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mercoledì 31 marzo 2010

Lettera aperta ai politici: e ora in tv urlate di meno...

Ffwebmagazine
31 marzo 2010 
Cari politici,
 
dopo la “Quaresima” alla quale siete stati obbligati durante la campagna elettorale, in questi giorni tornerete in televisione. Per fortuna, bisogna dirlo. Perché il provvedimento della Commissione di vigilanza, proposto dai Radicali e cavalcato dal centrodestra, ha rappresentato una brutta pagina per la libertà di informazione nel nostro paese. Il mese di digiuno (vostro e nostro) è passato. Ricomincerete ad affollare i salotti televisivi, ad accapigliarvi sullo zero virgola, a rinfacciarvi colpe vere o presunte e a promettere di tutto e di più agli incolpevoli telespettatori. Bruno Vespa, Michele Santoro e Giovanni Floris non vedono l'ora di ospitarvi di nuovo, di sfruculiarvi, di tirar fuori il peggio di voi, perché fa notizia (ancora?) e soprattutto audience.

E voi ci cascherete, ne siamo certi. Innanzitutto perché ormai la politica in tv è così: urlata, sguaiata, priva di contenuti e di proposte concrete. Un duello all'ultimo sangue con la vittoria finale assegnata a chi avrà alzato di più la voce. E poi, cosa non secondaria, perché avete capito una volta di più, dopo queste Regionali, che il nostro non è un paese per fini pensatori e pacati promotori di idee. L'urlo (e non solo televisivo) premia. Il resto sono solo chiacchiere che contano pochissimo, soprattutto in termini di voti.

Con questa lettera aperta, che probabilmente non leggerete nemmeno, ci si appella al vostro buon senso e alla consapevolezza che le cose che dite in tv fanno presa sulla gente, ne condizionano scelte e stili di vita, ne orientano l'opinione e il voto, oltre che i comportamenti nella vita quotidiana. Lunedì sera, al rientro dopo il mese di stop, non avete dato il meglio di voi. Il ministro Bondi e l'onorevole Bindi, ad esempio, si sono esibiti in un continuo battibecco sulle immacolate poltrone di Porta a Porta. Sono arrivati addirittura a sfidarsi su chi, tra i due, rappresenti di più i valori cristiani. E davanti a una provocazione dell'on. Donadi, persino un serafico lama tibetano come Sandro Bondi si è alzato di scatto minacciando di prendere a schiaffi il dipietrista (“Non lo faccio solo perché sono un signore”). Lo stesso signore, per intenderci, che qualche minuto prima aveva dato della “volgare” a Rosy Bindi, rea di aver detto, testualmente, che il ministro stava raccontando delle “balle”.

Non ci siamo, cari politici. Questa vostra rentrée deve essere davvero un nuovo inizio per la politica in televisione. Siate propositivi, costruttivi, scontratevi quanto volete ma nel rispetto dei ruoli che ricoprite e, soprattutto, di chi vi guarda da casa. In caso contrario, però, abbiate almeno la decenza di non lamentarvi per il crollo dell'affluenza. Non vi sorprendete più della “disaffezione nei confronti della politica”, non cadete dal pero se il movimento di Beppe Grillo ottiene un bel risultato. È tutto frutto del vostro comportamento, anche e soprattutto quello televisivo.

Ma quello che ci aspettiamo da voi (da inguaribili ottimisti quali siamo) è che in televisione ci andiate solo per riferire alla gente le vostre proposte politiche. Niente più interventi (ex ante o ex post che siano) per mettere a tacere questo o quello, niente lottizzazioni delle testate giornalistiche della tv di Stato, niente faziosità (di destra o sinistra che sia) che ridicolizza innanzitutto voi e la classe dirigente di questo paese. In questo caso, però, la colpa è anche dei giornalisti. Alcuni nostri colleghi, pochi per fortuna, pieni di zelo o ideologia, rinunciano al loro ruolo quasi “sacro” di informatori della gente, di divulgatori di notizie vere e di interpretazioni obiettive (visto che imparziali non se ne parla proprio). Se l'esigua minoranza della categoria della quale facciamo parte anche noi dimostrasse un po' di coraggio in più, siamo certi che anche voi ne trarreste beneficio.

Ricomincia la vostra scorpacciata di ospitate, collegamenti, dibattiti e cinguettii, dunque. Ci aspettiamo davvero un cambio radicale di rotta. Anzi, lo pretendiamo. Altrimenti siamo pronti a snocciolare 109 buoni motivi (uno per ogni euro del canone che paghiamo ogni anno) per rendere permanente e irreversibile il pur orrido e illiberale black out televisivo che ha contraddistinto questa anomala campagna elettorale. 
  
                                                    Speranzosamente vostro
                                                                Domenico Naso

venerdì 26 marzo 2010

Che ci piaccia o no, ieri sera è morta la tv generalista

Ffwebmagazine
26 marzo 2010
Comunque la si pensi, quali che siano le opinioni politiche di ciascuno, l'evento di ieri sera del Pala Dozza di Bologna un primo effetto incontestabile lo ha provocato: la morte della tv generalista. Al di là dei contenuti, al di là della propaganda e di qualche intervento francamente fuori registro, Raiperunanotte ha decretato un cambiamento epocale nel modo di intendere la comunicazione nel nostro paese. “L'ha detto la televisione”, si diceva fino a qualche anno fa, come a consacrare il ruolo centrale e quasi onnipotente di un mezzo pervasivo e totalizzante. Una supremazia mediatica incontrastata in un paese come il nostro, fondato più sullo share che sul lavoro, come recita la Costituzione.

Ieri sera qualcosa è cambiato, dicevamo, perché al salotto di casa si è sostituito un elemento nuovo, e nemmeno tanto: il web. Centoventicinquemila accessi contemporanei al sito ufficiale che trasmetteva in streaming la manifestazione, altri sessantamila su Repubblica.it, e poi decine di altri siti, le piazze in tutta Italia, le tv satellitari, quelle locali. A riprova, se ce ne fosse ancora bisogno, di un radicale mutamento del sistema informativo che investe non solo noi ma tutto il pianeta, all'insegna di nuove e più stimolanti sfide comunicative.

Faceva un po' impressione seguire in contemporanea Raiperunanotte e la normale programmazione del giovedì sera di RaiDue. Alla multimedialità del Pala Dozza faceva da contraltare, infatti, una tribuna elettorale d'altri tempi, asettica, priva di interesse e di appeal televisivo. Uno stridente contrasto che deve far riflettere, se si vuole comprendere appieno la portata rivoluzionaria dell'evento.

Che poi l'appuntamento di Santoro e soci sia scivolato, in alcuni frangenti, nella solita crociata senza se e senza ma, non è una novità né una sorpresa. Una manifestazione per la libertà di opinione e di espressione che fischia il malcapitato Morgan solo perché non si è d'accordo con ciò che dice, ad esempio, sa un po' di guasto. Ciononostante, derubricare quello che è successo come una cosa patetica, penosa, e Dio sa quali altre definizioni arriveranno ancora, sarebbe l'errore più grave. Semplicemente perché non si comprenderebbe l'effettiva portata storica di un evento di rottura, di superamento degli schemi classici del “sistema”.

Negli anni passati c'erano già stati “girotondi”, manifestazioni di piazza, proteste più o meno condivisibili. Ma tutto sempre nel solco della tradizione novecentesca del “pueblo unido” che si raduna nella vecchia agorà per dire la propria. Quella stessa agorà che oggi ha mutato forma, che viaggia attraverso le fibre ottiche e la banda larga, che diventa un'agorà 2.0, si frantuma in milioni di bit e viaggia attraverso il pianeta con una velocità supersonica e trasforma l'essenza stessa della protesta.

A farne le spese è innanzitutto la televisione così come l'abbiamo conosciuta fino a questo momento: la tv ingessata e istituzionale, quella della casalinga di Voghera e dell'italiano medio, che in fondo medio non è per niente, a dispetto delle interpretazioni stantie e fuori dal tempo di esperti massmediologi da strapazzo. Il merito di Raiperunanotte, perché di merito incontestabile si tratta, è stato quello di aver mostrato al paese reale che ci sono altri canali per informare. Ma innanzitutto ha dimostrato che la natura stessa del servizio pubblico va ripensata, modificata, adattata ai tempi.

Tentiamo per un attimo di astrarre l'evento dai contenuti, dalle posizioni ideali (e a volte ideologiche), dalla mera (e provincialotta) battaglia politica quotidiana. Evitiamo di leggere solo per un attimo le dichiarazioni sdegnate (e a volte imbarazzanti) di chi considera l'evento di ieri un sabba demoniaco di forze oscure antidemocratiche e sovversive. Quello che rimane, una volta eliminate le sovrastrutture, è un successo mediatico senza precedenti. Michele Santoro lo ha definito, a ragione, il più grande evento della storia del web italiano. Noi ci permettiamo di fare un passo in più, di parlare del più grande evento della storia comunicativa del nostro paese, che ha messo in evidenza una volta di più l'inefficienza del nostro sistema televisivo e ha decretato il trionfo annunciato di internet. Quella rete globale, immediata e democratica che noi vorremmo vedere premiata l'anno prossimo a Oslo con il premio Nobel per la pace proprio perché portatrice sana di democrazia e valori universali che nessuna decisione di una commissione di “vigilanza” (che brutta parola!) potrà mai fermare.

Non cadiamo nella trappola di difendere il passato e lo status quo a tutti i costi, dunque. Apriamoci alla strabordante potenzialità della rete e ripensiamo il ruolo, soprattutto informativo, della televisione. Solo così staremo al passo con i tempi e riusciremo a capire, anche politicamente, le centinaia di migliaia di persone che ieri sera affollavano la rete e le piazze. Evitiamo strumentalizzazioni politiche, prendiamo atto che qualcosa ieri è successo davvero. Qualcosa che cambierà, in meglio, il nostro modo stantio di intendere il rapporto tra cittadini e mezzi di comunicazione.

Se non lo faremo, e qualcuno pare non lo voglia proprio fare, continueremo a restare intrappolati nel tubo catodico e nella lentezza del mezzo televisivo mentre gli “altri”, che ci piaccia o no, si sposteranno, insieme all'informazione, mille volte più veloci di noi. Bisognerebbe fare una telefonata ai Buggles, il duo pop britannico che furoreggiava tra i Settanta e gli Ottanta, per chiedere una versione aggiornata e corretta del loro successo più grande: Santoro killed the Tv Star. Che ci piaccia o no.

giovedì 25 marzo 2010

Buon compleanno Mina, irregolare Marianna d'Italia

Ffwebmagazine
25 marzo 2010
Prima di essere una cantante, una conduttrice, un’icona della cultura pop italiana, lei è innanzitutto una donna. Ed è proprio una gran donna, Mina Anna Mazzini, in arte Mina… Oggi è il settantesimo compleanno, settanta primavere, è proprio il caso di dirlo, per la cantante più grande della pur ricca storia musicale di casa nostra. Ma, dicevamo, Mina sarebbe Mina, con meno fans ovviamente, anche se facesse la lavandaia, l’avvocato, la fruttivendola o la fisica nucleare.

Perché il nome/brand di cui stiamo parlando è prima di ogni altra cosa uno stile di vita, una forma mentis, una impostazione culturale, una scelta lucidissima, una naturale predisposizione antropologica. La tigre di Cremona è tigre davvero, e lo ha dimostrato mille volte. A cominciare da quando, cinquant’anni fa, giochicchiava con le dita sulle labbra cantando Mille bolle blu, turbando un’Italia che era ancora quella posata e compita di Wilma De Angelis o al massimo elegantemente ammiccante e timidamente “scandalosa” di Jula De Palma. O ancora quando, un paio d’anni dopo, pagò caro il “peccato” di amare un uomo sposato e di aver deciso di farci un figlio insieme.

L’uomo, si sa, era Corrado Pani; il “frutto del peccato”, invece, il figlio Massimiliano, oggi suo collaboratore numero uno.  I famigerati rotocalchi “popolari” dell’epoca ne approfittarono nel peggiore dei modi, con una campagna moralista e ipocrita che provocò, tra l’altro, l’allontanamento di Mina dalla Rai per tutto il 1963. Era la Rai pedagogica e democristiana di Ettore Bernabei, la televisione di Stato che censurava, tagliuzzava, nascondeva, copriva tutto quello che avrebbe potuto turbare la moralità e i costumi pudichi dell’Italia del boom. La gente, come sempre, era però anni luce avanti. Lo ha raccontato anni dopo la stessa Mina, in una memorabile intervista a Playboy del 1972: «Mai vista una serie così di regali da tutta Italia, di lettere, "Stai tranquilla", per la strada mi dicevano, "Non ti devi preoccupare"».  Altro che “pubblica peccatrice” e “rovinafamiglie”.

Dopo lo scandalo, e questa è storia nota, niente e nessuno ha più fermato la cantante. Nessuno, tranne lei stessa. Dopo Studio Uno, i successi internazionali, i milioni di dischi venduti, gli ascolti da capogiro del sabato sera, Mina nel 1978 disse stop (con la tv aveva chiuso già tre anni prima): niente più apparizioni pubbliche o concerti. Solo musica, tanta musica. Note, parole e voce roboante come sempre. Una decisione che molti non capirono, e non capiscono ancora, che venne bollata come un modo per attirare l’attenzione, una semplice operazione pubblicitaria, magari a termine. Trentadue anni dopo, mentre celebriamo il suo settantesimo compleanno, qualcuno dovrebbe ricredersi. Fu una scelta di vita di una trentottenne di successo, nulla di più, nulla di meno.

Sarà pur vero, come ha detto Roberto Benigni dal palco di Sanremo 2009, che ormai solo «Mina e Bin Laden mandano video preconfezionati quando vogliono dire qualcosa», ma la scelta regge e pare non essere reversibile, almeno per ora. Dispiace, è ovvio, a tutti gli amanti della mattatrice cremonese.  Ma l’importante non è la presenza fisica della cantante. E, oseremmo dire, nemmeno la musica che Mina produce. Ormai sappiamo quanto vale, conosciamo la sua voce e la grandezza di un’ugola irripetibile.

La Mina che ci piace festeggiare oggi è la donna che è stata, che è e che sarà. Un modello femminile controcorrente, nell’epoca della sgallettata che sgomita per farsi vedere, che venderebbe la madre per diventare velina, che si chiude per quattro mesi in una casa sotto le telecamere pur di raggiungere la fama. Un modello anche per le donne in politica, almeno per quelle delle ultime ondate, tutte uguali l’una all’altra, tutte allineate e (s)coperte perché, in fondo, o fanno così o stanno a casa. Mina sa di essere il prototipo della donna come dovrebbe essere. E ogni tanto tenta di farlo capire, quando scrive un articolo per un quotidiano o attraverso i versi di una sua canzone. Il messaggio sarà arrivato a destinazione?

Non lo sappiamo, e continueremo a chiedercelo da domani in poi. Per oggi lasciateci festeggiare la Marianna d’Italia, la donna che meglio di tutte le altre potrebbe rappresentare il carattere della nostra giovane Repubblica (nata 6 anni dopo Mina): scapigliata, aggressiva, talentuosa e irregolare. A volte sparisce, abbandona tutto e tutti, eppure è sempre lì, a dimostrarci che, ci sia permesso questo luogo comune, le donne di una volta non ci sono più. Non angeli del focolare, sia chiaro. Ma tigri indomabili che prendono la vita di petto. Come ha sempre fatto lei. E allora auguri di cuore a una donna, un’artista, un mito senza immagine che dell’immaginario è sovrano. Buon compleanno, Mina.

mercoledì 24 marzo 2010

Quando la fiction italiana incontra la modernità

Ffwebmagazine
24 marzo 2010

Chi l'ha detto che in Italia non si possono produrre fiction di qualità? Oddio, in effetti le esperienze del passato non sono incoraggianti, è vero. Ci sono stati prodotti ottimi, veri e propri kolossal televisivi, ma sempre su argomenti seri, drammatici, a volte addirittura biblici. Sul versante “leggero”, invece, oltre i Cesaroni il nulla. Soprattutto in Rai. Dall'anno scorso, però, qualcosa sembra essere cambiato. L'arrivo in tv di Tutti pazzi per amore ha sparigliato le carte, ha sconvolto i cliché delle serie televisive di casa nostra. Stefania Rocca ed Emilio Solfrizzi hanno fatto da pionieri nel territorio paludato della fiction made in Rai.

La prima serie è andata benissimo, mettendo d'accordo, come raramente accade, pubblico e critica. Un po' Sex and the city, un po' Almodovar, con un tocco di “cesaronità” per strizzare l'occhio al pubblico nazionalpopolare: la miscela è perfetta. Il tocco finale, il vero ingrediente segreto, è la musica. Ogni tanto i protagonisti cominciano a cantare e a ballare, sottolineando con le note una vicenda, un evento, una situazione particolare. Il risultato è divertente, piacevole, mai banale, ironico.

Dopo un successo simile la Rai non ha ovviamente perso l'occasione e domenica scorsa è cominciata la messa in onda della seconda serie. Non c'è più Stefania Rocca, in gravidanza, è questo è un vero peccato. Anche perché l'attrice torinese aveva la verve e l'ironia perfette per un ruolo del genere. Ma Antonia Liskova l'ha sostituita bene, senza farla rimpiangere troppo. Tutto il resto, però, c'è ancora eccome. Ci sono le amiche in perenne crisi sentimentale, tra le quali va segnalata l'ottima prova brillante di un'attrice solitamente impegnata come Sonia Bergamasco (com'è lontana la terrorista grigia de La meglio gioventù!).

E poi c'è Carlotta Natoli, già pioniera dei primi distretti di polizia con Tirabassi, Memphis e Ferrari, oggi vedova improvvisa di un inedito e divertente Neri Marcoré (il cui personaggio, Michele, è stato stroncato da un infarto proprio sull'altare, mentre stava per sposarsi). A impreziosire il cast, infine, la presenza di due mostri sacri del teatro italiano: Piera Degli Esposti (cinica e spassosissima madre e nonna) e Luigi Diberti.
Fin qui la critica più “tecnica”, classica e scolastica della fiction.

C'è dietro, però, tutto un sistema di valori che vengono veicolati dalle storie di Tutti pazzi per amore. C'è la famiglia allargata (meno pruriginosa di quella dei Cesaroni e soprattutto meno piccoloborghese), c'è il sesso come normale compagno delle vite di ognuno di noi, senza vergogne o tabù, c'è ovviamente l'amore, mai declinato in maniera banale ma sempre come una scommessa rischiosa da rinnovare ogni giorno, c'è anche qualche parolaccia, vivaddio, dopo anni in cui ci eravamo quasi convinti, per colpa delle fiction di casa nostra, che nelle famiglie italiane non scappasse mai un vaffa.

Nella puntata di lunedì scorso, poi, Tutti pazzi per amore è riuscito anche nell'ardua impresa, soprattutto in Italia, di dissacrare persino la morte. Dicevamo della morte del personaggio di Marcoré: ebbene, seguendo le volontà dell'estinto, il funerale è stato caratterizzato da un'esibizione à la Marilyn della vedova, con uno spassoso e allo stesso tempo toccante Bye bye, baby, mentre tutti gli amici e i parenti ballavano e cantavano in chiesa. Qualcuno avrà storto il naso, ne siamo sicuri. Soprattutto quella tipologia di spettatore che è stata abituata a disperarsi per  la scomparsa dei personaggi più popolari. Dalla tragica morte del commissario Cattani in poi, infatti, ogni abbandono di un membro del cast di una serie tv deve essere ad alta densità emozionale. Più sangue c'è, meglio è. Più si piange, meglio è. Più è lunga l'elaborazione del lutto, più la sceneggiatura se ne avvantaggia.

Naturalmente anche nel caso specifico che stiamo trattando la morte di Michele non verrà spazzata via con una coreografia hollywoodiana. Ma l'approccio nei confronti della morte che è stato scelto è veramente degno di una tv che non cavalca le debolezze emozionali dello spettatore ma lo aiuta a trasformarle in aspetti positivi, in pillole seppur televisive di ottimismo che non possono far altro che bene.

Il responso dell'Auditel ha promosso anche i primi due episodi della nuova stagione. Lunedì sera, poi, Tutti pazzi per amore 2 è riuscito a perdere di misura (quindi più che dignitosamente) contro la semifinale del colosso defilippiano Amici. E le prove del successo della serie non si fermano qui: Tutti pazzi per amore diventerà un film vero e proprio e, incredibile ma vero, avrà anche un suo omologo spagnolo. Negli ultimi anni era la Spagna a venderci format di trasmissioni e fiction (qualcuno sapeva, ad esempio, che i romanissimi Cesaroni sono figli diretti dei Serrano iberici?), con Tutti pazzi per amore pare si possa invertire la tendenza. E lo si fa, la notizia è proprio questa, con un prodotto moderno, al passo con le sensibilità dei tempi, ironico e intelligente. Tutti attributi che, diciamolo francamente, abbiamo raramente affibbiato a una produzione della nostra tv di Stato. Meglio tardi che mai.

mercoledì 10 marzo 2010

Il Gf è finito? È arrivata l'Isola, purtroppo...


Giubilo in tutto il paese: è finito il Grande Fratello! Forse l'edizione più brutta, triviale, rozza, irrispettosa degli spettatori e della pubblica decenza. Spariamo subito tutte le cartucce, senza buonismi, perché il padre di tutti i reality quest'anno ha mostrato davvero la corda, evidenziando una volta di più la stanchezza strutturale di un genere televisivo munto fino all'inverosimile. Che faccia ascolti, poi, è un altro conto. La finale di lunedì ha attirato nove milioni di telespettatori, quindi da questo punto di vista, purtroppo, non c'è stata alcuna crisi. Anzi.

Ma se per una volta provassimo a ragionare non con i numeri dell'Auditel ma attraverso quella entità sconosciuta che è la qualità, ci renderemmo certamente conto di come gli inquilini della casa di Cinecittà abbiano abbondantemente superato il limite della decenza. Bestemmie, apologia della mafia, ignoranza abissale anche su argomenti davvero da scuola elementare, urla e chiacchiericcio gossipparo, quadriglie amorose degne di Beautiful. Questo è stato il GF10, non l'esperimento sociologico della prima edizione, e nemmeno il noioso ma alquanto innocuo scimmiottare successivo. Una tv commerciale è ovviamente libera di trasmettere ciò che vuole e deve fare i conti solo con i propri azionisti (e al massimo con la legge).

Tuttavia, in una società televisiva come la nostra, che si divide equamente tra pubblico e privato anche in termini di share, una maggiore responsabilità anche da parte dei soggetti privati (Mediaset, per capirci) non sarebbe sgradita. Bisogna rendersi conto che l'impatto che la televisione ha sugli spettatori, specialmente i più giovani, è fortissimo. Oppure vogliamo ancora perdere tempo a discutere sul fatto che la tv influenzi la nostra vita? È un fatto assodato. Prendiamone atto e andiamo avanti.

È triste, dunque, pensare che milioni di adolescenti abbiano potuto assistere a una volgarissima bestemmia (c'entra poco la fede: si tratta semplicemente di buongusto ed educazione), all'utilizzo sessuale e merceologico della donna (“Vai a fare i film porno”, ha urlato un concorrente all'ormai nota e paradigmatica Veronica, rea soltanto di aver cambiato partner con disinvoltura, così come facciamo da sempre noi uomini, vantandocene pure) oppure, cosa ben più grave, all'esaltazione del fenomeno mafioso. Argomento, questo, sul quale si è già soffermato con dovizia di particolari Giovanni Marinetti qualche tempo fa.

È finito il peggior Grande Fratello della storia. Festeggiamo, dunque? Non ci pensate nemmeno, poveri ingenui telespettatori. La televisione, specialmente quella trash, non ci abbandona mai. Il Gf ha lasciato il testimone a un altro sommo esempio di pessima tv: l'Isola dei Famosi (Rai due, mercoledì in prima serata). Il reality della seconda rete pubblica, realizzato da Magnolia e condotto da Simona Ventura, non è mai stato, in verità, un esempio di finezza catodica. Quest'anno, e ci vuole davvero talento, sono riusciti incredibilmente a peggiorarlo ancora di più.

SuperSimo con il passare degli anni continua a involgarirsi (come preda di una strana regressione culturale), il cast dei “vip” (metà dei quali sconosciuti ai più) è pessimo (a parte Sandra Milo, quanto meno genuina), e peggio ancora ci è andata con gli opinionisti (i due “coatti” Adriano Aragozzini e Gabriella Sassone, dopo l'apparizione elegante di una splendida Antonia Dell'Atte nella prima puntata), più grevi dei concorrenti e che non sanno analizzare (pare sia un talento!) le dinamiche del reality. La presenza di Aldo Busi come concorrente, poi, andrebbe commentata senza strani e incomprensibili timori reverenziali. Il “più grande scrittore vivente” (autodefinizione del Nostro) in passato ha preso delle posizioni così aberranti su alcuni argomenti molto sensibili (sessualità e mondo dell'infanzia, ad esempio), che solo vederlo sugli schermi fa bollire il sangue.

Sul fatto che un programma simile vada in onda sulle frequenze pubbliche, poi, molto abbiamo già detto e molto avremmo ancora da dire. Ci limitiamo, stavolta, a invitare semplicemente il telespettatore a evitare tale dileggio del mezzo televisivo e della propria intelligenza. C'è di meglio in tv, credeteci. Soprattutto nell'epoca del digitale e del satellite, scappare dal “monnezzaio” è possibile. Finché il reality va, lasciamolo andare. Ma noi stiamo seduti lì, sull'argine del fiume. Prima o poi il suo cadavere passerà, ne siamo certi.

lunedì 8 marzo 2010

E agli Oscar trionfano donne e normalità

Ffwebmagazine
8 marzo 2010

In Italia era l’8 marzo già da sei ore. E qualcosa vorrà pur dire. Tra i fasti del Kodak Theatre di Los Angeles, si è svolta l’82esima cerimonia degli Oscar. E ha trionfato, l’avrete capito, una donna. Kathryn Bigelow, prima esponente del “gentil sesso” nella storia a vincere la statuetta di miglior regista, ha visto il suo The Hurt Locker battere la corazzata Avatar con sei Academy Awards contro tre. Non sarà contento l’ex marito James Cameron, sconfitto sonoramente e a sorpresa, dopo le mille aspettative create dal film che ha incassato di più nella storia del cinema.  L’8 marzo, insomma, che a volte sembra una festa maschilista anzichenò, almeno nella settima arte quest’anno assume un certo innegabile valore. 

Non solo per la Bigelow, tra l’altro. Durante lo show hollywoodiano, infatti, un’altra donna ha catalizzato l’attenzione dei più. Non stiamo parlando di Meryl Streep, inossidabile attrice di razza giunta alla sua sedicesima nomination (record assoluto); né della sorprendente Sandra Bullock, che dopo una vita di filmetti romantici da botteghino ha vinto un Oscar tra lo stupore generale. La donna in questione ha un nome strano, da ghetto, mica da Beverly Hills. È Gabourey Sidibe, attrice esordiente afroamericana del film rivelazione di quest’anno di celluloide: Precious.  Gabourey ha 26 anni, è nata a Brooklyn da un tassista senegalese e da una cantante di gospel. Gabourey è fortemente sovrappeso e interpreta una teenager americana oversize, picchiata e derisa dalla madre,  e che resta incinta due volte per gli abusi del padre. 

Una storia forte, un cazzotto nello stomaco che in un colpo solo ci ricorda due cose che non dovremmo mai dimenticare: quanto è difficile essere donna nel 2010, anche nel paese più ricco e democratico del mondo, e quanto il nostro aspetto fisico condizioni non solo la nostra vita sociale ma anche quella dentro le mura di casa, soprattutto se attorno a noi c’è povertà e ignoranza. Faceva tenerezza, Gabourey, seduta accanto alle star dello showbiz a stelle e strisce. E non era seduta su una normale poltrona del Kodak Theatre. Nossignore, non ci entrava. Eppure, nonostante la stazza, la giovane newyorkese ha conquistato più applausi e inquadrature che tutte le sue longilinee colleghe messe insieme. Non per pietà, né per politically correctness. Semplicemente perché è stata brava e ha recitato da Dio all’esordio assoluto sul set. Il merito, questo sconosciuto alle nostre latitudini, forse negli States ha ancora un senso.  

E poco male se l’Oscar non è arrivato. Gabourey era contenta lo stesso, rideva e piangeva, incredula a ogni citazione che la riguardava, scioccata quando la dea degli afroamericani Oprah Winfrey ne ha tessuto le lodi dal palco. 

Che 8 marzo per il cinema! Niente mimosa polverosa e allergogena regalata da qualche maschietto che si vuole lavare la coscienza. Le donne di Hollywood hanno festeggiato a modo loro. Hanno sbancato l’Academy a suon di capolavori e interpretazioni da urlo. Al messaggio panteista e tutto flower power di James Cameron, è stata preferita la vita di tutti i giorni. La storia sporca e incazzata di una ragazza del ghetto, le vicende eroiche e allo stesso tempo umanissime dei soldati in Iraq della Bigelow, persino la musica country di Jeff Bridges in Crazy Heart

Sono stati gli Oscar della normalità, della lotta quotidiana per sopravvivere. Poco conta se tra le dune irachene o tra i vicoli dei ghetti. Pare non ci sia spazio, nell’America in crisi economica e di identità, dei voli pindarici su Pandora e dei megapuffi buoni e da salvare. C’è da salvare prima la pellaccia di ciascuno di noi, altro che Pandora. E le donne, come sempre, ci sono arrivate per prime. Chapeau.

sabato 6 marzo 2010

Ma nella tempesta politica la Polverini tiene la barra dritta

Ffwebmagazine
6 marzo 2010

Il decreto interpretativo è stato firmato dal presidente della Repubblica. Bene, o forse no. Ma una cosa è sicura: ora, sentenze sorprendenti a parte, sappiamo che a fine marzo andremo alle urne per scegliere chi governerà le nostre regioni.

Dovrebbe finire, o almeno attenuarsi, la martellante cagnara degli ultimi giorni. In una situazione politica già inquinata da livori e muro contro muro controproducenti, il pasticciaccio brutto del Tribunale di Roma aveva messo il carico da undici. Un errore imperdonabile dettato forse dalla convinzione di essere al di sopra delle regole, una reazione pelosa e ipocrita da parte di chi voleva vincere facile, proposte di rimedi peggiori dei guai, strumentalizzazioni a destra e a manca. Ora basta, per favore.
Il nostro paese ha dannatamente bisogno di politica. Quella vera però, che parla di programmi, proposte, idee. Quella anche un po’ dura e spigolosa, perché in campagna elettorale è inevitabile e addirittura salutare. Quella che Milioni, l’uomo più famoso d’Italia questa settimana, aveva cercato involontariamente di mettere in ombra.

E dire che questa campagna elettorale era partita bene, o almeno meno peggio del solito. Nel Lazio, ad esempio, la competizione tra Polverini e Bonino aveva portato qualità, era una  boccata di aria pura nelle paludi malsane di una certa politica del dire, e non del fare come da più parti vogliono farci credere. Poi il tracollo delle liste e persino la Bonino, che comunque la si pensi è l’alternativa di centrosinistra meno indigesta in questo momento, si era fatta avviluppare di nuovo dalle spire del vittimismo radicale. Quell’atteggiamento nevrotico, per intenderci, che riesce a far aver torto a Pannella e compagni anche quando hanno ragione da vendere. Annullare subito le elezioni: questa l’insensata richiesta di via di Torre Argentina, come se il voto fosse uno strumento di lotta politica e non il momento più alto dell’espressione della volontà dei cittadini.

Anche nel centrodestra, onestamente, qualche segno di delirio c’è stato. Negare l’erroraccio marchiano, ad esempio, è stata la cosa più desolante di tutti questi giorni. Invece di cospargersi il capo di cenere e andare carponi fino al Divino Amore a chiedere la grazia, qualche esponente del Pdl ha mostrato all’opinione pubblica un vittimismo arrogante che non stava né in cielo né in terra. Stesso comportamento, ma a ragionamento capovolto, quello tenuto da Antonio Di Pietro. «Bisognerebbe fermarli (il Pdl alla ricerca di una soluzione politica al pasticcio, ndr) con le Forze Armate»: ennesima prova di un’irresponsabilità politica e istituzionale che giocoforza spinge il leader dell’Idv sempre di più ai margini della politica sana. Il Pd, poi, aveva scelto il low profile fino all’ultimo. Ed era quasi riuscito, incredibilmente, a non dire sciocchezze. Peccato, però, che proprio alla fine Bersani si era lanciato in uno scomposto attacco al centrodestra non sul metodo, si badi bene, ma sul merito. Dimostrando, in questo modo, che il segretario del Pd avrebbe davvero preferito vincere facile, con un solo giocatore in campo.

Nel marasma generale, molto simile al momento in cui il Titanic colava a picco, il comportamento più sensato è stato quello di Renata Polverini. Composta, mai sopra le righe, la candidata del Pdl nel Lazio ha affrontato il tutto con un savoir faire istituzionale che rincuora. Niente urla né contumelie. Anzi, l’ex leader dell’Ugl ha cantato sotto la pioggia, dando prova anche di autoironia e coraggio, la propria voglia di continuare la sua campagna elettorale. Il diritto ad esserci come stella polare, dunque, a dispetto delle incompetenze di alcuni suoi compagni di partito e del livore di qualche frangia del centrosinistra che si sente furba senza esserlo.

Nella tempesta della politica, tra firme false e bolli mancanti, panini e radicali sdraiati, cancellieri confusi e politici nel panico, Renata Polverini ha tenuto la barra dritta. Con uno stile che è tutto suo, che sta già facendo scuola e che a volte fa a cazzotti con il modus operandi dei politici politicanti di centrodestra e centrosinistra. Segno, questo, che qualcosa può cambiare. Che qualcosa, anzi, sta già cambiando.

venerdì 5 marzo 2010

Anche La Padania si è accorta che esiste la generazione Balotelli

Ffwebmagazine
5 marzo 2010
Siamo veramente contenti, e lo diciamo con la massima serietà e senza alcuna ironia, che La Padania abbia finalmente “sdoganato” Mario Balotelli. Il talento del giovane bresciano, ovviamente, non aveva bisogno di benedizioni nordiche. È sotto gli occhi di tutti e tutti, Lippi incluso, lo sanno bene.

Ma il lungo articolo pubblicato oggi dal quotidiano della Lega Nord (che caldeggia con decisione la presenza del calciatore interista ai mondiali sudafricani) segna uno spartiacque importante nell'atteggiamento usato dai leghisti nei confronti di quella generazione Balotelli, multietnica, colorata, nuova, che rappresenta l'ossatura sulla quale si fonderà l'Italia di domani. Rosario Pastore, nel suo articolo, scrive una cosa all'apparenza banale ma che suona rivoluzionaria, almeno in certi ambienti: Ogbonna, Okaka e Balotelli (tre giovani talenti dell'under 21 di Casiraghi)  «sono italiani a tutti gli effetti. Sono nati nel nostro paese, qui hanno studiato, qui hanno imparato i primi rudimenti del calcio. Da decenni, dappertutto, certi pregiudizi sono stati superati. Basti vedere come sono composte le rappresentative nazionali a livello mondiale, in Inghilterra, in Francia, in Germania».

Già, è proprio così. E il ritardo con cui ce ne siamo accorti è tanto, forse troppo. Non è mai troppo tardi, però, per prendere atto di un cambiamento così importante nel tessuto sociale e culturale di una nazione. E fa piacere davvero, ribadiamo, che La Padania abbia voluto sposare con convinzione apprezzabile una battaglia che prima che sportiva è culturale. Certo, potremmo parlare per ore delle scelte tecniche di Marcello Lippi, della sua scarsa inclinazione a sperimentare. Ma non è questo il nocciolo della questione. Stiamo parlando del futuro di una nazione, non solo di una nazionale. E La Padania lo dice a chiare lettere, fin dal catenaccio sotto il titolo: “il ragazzo sembra proprio il calciatore del (nostro) futuro”. Esatto, è esattamente questo. È il simbolo di una nuova generazione, il frontman di un cambiamento epocale. Noi lo diciamo da tempo, forse anche con troppa insistenza. Ma evidentemente ne è valsa la pena, se il messaggio, come sembra, è passato anche attraverso le maglie più strette e all'apparenza inaccessibili.

Già dopo i fatti di via Padova, le parole di Maroni («Vanno espulsi i clandestini, ma non si risolve un problema come via Padova con i blitz e le camionette. La soluzione non è lo Stato di polizia») e Bossi («I rastrellamenti? Lasciamoli stare») erano state chiarissime, assolutamente immuni da ogni interpretazione o strumentalizzazione.

Oggi, il buon senso del giornale leghista è un passo avanti ulteriore verso la costruzione di una nuova Italia. Anzi, diremo di più: verso la constatazione che una nuova Italia, piena zeppa di Balotelli da Sondrio a Canicattì, esiste già. Bisogna solo prenderne atto. Gli immigrati di seconda generazione, quelli nati sul suolo italiano, di straniero ed esotico hanno davvero solo il cognome. È ormai normale, grazie al cielo, sentire un ragazzo di colore parlare in dialetto stretto. In un paese come il nostro, che non ha avuto un passato coloniale del livello di Francia o Inghilterra, una cosa del genere era semplicemente impensabile fino a pochi anni fa. Eppure la storia corre veloce e se ne infischia delle comode abitudini dei popoli. “L'Italia a chi la ama”, per alcuni, è uno slogan privo di senso. Invece è, oseremmo dire “deve” essere, una guida per il nostro futuro.

Qualche tempo fa, dopo i soliti fischi beceri e i cori vergognosi contro Balotelli, avevamo detto che considerarlo un compatriota non è buonismo, ma semplice realtà. Da oggi, accanto a noi, c'è anche La Padania. Forse loro non gradiranno, ma un po' di cuore finiano batte anche dalle parti di via Bellerio.

giovedì 4 marzo 2010

Salvate SuperMario dalle grinfie di Corona

Ffwebmagazine
4 marzo 2010
Fabrizio Corona ha colpito ancora. E ora attenta alle virtù di uno dei simboli della nuova Italia, troppo spesso bistrattato e sfruttato da mass media e mondo del calcio. È Mario Balotelli, frontman di una generazione che è il presente, ma ancora di più il futuro, del nostro paese. Quell’Italia multietnica, ricca di colori e sfumature, piena di genio e sregolatezza. Giovane, soprattutto, e quindi vitale fino all’eccesso, che ogni tanto fa qualche sbaglio, vivaddio.

Ebbene, la notizia è la seguente: Novella 2000 racconta di un’amicizia “per la pelle” tra Balotelli e il re dei paparazzi, simbolo di un’Italia opposta, pecoreccia, pruriginosa e disonesta, di quel “tirare a campare” che non può rappresentare la base per il paese di domani. Questo strano connubio può stupire i più. Ma se lo si analizza attentamente, così strano non è. Affatto.

Era già successo che il fidanzato di Belen Rodriguez (ormai è noto quasi esclusivamente per questo motivo), approfittasse delle difficoltà di personaggi estrosi per farsi pubblicità. L’aveva fatto, e tanto basti per comprendere appieno la caratura morale del personaggio, anche con Azouz Marzouk, il tunisino noto ai più perché marito e padre di due delle vittime del massacro di Erba. Dopo la strage e prima dell‘arresto di Rosa Bazzi e Olindo Romano, i giornali avevano additato il nordafricano come l’indiziato numero uno. Perché? Ovvio: perché extracomunitario. E allora Marzouk si era rifugiato in quell’ambientino niente male capeggiato all’epoca dal duo Corona-Lele Mora. Una “Milano stracafonal” che aveva travolto in poco tempo il già poco stinco di santo Marzouk.

Ora Corona ci riprova con Balotelli. Guarda caso le foto che ritraggono i due amici “per la pelle” spuntano proprio adesso, mentre Balotelli è al centro del dibattito tra chi lo vorrebbe ai mondiali (noi, ad esempio) e chi no (tra cui il ct Lippi, purtroppo).

A Balotelli, che non ha ancora compiuto 20 anni, non possiamo rinfacciare quest’amicizia. Anzi, bisogna difenderlo da Corona, staccarlo dalle grinfie del maneggione ipertatuato che lo userà, ne siamo certi, per farsi pubblicità.

E la colpa di un’eventuale liaison dangereuse (per SuperMario) è dei media italiani e di quello che rappresentano, quella massa informe che definiamo opinione pubblica. Se Balotelli non fosse fischiato una domenica sì e l’altra pure in ogni stadio d’Italia (“Non ci sono neri italiani”, urlano sguaiatamente i barbari e ignoranti ultras di mezza Italia); se i media non lo sfruculiassero ponendo l’accento sempre sui suoi (pochi) eccessi e quasi mai sui suoi (tantissimi) talenti; se lo stesso mondo del calcio lo considerasse per quello che è, cioè un campione in erba dalle potenzialità enormi; ebbene, se tutto questo non accadesse, forse Mario Balotelli, che è italiano e punto (a proposito, ieri ha vinto la nostra under 21 “multietnica”…), senza bisogno di ribadirlo, vivrebbe tranquillamente da giovane calciatore. Tra macchinoni e veline, presumibilmente, perché questo pare l’andazzo generale, ma senza frequentazioni che poco hanno a che fare con il suo mondo e con quello che questo ragazzo rappresenta.

Difendiamolo, insomma, questo benedetto Balotelli. Smettiamola tutti di usarlo e sfruttarlo. È un patrimonio, non solo calcistico, che ci rappresenterà sempre di più nei prossimi anni. A meno che, e sarebbe solo colpa nostra, Corona non ci metta la zampino. E lì sarebbero dolori. Per tutti. Come sempre.

mercoledì 3 marzo 2010

La principessa Sissi e il feuilleton alla vaccinara

Ffwebmagazine
3 marzo 2010
Due ore nel terrore che Cristiana Capotondi a un certo punto sbotti con un “Two gust is megl che one” o, peggio, “Luke Perry mi ti farei. Ad Aspen mi ti farò”. Questa la terribile sensazione che attanaglia lo spettatore di Sissi, nuova superfiction targata Rai sulla vita dell'imperatrice d'Austria. Sarà stato anche uno stupido pregiudizio per un'attrice figlia dei cinepanettoni e degli spot televisivi, però questo è stato, e il nostro giudizio non può non tenerne conto. La Capotondi, in fondo, è cresciuta molto professionalmente e in alcune commedie degli ultimi anni ha dimostrato un certo mestiere. Altra cosa, però, è cimentarsi con uno dei personaggi mitici della storia del cinema, già reso immortale da Romy Schneider negli anni Cinquanta.

Sissi, principessa bavarese e sposa di Francesco Giuseppe d'Asburgo, mal si concilia con la pur sopita “romanità” dell'attrice protagonista. E questo è un altro fatto incontrovertibile, che trasforma il tutto in un “feuilleton alla vaccinara” che fa venire i brividi. Ma il problema principale della fiction non è l'interpretazione della Capotondi. La sceneggiatura è carente, persino ridicola per una vicenda storica complessa come quella di Sissi. Quello che viene fuori è un misto tra Aladdin di Disney, una delle tante commediole su principi annoiati e democratici e una soap opera. Come Jasmine, principessa di Agrabah nel cartone disneyano, anche Sissi si camuffa da persona qualunque e va in giro per mercatini e piazze, con l'intento di “guardare negli occhi il popolo”. E poi, come se non bastasse, l'immancabile scontro con la suocera cattiva, tipo matrigna di Biancaneve.

E che dire di David Rott, giovane interprete dell'Imperatore d'Austria? Troppo ingessato, rigido, per nulla regale. Belloccio, ovviamente, come si confa ai tempi televisivi che stiamo vivendo. La perizia recitativa è un optional, per nulla indispensabile. Le banalizzazioni storiche, poi, gridano vendetta. Le vicende del Risorgimento italiano, ad esempio, sono trattate con superficialità disarmante. E proprio quando manca un anno all'anniversario dell'Unità d'Italia, si dedica una fiction a chi quell'Unità l'ha contrastata con guerre sanguinose e fratricide.

Ma torniamo alla televisione, senza impelagarci in interpretazioni storico-politiche che non ci competono. Sissi è una fiction noiosa, vecchia, stantia nella sceneggiatura e nella regia. Limita i danni, per quanto possibile, il megabudget che ha permesso di girare le scene in luoghi magnifici e molto evocativi, a cominciare dal castello di Schönbrunn, dove le vicende di Sissi e Francesco Giuseppe si svolsero davvero.
Nonostante tutto, però, lo sceneggiato ha raccolto più di sette milioni di telespettatori. C'era da attenderselo, innanzitutto perché il personaggio di Sissi ancora oggi occupa un ruolo fondamentale nell'immaginario collettivo delle masse, con il suo alone da Lady Diana ante litteram, anticonformista quanto basta e bastian contrario all'interno della mummificata corte viennese. E poi, motivo per nulla secondario, perché in un periodo confuso e “caciarone” come quello che l'Italia sta attraversando, le favole acquistano ancora maggiore appeal. C'è voglia di principi e principesse, di carrozze e balli, di case reali e feuilleton ottocenteschi. Ci si accontenta di poco, dunque, per scappare dalla grigia quotidianità del Ventunesimo secolo. Ogni fase storica, poi, ha la Sissi che si merita. Per i nostri padri e i nostri nonni c'era la splendida Romy Schneider, a noi è toccata la Capotondi. O tempora o mores.

martedì 2 marzo 2010

Lippi e l'Italia gerontocratica. Non è solo una questione di calcio...

Ffwebmagazine
2 marzo 2010

Dopo che Marcello Lippi ci ha fatto sapere, ieri, che Mario Balotelli deve ancora “maturare” prima di essere convocato in nazionale, si spiegano davvero molte cose. Ad esempio si spiega la partecipazione come guest star del commissario tecnico della nostra nazionale all’avventura sanremese di Emanuele Filiberto e Pupo. C’è del vecchio nel nostro ct, una mentalità che fa a cazzotti con i tempi che galoppano e travolgono le resistenze stantie di una conservazione cieca e controproducente.

E, come se non bastasse, mentre chiude le porte a uno dei talenti più puri del calcio italiano in crisi degli ultimi anni, Lippi supplica Alessandro Nesta perché torni a vestire la maglia azzurra: 34 anni, 78 presenze in nazionale, 3 Europei e 3 Mondiali giocati.

Con tutto il rispetto per il difensore del Milan, che senso ha inseguire un difensore non più giovanissimo e lasciare a casa dei talenti puri che porterebbe fantasia e spettacolo sul campo da gioco?

Balotelli Mario, classe 1990, genio e sregolatezza come non se ne vedevano da tempo negli stadi italiani, dovrà dunque guardare i mondiali  da casa. Poco male, avrà altre occasioni senza dubbio alcuno. Però bisognerebbe spiegare al ct Lippi che la storia della maturazione non regge ed è una scusa bella e buona, una giustificazione all’innegabile voglia di conservazione che ha contraddistinto la seconda esperienza in azzurro dell’allenatore di Viareggio. Vicente Feola, ad esempio, è un nome che non dice molto ai più. Eppure, da allenatore del Brasile, porto ai mondiali di Svezia del 1958 un certo Pelé, diciassette anni, classe allo stato puro, genio e sregolatezza anche lui. Alla faccia della maturazione, il fuoriclasse brasiliano segnò sei gol e trascinò i verdeoro al trionfo finale contro lo squadrone svedese del GreNoLi (Gren, Nordhal, Liedholm). E anche un certo Diego Armando Maradona, a 22 anni furoreggiava sui prati spagnoli nel Mundial che vinse l’Italia di Bearzot.

L’età, dunque, è una scusa che non regge mai. Che si parli di calcio, di cultura, di politica. Insomma, sembra che Lippi (e in questo si rivela perfetto campione dell’Italia di oggi, gerontocratica e rannicchiata su se stessa) abbia un’avversione atavica nei confronti dei giocatori giovani, e per questo estrosi, magari un po’ sopra le righe, ma talentuosi anzichenò. Vedere alla voce Cassano, per intenderci.

Gianfranco Fini, che ai giovani della generazione Balotelli ha dedicato un libro intero, proprio ieri ha messo in guardia le nuove generazioni da chi dice “Largo ai giovani” e poi li relega ai margini della società (“Sono i veri soggetti deboli della società odierna”, ha detto il presidente della Camera). Marcello Lippi, alfiere di una coerenza che sa tanto di ancien regime, fa ancora di più: quella frase così abusata nemmeno la pronuncia. Si ostina, piuttosto, a rincorrere vecchie glorie che in nazionale non ci vogliono tornare e ignora bellamente i pochi talenti puri che il calcio italiano in crisi ci sta regalando.

Liberissimo di compiere le proprie scelte, sia chiaro. È il suo mestiere e si assume le sue responsabilità. Liberissimi anche noi, però, di dire che così – magari senza rendersene conto - esprime una cultura che fa male all’Italia. E non parliamo solo della Nazionale di calcio…