprio ritorno, meno ideologico e più pragmatico, del femminismo italico.

E a condurre Le nuove mostre, striscia quotidiana che offrirà al telespettatore il peggio della tv del giorno prima, sarà condotto proprio da loro, la bionda Costanza e la mora Federica, le veline di Striscia.
Un altro contenuto esclusivo del nuovo canale è l'imperdibile (sic!) Ciao Darwin: istruzioni per l'uso, backstage dello show ideato e condotto da Paolo Bonolis. Anche Ciao Darwin, in effetti, non si è mai distinto per una concezione decorosa e rispettosa della donna. Basti pensare alla bella statuina muta chiamata Madre Natura, o ai commenti maschilisti che accompagnano l'immancabile sfilata in lingerie delle concorrenti. D'altronde, con molta onestà intellettuale, Bonolis ha sempre dichiarato di volersi dedicare, con Ciao Darwin, al disimpegnatissimo filone "tette e culi", rivendicano la liceità della scelta ultraleggera.
Altra chicca per le donne di età compresa tra 15 e 40 anni (il target del nuovo canale) è la riproposizione in prima serata delle puntate di Beautiful. Le vicende libertine e amorali della famiglia Forrester sbarcano, dunque, nel prime time, confermano che il target femminile di cui sopra non è proprio composto da donne impegnate ed emancipate.

Soap opera, veline e tv "tette e culi" (senza dimenticare i concerti del tour estivo degli Amici di Maria De Filippi): questo il primo menu, che rischia di risultare indigesto. La storia è sempre uguale, in tv, in politica, in ogni ambito della vita quotidiana: di quello che vogliono le donne, dei loro bisogni e dei loro gusti, delle loro inclinazioni e aspirazioni, se ne occupano gli uomini. Con l'ovvio risultato di rappresentare un universo femminile lontano anni luce dalla realtà e facendo capire alle donne, magari quelle più indifese, che quello che vogliono è proprio questo, niente di più. Benvenuto al nuovo canale per le donne, dunque. Ma la domanda è una, semplice, diretta e lineare: per quali donne, di grazia? 

giovedì 6 maggio 2010

Quando lo schermo è tutto un tripudio di... deretani

Ffwebmagazine
6 maggio 2010
In quel Circo Barnum imbarazzante che è diventata la televisione italiana, ci mancavano solo i culi imparruccati che interpretano Grease. Chi non ha assistito all'orrida performance forse non crederà a quello che sta leggendo, eppure vi assicuriamo che è andata proprio così. Il “merito” di questo alto momento di spettacolo televisivo è di Italia's got talent, versione nostrana del format inglese Britain's got talent. Ma se a Londra c'è Simon Cowell in giuria e Susan Boyle sul palco, noi ci dobbiamo accontentare di Rudy Zerbi e dei culi truccati e canterini.

Lungi dal voler cadere nel cliché moralista o radical chic, è però innegabile che vedere uno spettacolo simile in prima serata su Canale 5 fa accapponare la pelle. Non fosse altro perché lo show in questione ospita in giuria anche Maria De Filippi e Gerry Scotti, le due punte di diamante della squadra Mediaset. Il nostro appunto, prima ancora che televisivo, è prettamente estetico. Perché mandare in onda due sederi completamente nudi che zompettano allegramente (e con scarso talento, c'è da aggiungere) sulle note del musical reso celebre da John Travolta e Olivia Newton-John? Cosa hanno voluto dimostrare gli autori con questa scelta? Non capiamo, nonostante ci stiamo sforzando di interpretare l'oscenità di una cosa simile. Un'interpretazione scherzosa (e un po' maligna) potrebbe essere la seguente: con tutte le facce da culo che imperversano sui nostri schermi, due culi veri, in chiappe e ossa, non dovrebbero scandalizzare più di tanto.
Scherzi a parte, l'episodio di cui stiamo parlando è l'ennesimo sintomo di una malattia cronica e forse incurabile che ha colpito la nostra tv. Si sono raggiunti livelli impensabili solo fino a pochi anni fa e più passa il tempo, più si alza l'asticella del cattivo gusto. E i culi musicali non sono l'unico motivo di sconforto per lo spettatore italiano di questi tempi. È da poco tornato in onda, ad esempio, La Pupa e il Secchione, reality show costruito a tavolino che punta a dimostrare il cliché che le belle sono oche e i brutti sono geni. Peccato, però, che già dalla scelta dei conduttori il teorema sia stato sovvertito: Paola Barale è bella e ha anche un cervello; Enrico Papi... beh, è Enrico Papi.

E poi, spiace dirlo, il Ciao Darwin di Paolo Bonolis si sta confermando ancora una volta come un programma volgare, caciarone, urlato, assolutamente privo di contenuti. Spiace, dicevamo, perché Bonolis anche in questo caso dimostra di essere un cavallo di razza, conducendo con il solito piglio adrenalinico e con la consueta ironia dissacrante che tanto ci piace. Il problema, però, è il format nel suo insieme. Fenomeni da baraccone, personaggi troppo eccessivi, nudità per nulla celate, linguaggio scurrile. Tutto quello che vorremmo non andasse in onda, insomma, condensato in uno show di prima serata di Canale 5. E infine lo Show dei record, cui abbiamo accennato qualche settimana fa, con il consueto carrozzone di nani, donne barbute, anziani tatuati, macchiette e via cantando.

Non stupisce affatto che tutti gli esempi che abbiamo elencato riguardino le reti Mediaset. In un periodo in cui persino la Rai, ente televisivo pubblico e quindi vincolato a regole ben precise, sta scivolando verso i bassifondi della qualità catodica, la televisione commerciale, principale indiziata (almeno da vent'anni) del degrado del mezzo, si sente in diritto di spingersi oltre, di varcare le colonne d'Ercole, per la verità superate da quel dì, del buon gusto.

Non dobbiamo considerare quei culi ballerini come il punto di non ritorno, il massimo del minimo, l'acme del pecoreccio che non si può superare. Ci piacerebbe fosse così, ma siamo certi che gli strapagati autori e dirigenti televisivi sapranno deliziarci ancora con ulteriori mirabolanti invenzioni. Il nostro terrore più grande, sinceramente, è che i due “anonimi calabresi” che si sono esibiti chiappe al vento, decidano prima o poi di mettere in scena anche Pinocchio...

mercoledì 28 aprile 2010

Se Paolo Del Debbio è l'anti-Santoro del mattino


Ffwebmagazine
28 aprile 2010
Da tempo immemore si cerca l'anti-Santoro, un giornalista berlusconiano che rintuzzi con un programma ad hoc gli attacchi settimanali di Annozero al premier. Ci ha provato Antonio Socci, con Excalibur. Poi è stato il turno di Giovanni Masotti e Daniela Vergara, con Punto e a capo. Due flop clamorosi che all'epoca, proprio durante l'esilio forzato di Santoro derivato dall'editto bulgaro, provocarono non pochi mugugni a viale Mazzini. Da allora non si è fatto nessun altro tentativo, perché è risultato evidente che non è facile confrontarsi con un giornalista di razza come Michele Santoro. Soprattutto se invece di un anchorman con gli attributi, magari indipendente, preferisci affidare la risposta berlusconiana a un bravo professionista che deve solo portare a termine il compitino.

Eppure, la risposta ad Annozero c'è eccome, ma non sui canali Rai. Mentre molti di noi sono già a lavoro, o stanno per andarci, ci pensa Paolo Del Debbio con il suo Mattino 5 (Canale 5, ore 8.40) a dare il buongiorno alle casalinghe d'Italia, agli anziani annoiati o agli studenti svogliati che preferiscono sentire i sermoni di Del Debbio piuttosto che tuffarsi tra le pagine di Diritto privato, Matematica finanziaria o Filosofia teoretica. Mentre Federica Panicucci si occupa di Grande Fratello, gossip e di altri simili orrori della televisione di oggi, l'editorialista del Giornale infila qui e là, appena può, e con una faccia tosta che è da ammirare sinceramente, un po' di politica. Anzi, la politica di Silvio Berlusconi, per essere precisi. Una onesta e palese propaganda che a quell'ora del mattino, e con un target di pubblico non propriamente esperto di politica, sicuramente dà i suoi frutti.

E pensare che Paolo Del Debbio non è il primo arrivato. Considerato un intellettuale di talento, insegna allo Iulm di Milano, ha scritto libri di successo, si è distinto, in passato, per una elaborazione mica da ridere del pensiero liberale. Quando Berlusconi decide di “scendere in campo”, il nostro è uno dei primi ad accorrere, partecipando attivamente alla creazione di Forza Italia (giovane intellettuale tra gli intellettuali che allora credettero alla “rivoluzione liberale”) e dirigendo anche l'Ufficio Studi nazionale del partito. Nel mezzo c'è anche una candidatura di bandiera come presidente della Regione Toscana nel 1995.

Poi il colpo di genio, il programma televisivo cult che ha fatto conoscere Del Debbio al grande pubblico. Stiamo parlando del mitico Secondo voi, trasmissione realizzata tra la “gggente” (il numero di g da utilizzare è a discrezione di chi legge), intervistata sui fatti del giorno. Guarda caso, tutti pensavano la stessa cosa. Guarda caso, tutti pensavano la stessa cosa che pensava anche Berlusconi. Guarda caso, non c'era nemmeno un bastian contrario, uno che rispondeva in maniera differente, fosse anche solo perché aveva capito male la domanda. Duro giornalismo di inchiesta, verrebbe da dire se volessimo fare facile ironia. Ma ci ha pensato Gene Gnocchi, all'epoca, con una imitazione spassosissima di Del Debbio.

E ora la promozione a condottiero del mattino berlusconiano di Canale 5, spalleggiato anche dall'agguerrito spazio quotidiano di Maurizio Belpietro. È un Mattino 5 così berlusconiano, ma così berlusconiano, che la veloce lettura dei giornali di Filippo Facci sembra qualcosa di rivoluzionario. Altro che anti-Santoro, dunque. Diamo un bel talk show politico di prima serata a Paolo Del Debbio. Magari non avrà una verve trascinante, ammettiamolo. Ma il compitino lo svolge. E bene.

mercoledì 21 aprile 2010

E con l'addio a Raimondo, è finita la storia della tv

Ffwebmagazine
21 aprile 2010
Con la morte di Raimondo Vianello si è definitivamente arrivati alla fine della stora televisiva. Prima Corrado nel 2000, poi Mike Bongiorno solo pochi mesi fa, e ora appunto Vianello. La tv che ha unito l'Italia non c'è più, va in soffitta per sempre, diventa materiale d'archivio da tirare fuori di tanto in tanto, magari nei pomeriggi afosi e annoiati dell'estate italiana, quando i nuovi volti noti del piccolo schermo vanno in vacanza e svuotano i palinsesti. La fine della storia televisiva italiana era, ovviamente, inevitabile. I personaggi che tennero a battesimo il tubo catodico nel nostro paese non erano immortali. Il vuoto che hanno lasciato, e va detto al di fuori di ogni discorso retorico o frase di circostanza, però è davvero incolmabile. Il caso di Vianello è emblematico, forse più di quello di Mike Bongiorno o Corrado Mantoni. Nel 1954, quando la Rai iniziò le trasmissioni, lui c'era già e con Ugo Tognazzi realizzò Un, Due, Tre, il programma televisivo più importante della storia.

Qualcuno obietterà dicendo che no, non è così, perché c'è Lascia o Raddoppia?, Canzonissima, i grandi show di Mina, i Fantastico e i Sanremo di Baudo. E invece nessuno, dal 1954 a oggi, è riuscito a fotografare meglio di Vianello e Tognazzi l'essenza stessa dell'identità italiana. Quando la censura era censura davvero, quando non si poteva nemmeno dire "membro del Parlamento" per non turbare le pudiche sensibilità dell'Italia postbellica delle due Chiese (cattolica e comunista), i due attori prendevano in giro i luoghi comuni, la retorica, l'approccio iperpedagogico della Rai. Sfottevano il Mario Soldati dei viaggi sul Po, dell'inchiesta sulla lettura tra i nostri connazionali; scimmiottavano le inchieste sulla donna che lavora, vista all'epoca come un esemplare raro, una mosca bianca, un fenomeno da studiare sociologicamente (resta insuperato e insuperabile lo sketch sulla mondina e sulla mondana).

Più delle suddette inchieste, più dei programmi di Alberto Manzi, più di qualsiasi altra cosa, Un, Due, Tre ha unito il paese. Non linguisticamente, né socialmente. Lo ha unito dando a tutti, da Sondrio a Ragusa, il senso dell'umorismo. Meno di dieci anni erano passati dalla tragedia bellica e c'era ancora ben poco da ridere. Il boom si stava innescando, ma non era ancora esploso. L'Italia stava ancora ricostruendo case, palazzi, istituzioni democratiche e soprattutto stava ricostruendo un'anima. Ebbene, il contributo leggero ma sferzante, cinico e sfacciato di Vianello e Tognazzi è stato decisivo.

Quella televisione è definitivamente scomparsa, dicevamo, il 15 aprile 2010. Non c'è più nessun reduce di quella fase pionieristica. Non c'è nessun Vecchio Saggio che possa continuare a testimoniare cos'era quell'Italia, cos'era quella televisione, cos'era quello spirito pionieristico che ha ricostruito una nazione. Oggi la tv è tutt'altro. È il Grande Fratello. È l'Isola dei Famosi. È la Pupa e il Secchione. È un pomeriggio domenicale trash e urlato. È uno Show dei Record che tratta la gente diversamente abile come un fenomeno da baraccone da premiare con una medaglia e mostrare al pubblico perché ne rimanga sconvolto, come una donna baffuta o un uomo forzuto dei circhi da 1 penny di un secolo fa. È la tv dell'informazione faziosa (di destra e di sinistra). È la superficialità, il vuoto al potere, la morte della creatività.

E il problema, in fondo, è di noi "giovani". I nostri genitori o i nostri nonni almeno hanno vissuto gli anni gloriosi della televisione italiana, prima che arrivassero le poppute cameriere di Drive In, le Cin Cin di Colpo Grosso, le Veline mute che hanno fatto scuola anche fuori dallo schermo. Ci dicono che la televisione di oggi è migliore, è al passo con i tempi, segue il mercato perché è il mercato che la fa vivere, sa leggere i gusti del pubblico, della stramaledetta casalinga di Voghera. "Beato chi ci crede", recitava la sigla di Di nuovo tante scuse (show del 1976 presentato proprio da Raimondo Vianello e Sandra Mondaini). Ma noi no, non ci crediamo. E ci tuffiamo, come nostalgici di un'epoca lontana sessant'anni e che non dovrebbe appartenerci, nel palinsesto di Rai Storia, costruito grazie all'immenso archivio delle Teche Rai. Non c'è altra soluzione: nella televisione italiana le emozioni sono diventate repliche.

lunedì 19 aprile 2010

Un ragazzo andaluso e lo spirito di una nazione

Ffwebmagazine
19 aprile 2010
Dicono che chi è nato e vive a Cadice, sulla punta estrema della Spagna meridionale, a un tiro di schioppo dalle coste marocchine, abbia molte probabilità di impazzire. Dicono sia colpa dei venti che arrivano dall'Atlantico e dal Mediterraneo, e che proprio lì si incontrano e si scontrano.
Sergio Dominguez Martinez, 22 anni, è nato lì vicino, ad Algeciras, nel cuore della Spagna che fu araba e che lo è ancora, almeno per la toponomastica. Algeciras, infatti, non è altro che la versione latinizzata della parola araba Al Jazeera, già nota al grande pubblico per il canale all news del Qatar. Sergio è andaluso, orgogliosamente andaluso. E degli andalusi ha tutto: pregi e difetti. Innanzitutto è fiero e orgoglioso di essere spagnolo. Tutto quello che viene dal paese iberico è, per lui, il non plus ultra. Nessuno al mondo sa fare le stesse cose, nello stesso modo.

Ma di andaluso ha anche l'irrefrenabile furia creativa, la voglia di conoscere nuove persone e culture, di influenzare e farsi influenzare, di essere l'emblema massimo di un meticciato che in Andalusia, prima che venisse soffocato nel sangue dalla Reconquista cattolica, aveva prodotto esempi mirabili di tolleranza e dialogo tra culture. E Sergio è orgoglioso anche del retaggio musulmano, pur essendo spagnolo al 100%.
Ma per vivere bene non basta il sangue andaluso, soprattutto se sei figlio di un muratore disoccupato e di una assistente sociale, se tuo fratello fa il meccanico e se la tua famiglia vorrebbe che tu restassi lì, a bruciarti la pelle sotto il sole cercando un lavoro che non c'è e accontentandoti del sorriso che hai nel Dna, della voglia di vivere che nessun problema economico potrà mai portarti via. Ma a Sergio non bastava e quattro anni fa ha deciso: si va a Madrid, a studiare e cercar fortuna. Pazienza se poi non vivi a Madrid ma a Torrejon de Ardoz, città-dormitorio a 27km dalla capitale, e condividi un appartamento piccolo con la nonna 86enne. Il sogno rimane e anzi si alimenta, anche se il tuo quartiere è da proletariato urbano, e il figlio del muratore studia Belle Arti, dipinge, legge, va a Parigi per un weekend e ci rimane un anno, lavorando di notte come panettiere, per respirare arte e aprirsi al mondo, accogliendolo anche nei suoi lati più deteriori.
Sergio è colto, sa tutto delle proprie radici e le rinnova giorno per giorno, senza per questo essere conservatore o bacchettone. Ha un vistoso orecchino di legno all'orecchio destro, è bohemien, eppure non fa altro che parlare della letteratura delle origini, dello struggente Lazarillo de Tormes, del «più grande scrittore della storia insieme a Shakespeare», quel Miguel Cervantes che dalle parti di Torrejon e Alcalà de Henares (città natale dello scrittore) è un dio. Sergio studia a La Latina, il quartiere degli artisti di Madrid, e ogni volta che esce dall'elegante palazzo storico che ospita la sua scuola alza lo sguardo, guarda le case, i volti, ascolta la musica e il brusio incessante che fa da colonna sonora alla movida e pensa che lui dovrebbe vivere lì, non a Torrejon.
Eppure, zaino in spalla, corre ad Atocha a prendere il treno della Cercanìa che lo riporterà a casa, dove la nonna lo aspetta con un piatto di baccalà o un riso alla cubana così buono che nemmeno Ferran Adrià con tutti i suoi intrugli chimici e "molecolari" potrebbe far di meglio. «Sono troppo sognatore, i miei me lo ripetono sempre. Di notte, quando vado a dormire, inizio a pensare a cosa vorrei fare, ai progetti che forse non realizzerò mai, alla vita che vorrei e che non ho». Così parla Sergio, e ascoltarlo è un pugno nello stomaco, perché sai che probabilmente ha ragione, che forse non realizzerà mai i suoi sogni. A differenza di molti altri suoi coetanei, però, Sergio non si rassegna e continua a sognare. «Sono così e sarò così per sempre. Non posso cambiare, nemmeno volendo».

Eccola la frase che aspettavi, che ti fa rendere conto che Sergio è il paradigma di una nazione intera. La Spagna è così e così sarà per sempre. Ci hanno provato in tanti a snaturarla, a violentarla e modificare la sua essenza: integralisti cattolici, sanguinari socialcomunisti, orchi franchisti che l'hanno soffocata per quarant'anni, terroristi baschi e islamici. Ma la Spagna è ancora lì, con i suoi pregi e i suoi difetti, i suoi sogni forse irrealizzabili e le sue piccole conquiste di civiltà che raccoglie come mollichine di pane per l'inverno che inevitabilmente verrà, perché è sempre venuto nel corso dei secoli. E' come Sergio, la Spagna. È come un ventiduenne che ama il cubismo e accudisce la nonna, che legge Cervantes e prepara le baguette a Parigi, che non compra un Moleskine perché è troppo caro (12 euro) e si commuove vedendo l'interno della Cattedrale dell'Almudena.
C'è da sperare che né Sergio, né la Spagna, cambino mai. Magari dovremmo cambiare noi, per ricominciare a sognare. Forse inutilmente, forse no. Gregorio Marañón, genio multiforme e liberale del Novecento spagnolo, è riuscito a racchiudere un intero stile di vita in una frase: «Vivere non è solo esistere, ma esistere e creare, saper godere e soffrire, e non dormire senza sognare. Riposarsi è cominciare a morire».

mercoledì 14 aprile 2010

La destra moderna dell'alcalde Gallardon

Ffwebmagazine
14 aprile 2010
È un politico stimato trasversalmente. È misurato, propositivo, moderno e pronto a incarnare l'anima più europea della destra. Si chiama Alberto Ruiz-Gallardon, ha 51 anni e di "mestiere" fa il sindaco di Madrid.

A ventinove anni era già portavoce del gruppo parlamentare popolare al Senato, a trentuno anni Segretario generale di Alianza Popular (il progenitore del Pp), a trentasette presidente della Comunidad de Madrid. Poi la sfida per diventare sindaco (alcalde, in castigliano) della capitale spagnola, su richiesta diretta di José Maria Aznar, in tandem proprio con la moglie dell'ex premier, Ana Botella: maggioranza assoluta e vittoria con il 51% dei voti. Quattro anni dopo si replica e Gallardon riesce addirittura ad aumentare i consensi (55%). Oggi Alberto Ruiz-Gallardon è uno dei politici più stimati del paese: lo certificano tutti i sondaggisti, di diverso orientamento politico.

La carriera e il gradimento dell'alcalde madrileno non sembrano essere particolari. In effetti sono molti i politici, spagnoli e non, stimati e votati in massa. Ma il cursus honorum di Gallardon non è lineare come sembra, soprattutto se si considera che i primi avversari del primo cittadino di Madrid sono all'interno del suo stesso partito, il Pp guidato da Mariano Rajoy. A cominciare dalla señora del centrodestra spagnolo, quella Esperanza Aguirre che ha preso il posto dello stesso Gallardon come presidente della Comunidad de Madrid (la regione che include la capitale e le città vicine).

La Aguirre è spagnola in tutto e per tutto: aggressiva, rampante, presenzialista, sempre sotto i riflettori (sabato sera è stata tra i vip più fotografati e ripresi dalle telecamere al Bernabeu durante il supermatch Real-Barcellona). E più passa il tempo, più la quasi sessantenne Aguirre sembra ringiovanire: immagini photoshoppate, più di un sospetto che ci sia anche lo zampino del chirurgo. Il suo potere all'interno del Partido Popular è in crescita, così come le continue gaffes pubbliche che sono pane fragrante per i denti voraci della televisione spagnola.

El alcalde è di tutt'altra pasta, e i madrileni lo dicono a gran voce. Uno dei momenti più tesi tra il sindaco e il Pp è del 2006, quando Gallardon decise, limitandosi ad applicare una legge dello Stato, di celebrare un matrimonio omosessuale, provocando l'ira del gotha popolare. Ma Madrid non è città che si scandalizza con poco. È la città che ospita Chueca, il quartiere gay più grande d'Europa e un Pride annuale da un milione e mezzo di persone.

Da un lato una destra di plastica, dunque, e dall'altro una nuova destra liberalconservatrice che non ha paura di confrontarsi con la modernità e il progresso. E nel paese eccessivo per antonomasia come quello iberico, nemmeno gli eccessi zapateristi da un lato e l'ipertradizionalismo di una parte del Pp e della Chiesa dall'altro, hanno fino ad oggi scalfito la popolarità di Gallardon e la sua azione politica che se ne infischia letteralmente delle divisioni politiche aprioristiche, del muro contro muro che conosciamo così bene anche in Italia.

La sfida è duplice e ugualmente difficile: offrire agli spagnoli un'alternativa allo zapaterismo dilagante e rinnovare un centrodestra imbolsito e ammuffito dalla scialba leadership di Mariano Rajoy. Chissà se il desiderio dei madrileni verrà esaudito e Alberto Ruiz-Gallardon potrà un giorno entrare alla Moncloa. Di sicuro c'è che l'unica novità degli ultimi anni è rappresentata dal suo nuovo approccio alla politica. Chi vincerà? La destra di plastica, ancorata al passato, che non ha visione o quella liquida, nuova, moderna ed europea? Parliamo della Spagna, ovviamente.

mercoledì 7 aprile 2010

Dopo Lost arriva Fringe, e la fiction gioca con la mente...

Ffwebmagazine
7 aprile 2010
Chi ha amato Lost alla follia (mai termine fu più appropriato) non può perdersi Fringe. La serie televisiva americana partorita dalla geniale e contorta mente di J.J. Abrams è finalmente arrivata sugli schermi di Italia 1. Dal 9 marzo, insomma, i telespettatori italiani possono godere delle cervellotiche indagini ai confini della realtà di uno speciale reparto dell'Fbi che si occupa di casi sovrannaturali. Qualcosa a metà tra X Files e il film Stati di allucinazione, secondo qualcuno, ma in realtà Fringe rappresenta qualcosa di diverso.

A differenza del telefilm cult che ci fece conoscere gli agenti Scully e Mulder, Fringe abbandona alcune banalità tipiche della tradizione fantascientifica e si mette a giocare con qualcosa di molto più pericoloso e affascinante: la mente umana. Il cast è di pregio, con un gran ritorno in tv di Joshua Jackson, il Pacey di Dawson's Creek che ha fatto impazzire una generazione di ragazzine. Ma più che le prove d'attore ci interessa altro, parlando di Fringe.

Tra morti misteriose provocate da allucinogeni prodotti da rane e rapitori che portano alla follia le loro vittime per condurre avveniristici e pericolosi esperimenti scientifici, la serie è la summa di tutte le cose, giuste o terribilmente sbagliate, che il cervello umano può fare. E il bello è che per molti fan la trama non è poi così fantascientifica. Anche perché ormai da molti anni si parla di una vera e propria branca scientifica che si occupa di quel 99% di capacità cerebrali che non abbiamo ancora scoperto e, forse, non scopriremo mai. Dal creatore di Lost, dunque, non c'era da aspettarsi niente di diverso. E in fondo, nonostante la trama così diversa e un canovaccio narrativo molto meno complicato, il tema alla base delle vicende è sempre quello: la mente umana e le paure che può generare.

Abrams è senza dubbio il capofila di questo nuovo genere quasi psicanalitico delle serie televisive americane. Seguendo le avventure, realistiche o meno, di personaggi di fantasia, lo spettatore entra in un vero e proprio percorso di autoanalisi. Può sembrare una teoria azzardata e campata in aria, ma alzi la mano chi, seguendo Lost, non si è mai immedesimato in uno dei personaggi, trasferendo su di sé anche per un solo secondo paure, dubbi, scelte, azioni. In fondo il quid è sempre quello, e capita da millenni, ben prima dell'avvento della tv. Lo scontro perenne tra Bene e Male, declinato in chiave moderna e catodica, in televisione funziona alla meraviglia, perché innesca i lati reconditi del carattere di ciascun spettatore.

Abbandoniamo i voli pindarici al limite della psicanalisi, però, per tornare a Fringe e alla sua natura prettamente televisiva. Il prodotto funziona e anche bene, la trama fila alla grande e il personaggio dello scienziato pazzo (letteralmente!) gioca molto sulla dicotomia a volte fittizia tra senno e follia, appassionando ancora di più lo spettatore. J.J. Abrams, dunque, ci ha regalato un altro piccolo gioiello. Ora c'è da sperare soltanto che Italia 1 non ripeta i soliti errori, interrompendo la trasmissione della serie o sacrificandola in orari improponibili. Per fortuna, da qualche anno a questa parte, satellite e digitale terrestre hanno messo una pezza nelle magagne dei palinsesti televisivi. Ma alla famosa casalinga di Voghera, da decenni indicata come lo spettatore tipo della tv italiana, e che magari non ha parabole né decoder, qualcuno ci vuole pensare?

mercoledì 31 marzo 2010

Lettera aperta ai politici: e ora in tv urlate di meno...

Ffwebmagazine
31 marzo 2010 
Cari politici,
 
dopo la “Quaresima” alla quale siete stati obbligati durante la campagna elettorale, in questi giorni tornerete in televisione. Per fortuna, bisogna dirlo. Perché il provvedimento della Commissione di vigilanza, proposto dai Radicali e cavalcato dal centrodestra, ha rappresentato una brutta pagina per la libertà di informazione nel nostro paese. Il mese di digiuno (vostro e nostro) è passato. Ricomincerete ad affollare i salotti televisivi, ad accapigliarvi sullo zero virgola, a rinfacciarvi colpe vere o presunte e a promettere di tutto e di più agli incolpevoli telespettatori. Bruno Vespa, Michele Santoro e Giovanni Floris non vedono l'ora di ospitarvi di nuovo, di sfruculiarvi, di tirar fuori il peggio di voi, perché fa notizia (ancora?) e soprattutto audience.

E voi ci cascherete, ne siamo certi. Innanzitutto perché ormai la politica in tv è così: urlata, sguaiata, priva di contenuti e di proposte concrete. Un duello all'ultimo sangue con la vittoria finale assegnata a chi avrà alzato di più la voce. E poi, cosa non secondaria, perché avete capito una volta di più, dopo queste Regionali, che il nostro non è un paese per fini pensatori e pacati promotori di idee. L'urlo (e non solo televisivo) premia. Il resto sono solo chiacchiere che contano pochissimo, soprattutto in termini di voti.

Con questa lettera aperta, che probabilmente non leggerete nemmeno, ci si appella al vostro buon senso e alla consapevolezza che le cose che dite in tv fanno presa sulla gente, ne condizionano scelte e stili di vita, ne orientano l'opinione e il voto, oltre che i comportamenti nella vita quotidiana. Lunedì sera, al rientro dopo il mese di stop, non avete dato il meglio di voi. Il ministro Bondi e l'onorevole Bindi, ad esempio, si sono esibiti in un continuo battibecco sulle immacolate poltrone di Porta a Porta. Sono arrivati addirittura a sfidarsi su chi, tra i due, rappresenti di più i valori cristiani. E davanti a una provocazione dell'on. Donadi, persino un serafico lama tibetano come Sandro Bondi si è alzato di scatto minacciando di prendere a schiaffi il dipietrista (“Non lo faccio solo perché sono un signore”). Lo stesso signore, per intenderci, che qualche minuto prima aveva dato della “volgare” a Rosy Bindi, rea di aver detto, testualmente, che il ministro stava raccontando delle “balle”.

Non ci siamo, cari politici. Questa vostra rentrée deve essere davvero un nuovo inizio per la politica in televisione. Siate propositivi, costruttivi, scontratevi quanto volete ma nel rispetto dei ruoli che ricoprite e, soprattutto, di chi vi guarda da casa. In caso contrario, però, abbiate almeno la decenza di non lamentarvi per il crollo dell'affluenza. Non vi sorprendete più della “disaffezione nei confronti della politica”, non cadete dal pero se il movimento di Beppe Grillo ottiene un bel risultato. È tutto frutto del vostro comportamento, anche e soprattutto quello televisivo.

Ma quello che ci aspettiamo da voi (da inguaribili ottimisti quali siamo) è che in televisione ci andiate solo per riferire alla gente le vostre proposte politiche. Niente più interventi (ex ante o ex post che siano) per mettere a tacere questo o quello, niente lottizzazioni delle testate giornalistiche della tv di Stato, niente faziosità (di destra o sinistra che sia) che ridicolizza innanzitutto voi e la classe dirigente di questo paese. In questo caso, però, la colpa è anche dei giornalisti. Alcuni nostri colleghi, pochi per fortuna, pieni di zelo o ideologia, rinunciano al loro ruolo quasi “sacro” di informatori della gente, di divulgatori di notizie vere e di interpretazioni obiettive (visto che imparziali non se ne parla proprio). Se l'esigua minoranza della categoria della quale facciamo parte anche noi dimostrasse un po' di coraggio in più, siamo certi che anche voi ne trarreste beneficio.

Ricomincia la vostra scorpacciata di ospitate, collegamenti, dibattiti e cinguettii, dunque. Ci aspettiamo davvero un cambio radicale di rotta. Anzi, lo pretendiamo. Altrimenti siamo pronti a snocciolare 109 buoni motivi (uno per ogni euro del canone che paghiamo ogni anno) per rendere permanente e irreversibile il pur orrido e illiberale black out televisivo che ha contraddistinto questa anomala campagna elettorale. 
  
                                                    Speranzosamente vostro
                                                                Domenico Naso