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sabato 16 luglio 2011

"No alle Sante Alleanze, la vera alternativa è il Pd"


FareitaliaMag
15 luglio 2011

intervista a Nicola Latorre

Riuscire a strappare consensi e stima dalla parte politica avversa non è certo compito semplice, soprattutto in Italia. Eppure Nicola Latorre, cinquantacinquenne senatore del Pd, con un passato da dalemiano di ferro, è uno dei pochi che c'è riuscito. Pacato, dialogante, acuto e capace di fare autocritica: ecco cosa apprezzano di lui gli avversari. Anche in quest'intervista ha dimostrato le sue doti migliori, anche se quando c'è da “cantarle” come si deve al governo, alla maggioranza o a chi (anche dentro il Partito democratico) vorrebbe farci tornare al proporzionale, Latorre non ha peli sulla lingua. Nessuno spazio per Sante Alleanze antiberlusconiane da Vendola a Fini, nessun "papa straniero", sì al dialogo con un nuovo centrodestra capace di realizzare le riforme. E su un punto il senatore democratico non transige: il candidato premier del Pd è Pierluigi Bersani.

Cominciamo dall'attualità più stringente. L'Italia sta vivendo giorni difficili, stretta com'è tra speculazioni finanziarie e rischi di default. Come giudica la manovra presentata dal governo? E cosa è pronta a fare l'opposizione per evitare un tracollo finanziario?
Il nostro giudizio sulla manovra resta profondamente negativo. Nonostante il ministro Tremonti si sia detto disponibile ad accogliere alcuni dei nostri emendamenti, penso a quello sulle pensioni o a quello sulla trasparenza degli appalti pubblici, l'impianto della manovra continua a essere radicalmente sbagliato. Non c'è risanamento senza crescita: con i tagli lineari di questi anni non si è ridotta la spesa corrente e si è bloccato lo sviluppo anche perché nessuna delle riforme necessarie è stata approvata. L'Italia ha bisogno di riforme strutturali, in primis quella del fisco e del mercato del lavoro. Naturalmente per attuare le riforme di cui necessita il Paese, che saranno dure e anche impopolari, serve un governo con un largo consenso che l'esecutivo in carica non ha più.

Sembra che il Partito democratico non sia riuscito a capitalizzare nel migliore dei modi la vittoria alle ultime amministrative. È sempre la solita storia della litigiosità interna o stavolta i problemi vengono dagli alleati Vendola e Di Pietro?
Vorrei sgombrare il campo da una leggenda che si è affermata in questi mesi, secondo cui a un tracollo della maggioranza non corrisponde un'opposizione credibile in grado di porsi come alternativa di Governo. I milioni di italiani che sono andati a votare per tre volte nello stesso mese, prima per il primo turno delle amministrative, poi per i ballottaggi e poi per i referendum, hanno espresso un voto premiando proprio l'alternativa al governo Berlusconi. Il Partito Democratico, con il lavoro che ha svolto in questo anno il segretario Bersani, è il perno di questa alternativa.

Le divisioni tra i democratici sono recentemente esplose sulla questione della legge elettorale e sui due referendum contrapposti. Lei che sistema elettorale preferisce? E qual è la linea ufficiale del suo partito?
Noi abbiamo sempre preferito un sistema elettorale maggioritario a doppio turno. Nella prossima direzione del 19 luglio approveremo una proposta di riforma sulla quale sviluppare in Parlamento e nel Paese la nostra iniziativa politica. Sarò di una vecchia scuola ma rimango dell'idea che le leggi elettorali si cambiano in Parlamento e non attraverso un referendum. La consultazione referendaria può essere un utile strumento di pressione nei confronti del Parlamento, ma le diverse proposte referendarie di cui si parla rischiano di rappresentare solo un'occasione di rottura all'interno del partito. Nel merito considero profondamente sbagliato il referendum Passigli. Il Mattarellum è certamente preferibile rispetto al sistema attuale ma non la consideriamo la soluzione migliore.

Le voci di una possibile Santa Alleanza contro Berlusconi che vada da Vendola a Fini stanno riprendendo corpo negli ultimi giorni. Crede sia un'ipotesi verosimile per le prossime elezioni? E soprattutto: crede che, anche vincendo, una coalizione simile possa vincere la scommessa della governabilità?
Non ho mai creduto alle Sante Alleanze, tanto più dopo la fallimentare esperienza politica dell'Unione. Il progetto di Fini è quello di costruire un nuovo centrodestra e per questo non mi pare all'ordine del giorno la sua partecipazione a un'alleanza con il centrosinistra. Con una nuova destra certamente sarebbe più agevole trovare una intesa per condividere in Parlamento quelle riforme istituzionali di cui ha bisogno l'Italia. Ma questa è cosa ben diversa da una alleanza di Governo.

Veltroni contro D'Alema, D'Alema contro Veltroni. Sembra un mantra infinito che si ripete da quindici anni. Come si può superare questo dualismo che sembra penalizzare un partito che dovrebbe avere il vento in poppa e invece si trova alle prese con i problemi di sempre?
Il dualismo tra D'Alema e Veltroni è roba d'altri tempi e francamente non è materia che mi appassiona. Comunque per ogni ulteriore notizia è il caso di rivolgersi agli interessati.

Anche il centrodestra pare voglia intraprendere la via delle primarie. Il Pd ha maturato una certa esperienza sul tema (anche a proprie spese): cosa si aspetta dalle primarie del centrodestra? Dia un consiglio ai suoi colleghi della maggioranza.
Innanzitutto registro che qualcosa si muove anche nel centrodestra. Per la prima volta in vent'anni il partito fondato da Berlusconi ha un segretario. Ma temo che di strada debbano farne ancora parecchia: Alfano è stato eletto per acclamazione, è nulla rispetto ai diversi milioni di italiani coinvolti dalle primarie del Pd che hanno eletto Pierluigi Bersani. Non basta annunciare di voler fare le primarie per diventare di colpo un partito moderno. Tra l'altro consiglierei al PdL di fare un briefing prima di rilasciare dichiarazioni sulle primarie: fino ad ora per ogni dirigente che le ha chieste, ce ne è stato uno che le ha bocciate.

Pd e questione morale, altro argomento che ogni tanto rifà capolino nell'attualità politica. È un problema reale? Cosa fa il Pd per combattere eventuali “inquinamenti” interni?
Non esiste alcuna questione morale nel Pd. Certo è sempre doloroso constatare che qualche iscritto ha commesso illeciti a nome del partito. Ma non prendiamo lezioni da nessuno: quando qualcuno dei nostri amministratori è stato coinvolto in un'inchiesta giudiziaria non ha esitato a dare le sue dimissioni. Spetta poi alla magistratura, a cui noi rinnoviamo come sempre la nostra stima e la nostra piena fiducia, accertare le eventuali responsabilità.

Il bipolarismo è davvero in crisi o ce lo vuole far credere chi spera di tornare a un quadro più frammentato e “proporzionale”?
Dal bipolarismo non si arretra. Questa è l'unica certezza che deve guidarci nel percorso di ricostruzione del dopo Berlusconi. Semmai abbiamo avuto modo di valutare che il nostro bipolarismo non si fonda sul bipartitismo. A destra il ruolo della Lega, nel centrosinistra quello dell'Idv e di SEL, al centro la formazione del Terzo Polo, dimostrano che è impossibile ipotizzare un bipartitismo italiano. In ogni caso guai a tornare indietro, a quando gli elettori non potevano scegliere la coalizione di governo e tutto si decideva alle loro spalle.

Il candidato del centrosinistra alle prossime politiche sarà Pierluigi Bersani? Può escludere già adesso l'arrivo del tanto agognato “papa straniero”?
Da una crisi di sistema come questa si esce solo con la forza della politica. Siamo nel pieno del tramonto del berlusconismo e i colpi di coda non sono finiti. Credo, dunque, che se l'impianto politico culturale che si è affermato in questi sedici anni sta iniziando a crollare, l'unica risposta alla crisi profonda che sta vivendo il paese intero, è la politica. Nessun papa straniero. Nessun governo tecnico. Nessuna strategia politica concordata all'interno dei palazzi. Noi chiediamo elezioni subito. E il nostro candidato premier è Pierluigi Bersani, che ha guidato il partito in un momento particolarmente difficile, rafforzandone il progetto. E proprio con Bersani vogliamo affrontare le elezioni primarie del centrosinistra per poi ridare al Paese una speranza di futuro che il governo Berlusconi ha portato via. 

giovedì 14 luglio 2011

Quella legge non andava fatta

FareitaliaMag
13 luglio 2011

Qualche anno fa, mentre l'Italia era spaccata sui quesiti referendari riguardanti le modalità di procreazione assistita, gli strenui difensori della legge 40 ripetevano pedissequamente lo stesso mantra: “Sulla vita non si vota”. Ancora adesso abbiamo qualche dubbio sulla validità di quella posizione, ma saremmo molto curiosi di sapere cosa pensano oggi le stesse persone sulla legge che è stata approvata ieri dal Parlamento e regolerà il testamento biologico. “Sulla vita non si vota” varrà anche per Montecitorio?
La legge licenziata dalla Camera dei Deputati fissa i paletti entro i quali sarà possibile dichiarare anticipatamente il trattamento desiderato in caso di grave malattia e/o stato vegetativo. Ma è innegabile che le norme contengono più paletti che reali chance di scelta di cura e trattamento. Eppure la Costituzione italiana parla chiaro: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Articolo 32, comma 2 della Carta fondamentale della nostra Repubblica. Sul merito della questione, dunque, si potrebbero dire tante, troppe cose.
Il punto centrale della questione, però, è un'altro: era davvero necessario legiferare su un tema così delicato e spinoso? Era davvero inevitabile che il Parlamento si esprimesse ufficialmente con una norma che giocoforza è figlia di una interpretazione di parte ma che coinvolgerà tutti gli italiani?
No, secondo noi non era il caso di intervenire a gamba tesa tra le maglie intricatissime di uno degli argomenti più intimi e personali che possano esistere. Le posizioni sono differentissime, tra i banchi di Montecitorio, e tutte lecite, proprio perché il testamento biologico ha poco a che vedere con la disciplina di partito. Ha poco a che vedere con la politica in generale, e soprattutto con le decisioni di una parte (qualsiasi essa sia) che vincoleranno un'intera nazione.
Evidentemente le lezioni dolorose e traumatiche di Welby ed Englaro non sono servite a nulla. Evidentemente la lotta infinita tra pasdaran di questa o quell'altra fazione continua a ingabbiare il buonsenso e spinge i partiti a legiferare su tutto, persino sulla morte. Lo Stato etico e pesante non ci è mai piaciuto, liberali come siamo. E ancora meno ci piace lo Stato che vuole davvero accompagnarci, come nella migliore (o peggiore?) tradizione, dalla culla alla bara.
Non è questione di merito, o almeno non solo. Ma innanzitutto di metodo e modo. Sulla vita non si vota? E comincino a dare il buon esempio i partiti. Almeno su questo.

mercoledì 13 luglio 2011

E' sempre il solito Pd: D'Alema contro Veltroni

FareitaliaMag
12 luglio 2011

Niente, non c’è niente da fare. Il Pd proprio non ce la fa a sfruttare le occasioni migliori, quelle che in un quindicennio capitano due o tre volte. Con Berlusconi sconfitto alle amministrative e ai referendum e il vento che pare sia cambiato, il Partito democratico (insieme ai suoi alleati) è riuscito nell’ardua impresa di non sferrare il colpo decisivo. La litigiosità del centrosinistra italiano è cosa nota e ha origini antiche (chiedere a Romano Prodi), ma stavolta l’occasione era troppo ghiotta per essere sprecata così miseramente.
E invece ci sono riusciti. Chapeau. A cominciare dal partito più grande dell’opposizione, che pare vivacchiare stancamente grazie a una tregua (quanto solida?) tra dalemiani e veltroniani (faida ininterrotta da quindici anni), incapace dell’acuto che trasformerebbe un discreto tenore in una stella immortale della lirica. Niente, rien, nothing, nada: quel do di petto non riesce a venire fuori. E anche se il timido Bersani avesse voglia di cimentarsi nell’impresa, ci penserebbero i solerti alleati a strozzare la nota in gola all’ispiratore (o emulatore?) di Maurizio Crozza. Nichi Vendola e Antonio Di Pietro sono stati i veri trionfatori delle ultime amministrative e ora vogliono passare all’incasso, l’un contro l’altro armati in una disfida tutta da seguire per la conquista della golden share del centrosinistra. La strategia del governatore della Puglia è chiarissima da tempo: affabulare più possibile gli italiani bisognosi di “sogni” e giocare la carte del plebiscito popolare nelle primarie per la scelta del candidato premier. Nichi è maestro di comunicazione e sa bene che contro questo Pd mogio e scialbo la sua verve comunicativa ha partita facile. Forse non pensava, però, di dover far i conti anche con il nuovo Antonio Di Pietro, neofita del moderatismo che sembra voler abbandonare l’antiberlusconismo senza se e senza ma per sfondare al centro (o a destra?).  I battibecchi via stampa tra i due non si contano più dalle amministrative a oggi, e a farne le spese, manco a dirlo, è proprio il Pd.
I democratici, poi, non hanno molto tempo da dedicare alla guerra tra il poeta e contadini, presi come sono da mille spaccature interne che rischiano di mandare a ramengo il sogno della riscossa su Berlusconi e il centrodestra. Ultimo casus belli in ordine di tempo è il referendum sulla legge elettorale, presentato da Parisi, Veltroni e Castagnetti (pare con il malcelato avallo di Rosy Bindi) e che vorrebbe tornare al mattarellum in vigore fino al 2006 (75% dei seggi da assegnare con collegi uninominali e il 25% con la quota proporzionale). Una proposta ben accolta anche da Sel e Idv. Idea vincente del Pd, dunque? Nemmeno per sogno. Basti pensare che il nemico numero uno del referendum in questione è Stefano Passigli, altro democratico che ne ha depositato in Cassazione uno opposto: quello sul ritorno al proporzionale puro. E Bersani, cioè D’Alema, che ne pensa? La risposta del segretario è netta e non ammette discussioni:  «Le leggi elettorali si fanno in Parlamento e la nostra proposta è buona e giusta. Chiedo a tutto il gruppo dirigente del Pd di stare su questa posizione». Peccato che dall’altra parte non hanno la minima intenzione di indietreggiare.
L’ennesima sfida all’Ok Corral tra Veltroni e D’Alema sembra essere iniziata. Noi abbiamo già i pop corn pronti.

venerdì 8 luglio 2011

Strauss-Kahn presto scagionato? I giustizialisti faranno finta di nulla


FareitaliaMag
7 luglio 2011

I sette capi d'accusa potrebbero cadere già prima del processo fissato per il 18 luglio. E allora sì che Dominique Strauss-Kahn avrebbe tutto il diritto di stappare lo champagne (la moglie lo ha già fatto qualche giorno fa dopo la scarcerazione). Sì, perché il terribile caso del potentissimo stupratore di cameriere d'albergo, che aveva sbattuto il principale candidato all'Eliseo in prima pagina come il mostro crudele da dare in pasto all'emotiva istintività della pubblica opinione, si sta sgonfiando in maniera altrettanto rapida e vorticosa.
Non ripercorreremo i fatti, per due semplici motivi: lo hanno fatto in tanti e soprattutto perché di fatti certi, acclarati e provati in tutta questa vicenda ce ne sono davvero pochi. Quello che resterà, dopo il probabile proscioglimento di DSK, è però un retrogusto amare che sa di giacobinismo manettaro tipico di certa stampa vorace e di certa politica interessata. Gli ingredienti c’erano tutti: il potente di turno (a capo del Fondo monetario internazionale e a un passo dalla candidatura socialista alle presidenziali del prossimo anno), una inclinazione innegabile e a volte incontrollata nei confronti del sesso femminile, mille chiacchiere circolate negli anni scorsi.
Sia chiaro, Dominique Strauss-Kahn non è certo un esempio di rigore morale o uomo dai saldi valori familiari e monogami. Ma nel pasticciaccio newyorkese tutto ciò c’entra davvero poco. C’è chi parla di complotto, ovviamente. E di solito il complottismo in noi non trova terreno fertile. Ma forse di “trappolone” si può e si deve parlare. Non è dato sapere a che livello sarebbe stato concepito o chi sarebbe il deux ex machina. Forse avversari politici, forse semplicemente la cameriera in questione, convinta di poter monetizzare uno scandalo del genere.
Ma nemmeno di questo vogliamo parlare, anche perché l’ultima parola non è stata ancora detta dalla giustizia americana (che stavolta non ha fatto una bellissima figura). Quello che ci interessa è la totale mancanza di approccio garantista alla vicenda. Appena le legittime accuse sono state mosse a monsieur Strauss-Kahn, è stato tutto un fiorire di condanne preventive, di dichiarazioni al vetriolo in ogni angolo del mondo. E nel frattempo il posto del socialista Strauss-Kahn al Fondo monetario internazionale è stato preso dalla sarkozyana Vivien Lagarde, una delle più indignate dopo l’arresto del suo predecessore.
Fiumi di inchiostro sono stati versati contro l’ennesimo porco maschio e maschilista che ha stuprato una donna indifesa, per giunta africana e povera. Un quadretto perfetto per i forcaioli di ogni paese, buttatisi sulla preda come un branco di voracissimi piranha.
Ora, premesso che Strauss-Kahn non è un asceta tibetano o un monaco certosino, qualora venisse prosciolto definitivamente come potrà vedere risarciti i danni incalcolabili alla sua immagine e alla sua carriera? Le donne della commissione europea si cospargeranno il capo di cenere e chiederanno scusa per la reazione smodata nei giorni dell’arresto?  Chiederanno anche scusa a Juncker, che chiedeva solo di attendere l’esito delle indagini prima di lanciarsi in linciaggi mediatici ed evidentemente strumentali? Nulla di tutto questo succederà, ne siamo certi. Lo sappiamo bene perché siamo abituati al giustizialismo italiano, campione di condanne preventive e di scuse mai arrivate dopo assoluzioni clamorose. Probabilmente ne saprà qualcosa a breve anche Amanda Knox, che secondo le ultime indagini potrebbe (e sottolineiamo potrebbe, perché noi di verità assolute non ne abbiamo) anche non essere quell’assassina fredda e spietata che hanno raccontato i media negli ultimi anni.
Il caso Strauss-Kahn, insomma, se da un lato ci indigna come garantisti (quale che sia l’esito delle indagini), dall’altro ci fa capire ancora una volta che tutto il mondo è paese. Siamo abituati a manettari senza vergogna di destra e di sinistra, che giudicano il processo come una semplice ratifica delle loro intuizioni giacobine, e vedere che l’intero pianeta soffre di questa orribile malattia ci regala qualche attimo di sollievo, prima di farci ripiombare nello scoramento e in quella desolante solitudine dei garantisti che è propria del nostro tempo.

martedì 5 luglio 2011

Una domenica di guerriglia contro la modernità


FareitaliaMag
4 luglio 2011

Che paese strano, l'Italia. Dove lo trovate un altro paese che dedica una domenica d'estate alla guerriglia per dire no al progresso, alla costruzione di una linea ferroviaria moderna che ci collegherebbe degnamente al resto dell'Europa? Da nessuna parte, diciamocelo. Siamo un paese bislacco, pronto a dividersi tra guelfi e ghibellini anche su temi che all'apparenza sembrano pacificamente condivisibili.
Le contraddizioni si sprecano, nella vergognosa vicenda dei No Tav. Innanzitutto c'è l'incredibile niet degli ambientalisti che, dopo decenni di predicozzi sulla necessità di diminuire il traffico su gomma a favore di quello su rotaia, ora dicono no alla rotaia perché la montagna non può essere perforata. Dio solo sa perché.
Poi ci sono i partiti politici più radicali (da Sel ai grillini) che cavalcano con una faccia di bronzo degna di miglior causa l'onda lunga del populismo un tanto al chilo, figlio anche delle recenti elezioni amministrative. Incredibile la posizione di Beppe Grillo, che ha definito “eroi” i quattro sfaccendati che hanno provocato disordini e violenze. Come un Masaniello da quattro soldi, il comico genovese ha così arringato la folla: «State facendo una rivoluzione straordinaria, siete tutti eroi, le campane suonano per tutta l'Italia che ci sta guardando attraverso la rete». Detto questo, il cantore dell' “armiamoci e partite” è fuggito dai lacrimogeni e le randellate le ha lasciate agli altri, agli “eroi”.
E il bollettino di “guerra”, alla fine della domenica di follia, è da scenari libanesi: 188 agenti di polizia feriti, forse altrettanti tra i manifestanti. Questo l'eroico responso di una eroica domenica vissuta stupidamente.
I partiti politici, per fortuna, hanno mostrato buonsenso. A parte qualche lupo solitario che, anche a destra, su facebook si è mostrato ondivago per strizzare l'occhiolino alle armate tastierate intrise di proclami vuoti e voglia di conservazione ottusa.
Sarebbe bello poter parlare di Tav, poter analizzare nel merito i pro (tantissimi) e i contro (inesistenti) di un progetto irrinunciabile senza il quale saremmo ancora di più fuori dall'Europa che conta. Le forze responsabili del paese, dunque, parlino insieme alla gente. Spieghino l'ovvio, perché in questo strano paese anche l'ovvio va spiegato, ahinoi. Spieghino che la Tav è un progetto vitale per il futuro di questo paese. Spieghino che la violenza non ha mai risolto nulla, e l'Italia lo sa bene, purtroppo. Spieghino ai valligiani della Val di Susa che Grillo parla per convenienze personali, per voglia di visibilità mediatica. Spieghino che l'alta velocità è ecosostenibile, economicamente vantaggiosa e utile al progresso italiano. Spieghino tutto ciò, facciano fronte comune contro il populismo demagogico. Plachino gli animi di chi non capisce (o non vuole capire) e dimostrino, almeno una volta, che esiste una classe dirigente capace di reggere le sfide della modernità.  

domenica 3 luglio 2011

Siamo tutti gossippari


FareitaliaMag
2 luglio 2011

Gioacchino Rossini, che era uomo di mondo mica da ridere, lo aveva capito prima di molti altri e l'aria “La calunnia è un venticello” potrebbe essere usata come inno universale del gossip. Un fenomeno che è ben più vasto e importante di quanto abbiamo finto di credere fino a poco tempo fa. Non è questione di rotocalchi da parrucchiere, né di pettegolezzi di infimo livello fatti girare da una portiera troppo impicciona. Il gossip, forse più che il denaro o il sesso, fa girare il mondo. Soprattutto il mondo che conta. Quel “bel mondo” che, una volta squarciato il velo dell'ipocrisia e dell'intoccabilità, ha mostrato di aver ben poco di bello. Ma niente predicozzi moralisti, per carità. Ognuno fa della sua vita privata ciò che vuole e l'unico confine, quello sì intoccabile, è il codice penale.
E allora, a chi importano i gusti sessuali di George Clooney o le scappatelle di questo o quel calciatore? A chi frega qualcosa della vita privata di ministri e teste coronate, divi della tv e campioni dell'alta finanza? A tutti, ammettiamolo, perché farsi i cazzi propri, si sa, è di una noia mortale.
E allora ecco che si spiegano le vendite record dei magazine pettegoli, ecco che si capisce appieno il successo di programmi televisivi che non abbiamo problemi a definire “spazzatura” (visto che lo sono eccome) ma che ci permettono di farci i fatti altrui, di guardare dal buco della serratura, di rendere umani, troppo umani, quei divi abbronzatissimi e straricchi che ci fanno diventare verdi di invidia.
Qualcuno ha detto, mutuando una frase di Karl Marx e adattandola allo Zeitgeist odierno, che “il gossip è l'oppio dei popoli”. Sarà, ma in questa visione radical chic del pettegolezzo avvertiamo soltanto molta puzza sotto il naso da parte di quegli stessi salotti che di gossip (seppure engagé e upper class) si alimentano e si sostentano. Prima della sciura che legge “Chi” mentre attende il proprio turno dalla “pettinatrice”, infatti, ci sono i salotti buoni, le carriere distrutte o promosse con una semplice voce di corridoio. E il gossip è ovunque, non solo in tv o sui campi di calcio di Seria A. Il gossip ormai è politica e la politica è gossip. Prendiamo un governo a caso, a prescindere dal colore politico: ebbene, di questo governo conoscete più i pettegolezzi sui suoi componenti o il contenuto di una manovra economica? Tutto è gossip, e speriamo che il gossip non sia tutto. Perché ci può e ci deve essere dell'altro.
Ma a chi vi dice che “No, io quella robaccia non l'ho mai letta”, non credete mai. Perché anche solo una volta nella vita lo abbiamo fatto tutti, vivaddio. Alzi la mano chi non ha mai sfogliato Novella 2000, Chi, o peggio Vero, Stop, Cronaca Vera e chi più ne ha più ne metta. Lo abbiamo fatto tutti e sarebbe il momento di far cadere ogni ipocrisia.
Da qui a esaltare questo fenomeno figlio dei tempi, però, ce ne passa. E allora tentiamo un approccio laico, asettico, o almeno scevro da qualsiasi forma di pelosissima superiorità. E a chi criticherà, rigorosamente alle nostre spalle, la scelta di dedicare questo numero al gossip, nemmeno risponderemo. Mica vorrete che ci mettiamo a rispondere a dei bassi e volgari pettegolezzi, vero?

sabato 2 luglio 2011

Michele Santoro e la sindrome di Calimero


FareitaliaMag
1 luglio 2011

Lo abbiamo difeso quando volevano azzittirlo. Lo abbiamo elogiato quando, con “Raiperunanotte”, ha inferto un colpo mortale alla tv generalista. Lo abbiamo esortato quando, concluso il suo rapporto con la Rai, sembrava vicino a La7.
Ma ora, Michele Santoro, facciamo davvero fatica a capirlo. La trattativa con la rete Telecom è naufragata, non si capisce bene perché, e il giornalista salernitano è tornato sul piede di guerra attaccando tutto e tutti, recuperando l'argomento (validissimo, per carità, ma forse fuori luogo in questo caso) del conflitto di interessi. E poi, dopo aver litigato anche con La7, ha assicurato che Annozero si farà in autunno, senza alcun dubbio. Ma come? Su che rete?
Santoro è un grande giornalista. E ne è talmente consapevole che a volte si fa trascinare da un ego palesemente ingombrante, rischiando di dar ragione a chi lo considera “martire di professione”, “incapace di affrontare le sfide del mercato televisivo”, “bisognoso di un nemico interno per dare il meglio di sé”.
È un peccato che Santoro non riesca a smettere i panni di Calimero per concentrarsi solo su quello che sa fare meglio: giornalismo scomodo, a volte fazioso, ma sempre di ottima qualità. E ora qualcuno già dice che l'intenzione del conduttore di Annozero è tornare in Rai a furor di popolo, dopo che il contratto era stato rescisso consensualmente e con una lauta buonuscita.
Che l'azienda di viale Mazzini stia sbagliando tutto è cosa nota. Il fuggi fuggi di queste settimane è la prova più evidentemente di uno stato confusionale che fa il male di quella che viene considerata (a torto) la più grande azienda culturale del paese. Ma Santoro aveva l'occasione di dare una risposta proprio a quella Rai che non lo aveva apprezzato e che, anzi, spesso aveva tentato indecentemente di mettergli i bastoni tra le ruote.
E invece no. Il Nostro ha preferito replicare un copione già visto fin troppe volte. Dopo lo scellerato “editto bulgaro”, Santoro aveva giustamente creato attorno a sé l'aura dell'epurato per motivi politici ed era riuscito a raccogliere la solidarietà anche di chi notoriamente non la pensa come lui.
Oggi, però, all'ennesimo replay anche nei confronti di La7 e Telecom Italia Media, comincia a venirci il dubbio che ci goda proprio a fare la vittima e che forse non ha tutti i torti chi lo accusa di non saper stare sul mercato.
Mentre attendiamo di essere smentiti (ci farebbe molto piacere vedere un Santoro libero e a briglia sciolta su La7), assistiamo impotenti all'ennesimo teatrino politico-televisivo, la solita pièce tragicomica in cui tutti i protagonisti fanno la figura degli idioti. Anche noi telespettatori, purtroppo.

lunedì 27 giugno 2011

Musica balorda e maledetta. Ecco la guida Rockriminal


ilfattoqtuotidiano.it
26 giugno 2011

Alzi la mano chi conosce i Gorgoroth o le Rockbitch. Forse nessuno, ma poco male. Musicalmente, a parte per i patiti del genere gothic c’è poco da dire. Ma assistere a uno dei loro concerti, quella sì che era una esperienza indimenticabile. Teschi (forse umani, forse no) appoggiati su villosi pubi femminili, donne nude crocifisse, sesso orale saffico degno di un film porno di quart’ordine. E poi droga, autolesionismo, problemi psichici e qualche morte misteriosa. È il rock, bellezza. E in questo caso è anche rock mischiato all’estremismo politico di destra nell’Europa settentrionale e orientale. Roba che riesce a influenzare periodicamente qualche teenager schizzato che, armi in pugno, fa irruzione in un liceo e massacra qualche coetaneo.

Ma è rock di basso livello, almeno per il grande pubblico. E il connubio tra musica dura (e non) e devianza di qualsiasi genere arriva ai massimi livelli delle chart internazionali di tutti i tempi. Di vite distrutte tra palchi, droghe, psicofarmaci ne possiamo elencare a iosa. Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, David Bowie, e potremmo continuare all’infinito.

Il caso più paradigmatico, che unisce tutta la forza della musica e la debolezza dell’uomo è quello di Syd Vicious, frontman dei Sex Pistols e irregolare simbolo del punk che sconvolse il mondo e la Londra benpensante, sapientemente e cinicamente manovrato da quel genio senza scrupoli del marketing che è stato Malcom McLaren. Sid era un disadattato. Sid era un tossico. Sid era un fottuto e stonatissimo genio della musica. Sid era un assassino. E la vittima non era una persona qualsiasi ma la sua Nancy, la donna che forse amava e che con lui condivideva nottate di stordimento eroinomani e crisi d’astinenza colme di vomito , bava alla bocca e sudori freddi. Accoltellata nel bagno di una camera del Chelsea Hotel (luogo maledetto anzichenò), Nancy Spungen era l’angelo nero di una coppia maledetta e perduta nel vortice dell’eccesso. Un eccesso figlio del disagio, non del vizio di una star capricciosa. Sid era figlio di una tossicodipendente, la stessa madre snaturata che poco tempo dopo il rilascio su cauzione diede a Sid una dose evidentemente tagliata male. L’ultima dose di una vita bruciata troppo in fretta. Ventidue anni, un omicidio, tanta droga, alcune pietre miliari della musica punk. Basta, nient’altro. La leggenda di Sid Vicious è tutta qui.

Ma il connubio tra musica e vita spericolata è antico e esplode soprattutto nell’epoca del flower power, del peace and love, nella summer of love californiana. Esplode a Woodstock nel 1969, ad esempio, e non è un caso se molta gente che ha calcato quel palco sia morta prematuramente. Come miss Janis Joplin, talento adamantino che si sentiva un cesso e cercava nella droga una sicurezza che non troverà mai, una pace che arriverà solo con la morte (ovviamente per overdose) a soli 27 anni. O Jimi Hendrix, chitarrista da Dio, tossico mica da ridere e noto erotomane dalle dimensioni falliche leggendarie, che nei suoi 28 anni di vita non si è negato davvero niente, a parte un po’ di felicità.

Ma gli anni Sessanta erano anche gli anni del “surf” disimpegnato, della musichetta californiana da spiaggia. E chi, meglio degli scanzonati Beach Boys, sono i simboli di quel periodo? Ebbene, nemmeno i fratelli Dennis e Brian Wilson, desengagés massimi in un’epoca di impegno, furono immuni dagli eccessi. Soprattutto Dennis, anche lui drogato ma soprattutto “amico” per un lungo periodo della Manson Family, il gruppo di pazzi invasati guidati dal guru svitato Charles Manson che pochi mesi dopo avrebbe fatto a pezzi Sharon Tate nella villa di Roman Polanski a Bel Air.

Su Beatles e Rolling Stones glissiamo, non fosse altro perché di inchiostro sulle loro imprese fuori dal palco se ne è parlato a sufficienza. Ma del Duca Bianco David Bowie no, non possiamo proprio tacere. Altro che Ziggy Stardust, il vero marziano era proprio lui. Efebico, ambiguo, gay o bisessuale o Dio solo sa chi, una volta arrivato al successo planetario aveva perso completamente la testa. Cocaina e disagio mentale, cocaina e disagio mentale, ad libitum, senza soluzione di continuità. Tant’è che recentemente ha raccontato di aver temuto più di una volta di morire, in quegli anni Settanta fatti di siringhe, sniffate e sesso sporco e sudaticcio. A vederlo oggi, col ciuffone mechato a coprire il viso segnato dall’età e dagli stravizi, fa quasi tenerezza. E invece David Bowie è stato il Signore del vizio per molti anni, fieramente convinto che proprio quel vizio produceva quei concept album meravigliosi dove i giovani disagiati dell’epoca trovavano una pur effimera via d’uscita.

Continuare nell’elenco dei miti della musica vissuti male o finiti peggio sarebbe un esercizio sterile e ripetitivo. Potremmo parlare di Jim Morrison, del malessere disperato di Kurt Cobain, della versione di plastica del cantante maledetto che ha nome Marilyn Manson, di altre morti misteriose, di omicidi, regolamenti di conti tra gang rap del Bronx o del Queens. Persino della morte misteriosissima e della vita poco edificante del re del pop Michael Jackson. Ma ci servirebbe davvero troppo spazio.

Ci ha pensato (riuscendoci peraltro molto bene) Sergio Gilles Lacavalla, che nel suo Rockcriminal (Coniglio editore) ha messo insieme una vera e propria enciclopedia del “rock balordo e maledetto”. Ci sono tutti, proprio tutti, anche gli sconosciutissimi metallari naziskin norvegesi che prima si scopavano tra loro e poi si uccidevano pure. Cinquecento pagine che sono una scarica di adrenalina, un viaggio nel tempo tra musica e droga, gloria e merda, siringhe e orgioni da capogiro. Si legge tutto d’un fiato e il dramma è che alla fine ti senti anche un po’ in colpa. Il perché è presto detto: quei balordi finiti male, vissuti come bestie e esempi non certo edificanti, ci mancano maledettamente. È il rock, bellezza

domenica 26 giugno 2011

Virus a chi?



FareitaliaMag
25 giugno 2011

Ha mille volti, il protagonista di questa settimana. Il suo nome, dalla radice sanscrita, o forse greca o latina, vuol dire comunque la stessa cosa: veleno. E non è un'esagerazione visto che stiamo parlando del virus. È nato per far male all'uomo, per debilitarlo e spesso ucciderlo. È un natural born killer, è spietato. Wikipedia ne dà una definizione tranchant, che rende bene la cattiva stampa di cui gode: “entità biologica elementare intracellulare parassita, agisce entrando nella cellula e prendendone il controllo. Dopo un periodo di tempo i virus che si sono formati nella cellula la distruggono ed escono fuori andando ad infettare il resto del corpo”. Che pessimismo ultracosmico, verrebbe da dire. Sì, perché in fondo il virus è molto più di questo e ridurlo soltanto a un guastafeste biologico che si pappa il nostro corpo è rendergli un pessimo servigio.
La parola, per traslato, è diventata sinonimo di contagio, spesso negativo, altre volte meno, o di contaminazione. Il vocabolario Treccani parla di “intensità quasi patologica di affetti, sentimenti, passioni, istinti irrefrenabili e dannosi”. Ecco, dunque, il virus della gelosia, quello del razzismo, del qualunquismo e di tutti gli -ismi che possiate immaginare. Qualsiasi cosa faccia male o dia fastidio, eccovi serviti: è un virus.
Bella forza prendersela sempre con il nostro venefico protagonista, il classico "alieno" che fa paura e fa irrigidire, che provoca reazioni scomposte solo perché non lo conosciamo. Noi siamo molto più morbidi nei suoi confronti. Questa nostra strana empatia con il “virus”, di qualsiasi tipo esso sia, ha origini antiche. Chi è cresciuto negli anni Ottanta conoscerà senza dubbio il cartone animato “Esplorando il corpo umano”. Per gli altri, sintetizziamo: il nostro corpo era stato trasformato in una sorta di città dove ognuno aveva un ruolo da svolgere. C'erano i grassocci e bonari globuli rossi che trasportavano emoglobina e ossigeno, o ancora gli anticorpi che intervenivano alacremente come un team di supereroi quando qualcosa non andava. E poi c'erano loro , i virus. Brutti, brufolosi, cattivissimi e puntualmente sconfitti. La nostra inguaribile tendenza a schierarci con chi perde ci aveva fregato di nuovo: virus, uno di noi. A cinque o sei anni, in effetti, non capivamo la differenza tra il fastidiosamente benefico globulo rosso e il cattivone virus e allora tifavamo per chi perdeva sempre. Un po' come con Silvestro, Will E. Coyote o Tom.
Crescendo abbiamo capito chi è il virus, e abbiamo imparato a starne alla larga, in qualsiasi campo della vita. D'inverno portiamo la sciarpa ed evitiamo luoghi affollati e promiscui per non incappare nel virus dell'influenza. Nel nostro computer è sempre in moto il provvidenziale “antivirus” che ci protegge da dialer, trojan, horse, worm, backdoor, spyware e chi più ne ha più metta (più il nome incute paura, più la Norton fa cassa). Nei rapporti interpersonali più intimi abbiamo diligentemente imparato a usare quelle che pudicamente si chiamano “precauzioni” per evitare qualche virus, quello sì, serio davvero, che potrebbe rovinarci la vita.
Siamo protetti, in tutto e per tutto, nei confronti del “nemico” che ci hanno insegnato a odiare. Ma a volte l'attenzione si trasforma in ossessiona e il virus che paventa il telegiornale della sera nemmeno esiste. Anzi sì: è il virus del virus. Un allarmismo spropositato che puntualmente ogni anno ci racconta di mucche pazze, uccelli influenzati, pecore guerce e Dio solo sa cosa. E al virus del virus (del virus del virus del virus, ad libitum) abbiamo dedicato gran parte di questo numero monografico. E mentre voi vi dannate l'anima per l'attuale virus da sbattere in prima pagina (il colpevole sarà il cetriolo o il germoglio di soia?), noi ce la ridiamo e, anzi, vi sfottiamo un po'. Non sottovalutando i virus veri, ma distinguendo con un minimo di buon senso tra ciò che fa male e basta e ciò che fa male perché così dicono.

sabato 18 giugno 2011

Se scoppia Barcellona...


FareitaliaMag
17 giugno 2011

Se, fino a qualche giorno fa, gli indignados madrileni affollavano Puerta del Sol per esprimere tutta la loro pacifica rabbia nei confronti dei politici spagnoli, a Barcellona l'esperimento era stato fallimentare. Pochi giorni di bivacco in Plaça Catalunya e poi basta, tende levate e tutti a casa, causando la delusione profonda dei ribellisti senza se e senza ma che proprio a Barcellona hanno creato il loro porto sicuro.
Mercoledì, però, qualcosa è successo anche nella capitale catalana: qualche migliaio di giovani ha assediato il Parlamento catalano, insultando e sputando addosso ai parlamentari che tentavano di forzare il blocco per prendere parte regolarmente alla seduta. I mossos d'esquarra (la polizia locale) hanno reagito in maniera dura e qualche manganellata ha esacerbato gli animi già incandescenti della gioventù ribelle barcellonese.
La situazione era diventata così critica che Artur Mas, presidente della Catalogna, è dovuto arrivare all'interno del Parlamento in elicottero, visto che via terra non c'era alcuna possibilità di passare.
La scintilla che ha innescato il tutto sono i tagli sociali, che proprio martedì si sarebbero dovuti discutere nell'ambito dell'approvazione della legge di bilancio. Anche la ricca Catalogna (un po' la Lombardia iberica) deve fare i conti con la crisi durissima che sta colpendo la Spagna e le misure drastiche sono necessarie per venirne fuori.
Ma di pura scusa si tratta, se è vero come è vero che la gioventù che ha messo radici a Barcellona è il massimo esempio dell'anticonformismo ribelle d'Europa. Il centro storico della città (Barrio Gotico, Raval, Born, La Ribera) è il cratere di un vulcano acceso stracolmo di magma incadescente, pronto a eruttare da un momento all'altro. Per capirlo basta fare una passeggiata da quelle parti: dalle case “alternative” dei giovani “alternativi” viene fuori una canzone di Manu Chao., guru dei “no global” di tutto il mondo che proprio a Barcellona gestisce una sorta di via di mezzo tra un pub e una comune. In queste zone la voglia di ribellione è incredibilmente diffusa. Altro che periferie parigine. Se scoppiasse una rivolta a Barcellona sarebbe il centro ad essere messo a ferro e fuoco, con tutto ciò che ne conseguirebbe.
Ha il suo bel da fare Artur Mas a invitare alla calma, ha condannare (giustamente) ogni episodio di violenza, a chiedere ai giovani di “lasciar lavorare la democrazia”. Di democrazia, quegli stessi giovani, non ne hanno vista molta. E non perché non ci fosse. Molto più semplicemente perché, nonostante vivano in una delle città più tolleranti e all'avanguardia d'Europa, hanno preferito chiudersi nella loro ridotta ai lati della Rambla per sognare un mondo utopico e irreale, privo di regole e leggi da rispettare, intriso della più stucchevole retorica pauperistica ed egualitaria.
Ecco perché non si possono prendere sottogamba gli scontri di pochi giorni fa. Barcellona non è Madrid. I manifestanti catalani non sono “indignati” ma incazzati furiosamente nei confronti di un sistema sociale, politico ed economico che non riescono ad accettare e che non vogliono solo migliorare o rendere più umano bensì distruggerlo completamente per fare spazio ai loro sogni hippy fuori tempo massimo.
Gli episodi di contestazione giovanile degli ultimi tempi vanno rispettati e compresi, a volte anche condivisi se necessario. Ma tra le sacrosante rivendicazioni di una generazione tradita e smarrita, precaria e senza futuro, e la volontà manifesta di buttare tutto in caciara e iniziare a menare le mani c'è una bella differenza. Tutta da cogliere, ovviamente, se vogliamo evitare altre Seattle, Goteborg o Genova.

mercoledì 15 giugno 2011

Se per rovesciare Berlusconi si danneggia il Paese

FareitaliaMag
14 giugno

Partiamo da un assunto di base: i risultati dei referendum sono troppo clamorosi perché si faccia finta di nulla. E allora è importante tentare di analizzarli nella maniera più asettica e distaccata possibile, cercando di separare le questioni importantissime sottoposte al voto degli italiani dalla più prosaica e incasinata quotidianità politica e istituzionale.
Una cosa è certa: per gli elettori si è trattato dell'ennesimo referendum contro Silvio Berlusconi, dopo le prime due “sberle” (la definizione è di Calderoli, non di Repubblica) dei due turni amministrativi. Poco male, perché una delle poche regole certe della politica dice che gli elettori hanno sempre ragione.
La complicazione, però, subentra quando un voto politico contro il governo pregiudica gli interessi basilari del Paese. Ed è esattamente quello che è successo lo scorso weekend. Per dare una “lezione” a Berlusconi e Bossi, al Pdl e alla Lega, gli italiani hanno rigettato con troppa disinvoltura una delle poche riforme liberali che questo governo aveva portato a termine. Stiamo parlando della liberalizzazione delle reti idriche, peraltro “imposta” anche dall'Unione europea e necessaria per migliorare il servizio ai cittadini. Ma il merito dei quesiti referendari lo abbiamo spiegato molto bene già nei giorni scorsi e non è il caso di tornarci.
Quello che ci preoccupa è l'atteggiamento irresponsabile di chi, pur di rovesciar il “tiranno”, è disposto anche a mandare a ramengo il poco che di buono è stato fatto, dimenticando posizioni precedenti, voti parlamentari e coerenza personale. Chi alla Camera e al Senato aveva votato convintamente per la liberalizzazione delle reti idriche e per il ritorno al nucleare, come spiega, oggi, un cambiamento così radicale dettato solo da piccoli interessi di bottega?
Questa è la domanda chiave, visto che il dietrofront di molte forze politiche (dal Pd a Futuro e libertà, passando per l'atteggiamento tiepido della Lega Nord) ha confuso (e ingannato) gli italiani. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: Berlusconi ha accusato il colpo ma l'Italia ha perso ancora una volta terreno nei confronti degli altri paesi europei.
Parigi varrà bene una messa, ma rovesciare Berlusconi vale una dannosa marcia indietro che ci allontana dallo sviluppo?

lunedì 13 giugno 2011

“Sculettamenti da comunisti”. L’Europride visto dalla stampa cattolica e di centrodestra

ilfattoquotidiano.it
12 giugno 2011

“Ahò, ma ce stanno pure i froci de destra?”. Se lo chiede un signore sulla sessantina che per caso ha incrociato il corteo dell’Europride all’altezza di via Cavour, vedendo passare la delegazione di Fli e GayLib con Flavia Perina e Enzo Raisi in testa. In risposta riceve solo una gomitata stizzita della moglie e qualche sorrisino divertito di alcuni partecipanti. La risposta, lapalissiana, è sì, ci sono anche loro.

Ma stamattina, a leggere i giornali cattolici o di centrodestra, sembrerebbe quasi che la parata dell’orgoglio omosessuale di ieri non sia stata altro che la solita carnevalata di comunisti. C’è chi preferisce minimizzare l’evento come Jacopo Granzotto sul Giornale, chi sceglie l’indignazione papista per gli “insulti” al Vaticano (Avvenire) o chi predilige uno stile più aggressivo, strumentalizzando senza vergogna la presenza di molti bambini alla manifestazione (Libero).

Granzotto inizia sminuendo il discorso di Lady Gaga dal palco, definito un “pistolotto”, banalizzando un messaggio che certo non sarà stato rivoluzionario ma che lanciato dalla più grande icona pop dei nostri giorni qualche effetto benefico può averlo comunque. Ovviamente nel mirino anche i finiani (“rossi dentro”) e i numeri dei partecipanti comunicati dall’organizzazione. Per il Giornale è stato “un flop, altro che carica dei 500mila. […] E fino alle 19 il circo Massimo rimane per pochi intimi”. Granzotto dimentica che fino alle 19 la gente stava sfilando per le vie della Capitale…

Molto più indignato il resoconto di Avvenire. Luca Liverani firma un articolo che già dal titolo fa capire l’andazzo: “Europride: applausi a Lady Gaga, insulti al Papa”. Anche qui si inizia sminuendo, proponendo di togliere uno zero ai 500mila partecipanti. Ma chi ieri c’è stato davvero e ha potuto constatare che di gente ce n’era eccome. Al giornalista di Avvenire non è piaciuto quello che definisce “il logoro corredo di trasgressioni da copione e sberleffi anticlericali” e nemmeno i “cartelli che rinnegano la tolleranza tanto invocata ed esibiscono un umorismo nero quantomeno discutibile, obiettivo fisso il Papa e la Chiesa”. La chiusura del pezzo è affidata alle considerazioni di Paola Ricci Sindoni, docente di filosofia morale dell’Università di Messina: “Pare abbiano il monopolio della differenza, solo loro sono discriminati e il mondo deve essere diviso in due: filo omosessuale o filo omofobo. L’irritazione cresce quando si lanciano offese gravi alla Chiesa. Chi vuole rispetto deve per primo dare rispetto”.

Più aggressiva, infine, è Brunella Bolloli su Libero. Le strumentalizzazioni partono fin dal primo rigo e i protagonisti sono i bambini: “I giocattoli sono out. Va di moda il palloncino a forma di fallo. E le piume di struzzo, le paillettes, il frustino. Bambine di 12 anni sul carro arcobaleno dei diritti gay, primi sculettamenti ingenui sulle note di Waka Waka. La mamma approva, il papà è con il fidanzato”. La Bolloli continua: “Passeggini fucsia e musica a palla. Tommaso, dieci mesi, forse vorrebbe farsi un sonno come tutti i bebé, ma nella baraonda dell’Europride e sotto la canicola romana non ce la fa. Tocca sfilare già da neonati. Con le drag queen e i trans tacco dodici a seno scoperto”. Evidentemente la Bolloli era alla sua prima partecipazione, visto che a detta di tutti gli abitués, quest’anno le “nudità” erano davvero ridotte all’osso (chi scrive ha visto solo un seno in mostra in più di sei ore di manifestazione).

Fin qui le polemiche della stampa cattolica e berlusconiana. Resta un dubbio: l’illustre docente di filosofia morale interpellata da Avvenire, quando parlava di “dare rispetto per ricevere rispetto” si rivolgeva all’Europride o al Vaticano?

venerdì 10 giugno 2011

Domani sera Corrado Guzzanti torna in Tv (su SkyUno) con “Aniene”

ilfattoquotidiano.it
9 giugno 2011

Corrado Guzzanti torna in tv venerdì 10 giugno, alle ore 21.10, su SkyUno con il suo nuovo show “Aniene”. Sul satellite, appunto, perché le antenne “terrestri” e generaliste preferiscono deliziare il loro pubblico con il Saturday Night Live (un inno sfacciato alla filosofia del bunga bunga che peraltro va in onda di mercoledi) o con gli show della coppia Pupo-Emanuele Filiberto.

E allora Guzzanti, che non è certo il tipo che vende l’anima al diavolo pur di apparire in video, si era preso nove anni di riposo catodico, spuntando qua e là solo nei programmi dell’amica Dandini o interpretando un personaggio cult nella serie Boris (sempre di Sky, tanto per cambiare). “Il caso Scafroglia” infatti è del 2002, ultimo ruggito in Rai di uno strano e meraviglioso animale da palcoscenico, timido nei propri panni e scatenato in quelli dei suoi personaggi.

L’attesa è stata lunga, è vero, ma a quanto pare ne è valsa la pena. Chi ha avuto modo di guardare le anticipazioni diffuse su internet è già in fibrillazione e si è rimessa in moto la macchina mai del tutto sopita dei tanti fan di Corrado Guzzanti. Niente format classici della comicità televisiva, promette l’attore, e un nuovo ritmo veloce, imposto dall’immediatezza della Rete, con pillole di satira e un montaggio curatissimo che dovrà tenere insieme i pezzi che godono di vita propria.

Un evento televisivo annunciato, dunque, che andrà a far compagnia a Vieni via con me e a Raiperunanotte nella particolarissima bacheca dei megaeventi in tv (o fuori da quella dei circuiti tradizionali) che hanno fatto arrabbiare non poco politici e dirigenti dei piani alti. Corrado Guzzanti, che non ha mai voluto interpretare il ruolo della vittima della censura e del sistema berlusconiano, avrà senza dubbio raccolto il materiale necessario per confezionare un prodotto comico degno delle sue migliori prove del passato. In fondo stanno ancora tutti lì, i protagonisti della vita politica italiana che già quindici anni fa il comico romano prendeva di mira. Tutti lì con i loro tic, i loro vizi e vizietti, le loro grottesche abitudini.

E forse anche loro saranno seduti in poltrona, venerdì sera. Perché in fondo sono così narcisi e poco consapevoli dei loro difettacci che non capiscono appieno quanto si diverta Guzzanti a prenderli per i fondelli, a mostrare agli italiani il vero volto (pur se estremizzato nel classico esercizio della satira) di una classe dirigente che può permettersi il lusso di tenere 9 anni Guzzanti fuori dalla tv, visto che a far ridere la gente ci riescono benissimo da soli.

giovedì 9 giugno 2011

Sabato al Pride, da destra


FareitaliaMag
8 giugno 2011

Tra tre giorni Roma ospiterà la più importante manifestazione continentale in difesa dei diritti delle persone omosessuali. L'Europride riempirà fino all'inverosimile le vie della Capitale e l'Italia provinciale, un po' omofoba e bigotta, a volte fastidiosamente intollerante, diventerà il centro dell'universo LGBT. Come si dice in questi casi? “Ogni manifestazione pubblica è segno di libertà e vitalità democratica”, e via cantando. Vero, verissimo. E la parata di sabato rappresenta un'occasione importante per la società italiana, che non può più chiudere gli occhi di fronte a una necessità di regolare diritti (e doveri) di migliaia di coppie figlie di un Dio minore.
La politica, innanzitutto, dovrebbe fare la sua parte. Perché nel 2011 è vergognoso e inconcepibile che il Parlamento non affronti una problematica di tale portata, che riguarda davvero qualche milione di persone (le stime della popolazione omosessuale in Italia variano tra il 5 e il 10%). Solo affrontarlo, per carità. Perché nessuno si aspetta una legge in tal senso da una legislatura come quella attuale. Sarebbe qualcosa di inimmaginabile, purtroppo. Ma un passetto in avanti, soprattutto a destra, ce lo aspettiamo eccome.
Nel centrodestra italiano, solo fino a pochi anni fa, l'argomento era un vero e proprio tabù. A destra non si doveva né poteva parlare di gay, di omoaffettività, di Pacs, unioni civili e men che meno di matrimonio “alla spagnola”. Ne è prova anche qualche avventata affermazione di alcuni leader politici di primissimo piano che oggi hanno finalmente capito quale deve essere l'approccio al problema ma solo dieci anni fa si lanciavano in tesi sgangherate al limite dell'omofobia più gretta. E invece, oggi si può parlare di omosessualità anche a destra, interrogandosi su quale debba essere l'istituto normativo che riconosca finalmente i sacrosanti diritti di due persone dello stesso sesso che si amano e decidono di condividere la loro esistenza. Anche perché l'Italia è rimasta uno degli ultimi paesi in Occidente a non prevedere alcun tipo di garanzia. Ci si può sposare in Spagna, Portogallo, Belgio, Olanda, Svezia e Norvegia, mentre esistono altre forme di riconoscimento delle unioni gay in Francia, Svizzera, Germania, Inghilterra, Austria, Irlanda, Finlandia, Danimarca, Repubblica Ceca, Slovenia e Ungheria. Manchiamo solo noi, insomma.
E se persino Marine Le Pen si è recentemente schierata a favore delle unioni gay, smentendo decenni di omofobia del Fronte Nazionale e usando l'argomento in chiave anti-islamica (in soldoni: “Noi siamo civili, rispettiamo le differenze e riconosciamo i diritti alle coppie gay”), l'anomalia italiana diventa sempre più preoccupante. Ecco, allora, che una parte della destra politica italiana comincia a interrogarsi e finalmente molti politici liberali o conservatori trovano il coraggio di dire pubblicamente che sì, le coppie gay devono avere un riconoscimento giuridico anche nel nostro paese. Fino a pochi mesi fa, la mosca bianca era Benedetto Della Vedova, che ogni anno sfidava i fischi della piazza ultraideologizzata per sfilare al Gay Pride, orgoglioso della sua appartenenza politica di centrodestra ma non per questo chiuso in steccati omofobici che non fanno onore alla grande famiglia liberalconservatrice e moderata di casa nostra. Dalla prossima legislatura, ne siamo certi, si potrà cominciare a parlarne, trovando un punto di contatto tra centrodestra e centrosinistra e uscendo a testa alta da una vergogna continentale che ci vede fuori dal consesso delle nazioni civili su questo tema.
E allora, nell'attesa che il futuro sia migliore di questo desolante presente, sabato andiamo in piazza, da destra, a reclamare diritti civili inalienabili. Lo dobbiamo non solo a chi lotta da decenni per queste elementari conquiste di civiltà, ma anche, e forse soprattutto, a quella nuova destra liberale che abbiamo in mente, che è diversa dai rigurgiti omofobi e intolleranti di certe frange estremiste o bigotte e che ha capito, finalmente, che i diritti degli individui non sono negoziabili e che soprattutto non sono in contrasto con i sacrosanti principi ispiratori della destra politica. Non si tratta di chiedere “matrimoni alla spagnola” o adozione. È un discorso che sta a monte, che concerne il rispetto e la tolleranza nei confronti dell'altro da noi. Solo quando avremo capito questo potremo iniziare a parlare di forme di regolamentazione normativa. È arrivato il momento di prendere posizioni in merito. Se non ora, quando?

mercoledì 8 giugno 2011

Lady Gaga sarà la star dell’Europride. Fenomenologia di miss Germanotta

ilfattoquotidiano.it
7 giugno 2011

La notizia è di quelle che mandano in iperventilazione i fan più accaniti e che creano grande curiosità anche tra chi ha gusti musicali ben diversi: Lady Gaga chiuderà l’Europride che si svolgerà sabato prossimo a Roma. E il merito, a quanto pare, non è di un impresario musicale ma addirittura dell’ambasciatore americano in Italia David Thorne. Su segnalazione del comitato promotore del Gay Pride europeo, infatti, il rappresentante statunitense non ci ha pensato due volte e ha scritto una lettera accorata di invito alla pop star più famosa del mondo, sensibilizzandola sulla piattaforma politica dell’evento e stuzzicando la sua già spiccata sensibilità nei confronti delle tematiche Lgbt. Ed ecco, allora, che la già affollatissima parata per i diritti omosessuali si trasformerà in un happening senza precedenti, con una partecipazione che rischia di diventare strabordante.

L’impegno per la tutela di ogni differenza, a partire da quelle sessuali, non è certo una novità per Stefani Joanne Angelina Germanotta. Born this way, uno degli ultimissimi successi della cantante, è infatti un manifesto orgoglioso di tolleranza e rispetto reciproco: “Non essere un peso, sii solo una regina, se sei povero, o ricco, nero, bianco, beige oppure di stirpe chola, libanese o orientale. Anche se la vita ti ha ferito, emarginato, maltrattato o preso in giro, gioisci di te stesso ed amati, perché sei nato così. Non importa se gay, etero o bisessuale, lesbica o transessuale, sono sulla strada giusta, sono nato per sopravvivere”.

Che la si consideri un fenomeno da baraccone costruito a tavolino o una cantautrice rivoluzionaria e talentuosa, una cosa è certa: Gaga è l’icona del mondo contemporaneo. Non tanto, o non solo, perché ha venduto 16milioni di copie del suo primo album. Non tanto, o non solo, perché ha soppiantato Madonna e disintegrato Britney Spears e Christina Aguilera. Non tanto, o non solo, perché qualsiasi respiro della giovane italo-americana diventa notizia di culto, tendenza, vangelo per milioni di fans in giro per il mondo. Semplicemente Lady Gaga interpreta al meglio lo zeitgeist di questo inizio di terzo millennio. È la profetessa dell’individualità, la capofila dell’hic et nunc, la Regina di milioni di little monsters (così chiama i suoi fans). Milioni di persone che prima di riconoscere in Lady Gaga la loro leader erano disadattati, ai margini della società giovanile dei nostri tempi per una serie di motivi diversi: omosessuali, freaks, nerd. Schiere di teenagers americani che nella scalata verso la gloria di miss Germanotta si sono riconosciuti, hanno trovato uno spiraglio per le loro strampalate aspettative. È l’american dream, ancora una volta, a fare da leitmotiv all’epopea pop di Lady Gaga. Lo racconta lei stessa, ogni volta che ne ha l’opportunità: “Ero una ragazza cattiva, una disadattata. Scappavo da casa, prendevo droghe, avevo relazioni con uomini molto più grandi di me”. Ora è la regina del pop mondiale e tenta di utilizzare la fama anche per aiutare i suoi innumerevoli fan.

Lady Gaga esempio positivo per i giovani d’oggi, dunque? Nì, o almeno andiamoci piano. È vero che il suo impegno per i diritti civili (soprattutto per il matrimonio omosessuale in America) è encomiabile e coraggioso. Ma è altrettanto vero che che Gaga è una perfetta macchina da soldi, che fa leva sulle istanze più sentite tra i suoi fans per vendere ancora più dischi e riempire gli stadi. La ragazza sembra sincera quando si batte per il same sex marriage, quando ne parla accoratamente con Barack Obama, quando interviene da consumato leader politico alle manifestazioni organizzate dalle associazioni LGBT a stelle e strisce. Ma da un istrione come lei ci si può aspettare di tutto: anche che si tratti semplicemente di una “paraculata” senza ritegno a scopo commerciale.

E intanto, mentre ci si chiede se c’è o ci fa, mentre osserviamo attoniti e a volte disgustati il suo stile sempre sopra le righe e di cattivo gusto, tipico di una certa subcultura italoamericana che potremmo definire come la versione impegnata degli ultratamarri di Jersey Shore, lei se ne infischia e va dritta per la sua strada. Macina milioni di dollari, di dischi e di chilometri. Ha creato una religione pop che ha milioni di adepti sparsi in ogni angolo del globo, provoca benpensanti e baciapile con videoclip sempre sull’orlo della blasfemia (Judas è l’ultimo esempio). Piaccia o meno, è il fenomeno di pop culture più dirompente dai tempi di Madonna e Michael Jackson. Piaccia o meno, moltissimi giovani si riconoscono nel suo stile sfacciato e fintamente politicamente scorretto (quando invece predica uguaglianza di diritti e amore universale). Lady Gaga è tutto questo, e molto altro. Capiremo con il tempo se si tratta di un geniale talento o di un bluff senza precedenti. Nel frattempo, e non possiamo davvero fare altrimenti, canticchiamo di nascosto le sue canzoni (perché i radical chic ci giudicherebbero troppo commerciali) e attendiamo di capire chi è davvero Stefani Joanne Angelina Germanotta, monarca di questo mondo dominato dal pensiero debole.

Terzo Polo in affanno sul referendum


FareitaliaMag
7 giugno 2011

Un Terzo Polo che si definisce europeo, moderno, liberale e riformatore può decidere di non decidere sui referendum su acqua e nucleare che si terranno domenica prossima? Se lo è chiesto, dalle pagine del Sole 24 Ore di domenica, Alessandro De Nicola, docente di business law alla Bocconi di Milano e presidente della Adam Smith Society. La risposta, ovviamente, è stata quella che qualsiasi osservatore realmente riformatore può dare: no, non può permettersi di non decidere.
E infatti, dopo il solito bailamme di dichiarazioni pre-voto, con una situazione confusa anziché no, il Terzo Polo ha finalmente deciso di esprimersi ufficialmente: due no sui servizi idrici, libertà di voto su nucleare e legittimo impedimento.
Decisione attesa e necessaria, anche per placare le polemiche relative a prese di posizione che potremmo quantomeno definire singolari. Paradigmatico è il caso di Futuro e Libertà. La normativa che liberalizza i servizi idrici porta la firma di un suo autorevole esponente (l'ex ministro Andrea Ronchi) e all'epoca del voto in Parlamento tutti i futuristi avevano espresso parere favorevole. A distanza di qualche anno, e dopo qualche baruffa di troppo all'interno del centrodestra, alcuni finiani sembrano aver cambiato radicalmente idea. Niente di male, per carità, se non fosse che il tutto sembra strumentale a un'operazione che è politica fino al midollo, senza reali cambiamenti di opinioni sui temi sottoposti a referendum. Se da un lato c'è chi come Benedetto Della Vedova, si schiera apertamente per i due no, dall'altro ci pensa il solito Granata con i sui quattro sì urlati ai quattro venti a confondere le già confuse opinioni dell'elettore moderato e liberale, che proprio in riforme come quelle in oggetto confida per una sterzata riformatrice nel nostro paese. E anche chi si schiera apertamente per il no ma invitando gli elettori a recarsi in massa alle urne, oggettivamente fa un regalo immenso agli abrogazionisti, alla spasmodica ricerca del fatidico quorum. Ma il punto, almeno dentro Fli, sembra essere più che altro l'affermarsi di un “liberi tutti” che spiazza e preoccupa. Ma soprattutto: se la linea ufficiale del Terzo Polo (e quindi anche di Fli) è "due no e due libertà di voto", pare più che lecita, all'interno della decisione di ieri, la posizione di chi si è schierato apertamente per i quattro no. Meno accettabile, perché si pone al di fuori della linea ufficiale decisa dalla coalizione, è chi fa campagna attiva e pressante per i quattro sì. I custodi gelosi dell'unità del partito dovrebbero prenderne atto e intervenire puntualmente.
L'Udc ha sempre avuto le idee più chiare sui quesiti (2 no sull'acqua, sì sul legittimo impedimento e libertà di voto sul nucleare) e solo sul nucleare fa un leggero passo indietro, senza dubbio dettato dagli allarmismi del dopo Fukushima che rischiano di spaventare l'elettorato. Api non pervenuta, ma sembra che sia contro il nucleare.
“Il terzo polo si è sciolto nel referendum”, titolava il Sole domenica. E in effetti, con questa situazione confusa, la conclusione non può essere che questa. Ci si aspettava di più, francamente, da chi aveva promesso di far proprie le istanze liberali e riformatrici di un'Italia bloccata, da chi aveva assunto pubblicamente l'impegno di compiere scelte anche dolorose per modernizzare un paese piegato su se stesso. E invece no, la decisione è arrivata in ritardo e con i contorni non certo ben definiti. E la cosa che stupisce maggiormente è che nemmeno chi è schierato sin dall'inizio con il no abbia solo lontanamente accarezzato l'idea di invitare l'elettorato all'astensione. Ipocrisie a parte, l'astensione è un'opzione da sempre quando si tratta di affrontare un referendum che richiede il quorum. Andare a votare vuol dire dare una mano ai promotori del referendum e quindi a chi vuole abrogare le norme in esame. Non andare a votare, oltre che essere una libera scelta di ognuno, vuol dire cercare di bloccare un rigurgito conservatore che vorrebbe tenere l'Italia ferma al palo, instillando nella gente paure prive di fondamento.
Il Terzo Polo, se fosse davvero liberale, europeo, moderno e riformatore, dovrebbe prenderne atto e difendere con ogni mezzo lecito (quindi anche attraverso l'invito all'astensione) alcune riforme fondamentali che non possono essere cancellate attraverso campagne referendarie approssimative e figlie di una demagogica e preoccupante ignoranza.

sabato 28 maggio 2011

Elenco di cose da spostare al Nord


FareitaliaMag
27 maggio 2011
Promemoria riservato uscito direttamente da via Bellerio:
- I ministeri, tutti, perché al Nord non si batte la fiacca e non si fa ogni trenta minuti la pausa caffè come a Roma.
- La presidenza della Repubblica, perché sopra il Po è pieno di palazzoni d’epoca che non sono mai stati utilizzati dall’Unità d’Italia ed è un vero peccato.
- La Rai, sostituendo il cavallo morente con una riproduzione in vetroresina 1:1 della mucca Carolina, gentilmente offerta dai produttori di latte. Hanno speso un bel po’ ma dopo aver risparmiato milioni di euro sulle quote latte qualcosa in cambio dovevano pur darla.
- Il Vaticano, perché il Papa è tedesco, mica tunisino, e ha bisogno di un clima più consono alle sue origini ultrapadane. E poi vuoi mettere l’Angelus in bergamasco?
- Lo Stadio Olimpico, perché San Siro sarà pure la Scala del calcio, ma non c’è la pista di atletica e bisogna organizzare le Olimpiadi delle nazioni inesistenti.
- Il Vesuvio, perché a Villa San Martino non c’è un vulcano artificiale come a Villa Certosa e durante la stagione invernale gli ospiti pretendono attrazioni esplosive.
- Il Maschio Angioino, perché la Lega ce l’ha duro e qualsiasi maschio deve stare in Padania. Ai terroni, rammolliti e femminielli, basta l’Isola delle Femmine.
- Gigi D’Alessio, perché, anche se è terrone, in coppia con Van de Sfroos riempirebbe le piazze e accontenterebbe anche i terroncelli che vivono qui e ci danno da vivere.
- L’università La Sapienza, perché Bicocca è un nome da “fru fru” e dobbiamo darci un tono, cribbio.
- La pizza e la pasta con la melanzana, perché a forza di mangiare cassoela e bagna cauda ci siamo giocati il fegato.

Nota bene: da aggiornare ad libitum (ah ecco, importiamo anche il latino che pare faccia figo!) secondo la fantasia di dirigenti e militanti. Ricordarsi di spiegare al Trota che il Duomo e la Laguna di Venezia stanno già al Nord!

venerdì 20 maggio 2011

Omofobia, vergogna nazionale

FareitaliaMag
19 maggio 2011

I miei maestri di giornalismo mi hanno insegnato che in un articolo “l'attacco” è tutto. E allora scriviamolo subito, in modo da non generare dubbi di alcun genere: la decisione del Pdl di bocciare in commissione la proposta di legge Concia contro l'omofobia è una vergogna nazionale. Sì, perché in quella proposta, già frutto di un compromesso al ribasso proprio per non ledere la spiccata sensibilità di qualcuno, non c'era e non c'è l'intenzione di trattare gli omosessuali come i panda del Sichuan, di preservarli aprioristicamente contro tutto e tutti. C'era, e c'è, soltanto il sacrosanto adeguamento normativo a livello europeo su un tema che in Italia è ancora scioccamente visto come un tabù. I gay, in questo paese, sembra che non debbano avere nessun diritto. Nemmeno quello elementare a non essere insultati e derisi o, peggio, malmenati e uccisi per il loro orientamento sessuale. Questo era, ed è, la proposta Concia.
Tutto il resto, le polemiche, i distinguo, le posizioni ipocritamente più papiste del Papa, sono soltanto strumentalizzazioni politiche che in nome di una non meglio precisata divergenza sul metodo della questione rischia di affossare una delle poche leggi di cui andare realmente orgogliosi in questo disgraziato paese.
Il Popolo della libertà, ancora una volta, ha dimostrato sul tema una fortissima e radicata ignoranza. Quando si parla di gay, soprattutto in campagna elettorale, c'è chi sbianca in volto e comincia a fare no con la testa, come se fosse un'eresia, una bestemmia, difendere i diritti di milioni di cittadini italiani che chiedono soltanto di essere trattati come tutti gli altri, senza privilegi ma nemmeno marchi dell'infamia.
Conoscendo l'appassionata caparbietà di Paola Concia e la necessità, che oseremmo definire “storica”, di legiferare in materia, siamo sicuri che in Aula verrà data battaglia e non ci si limiterà ad accettare con rassegnazione l'ennesima dimostrazione di intolleranza della nostra classe dirigente. Ci ha pensato il ministro Mara Carfagna, per fortuna, a riportare un minimo di dignità all'interno del più grande partito della maggioranza, dichiarando il suo voto favorevole, in aula, alla proposta del Pd. E proprio la parabola del ministro delle Pari Opportunità è paradigmatica per comprendere che sull'omofobia si può (si deve) cambiare idea. La Carfagna ha più volte pubblicamente ammesso di aver superato negli ultimi tempi alcuni pregiudizi nei confronti degli omosessuali che erano frutto di una scarsa conoscenza dell'argomento. E l'impegno massimo che l'esponente del Pdl sta profondendo in questa battaglia lo dimostra.
Ma Mara Carfagna sa cosa sono i pregiudizi, sa cosa vuol dire essere giudicati solo per l'etichetta che ti è stata appioppata da gente ignorante e intollerante. Molti suoi colleghi uomini del Pdl, invece, di etichette aprioristiche e di gabbie mentali hanno fatto una bandiera del loro agire politico. Che facciamo, dunque? Ci rassegniamo ad un'Italia omofoba dove gay, lesbiche e transessuali vengono trattati come appestati e messi ai margini della società? Nossignore, nemmeno per sogno. I settori più virtuosi di destra, centro e sinistra uniscano le forze per vincere una battaglia trasversale di civiltà. Quella stessa civiltà che sembra scappata a gambe levate dall'Italia degli estremismi di ogni sorta e che fatichiamo così tanto a far tornare.

mercoledì 18 maggio 2011

Un flop inevitabile che deve far riflettere


FareitaliaMag
17 maggio 2011

Diciamolo forte e chiaro: l'esperimento fasciocomunista fortemente voluto da Antonio Pennacchi e Fabio Granata a Latina si è rivelato un vero e proprio flop. Se la matematica non è un'opinione, l'1,05% dei consensi (831 voti) per il candidato sindaco Cosignani rappresenta un risultato disastroso, un segnale importante e da comprendere in una città storicamente di destra, dove Alleanza Nazionale raccoglieva molti consensi e dove c'era la possibilità di raggiungere un risultato di ben altro tipo. E invece no, si è preferito avventurarsi in una spericolata operazione che di “rivoluzionario” o “sperimentale” non aveva davvero nulla. Si è trattato, piuttosto, di una mossa suicida dettata da scarsissima capacità di visione politica e da un ancoraggio ostinato e perdente a valori e ideali che giustamente non hanno diritto di cittadinanza nell'Italia del 2011. Sì, perché anche se il mantra dei fasciocomunisti era “andare oltre le ideologie novecentesche”, il progetto presentato era totalmente figlio di quelle stesse ideologie. Un intruglio indigesto di posizioni di retroguardia che univano goffamente il peggior radicalismo populista di sinistra con qualche confuso rigurgito tardofascista, concepito male e presentato peggio.
Lo avevamo detto in tempi non sospetti, e qualcuno ci aveva accusato di non capire la “base”, di non voler seguire l'ineluttabile processo rivoluzionario di un partito che doveva essere la nuova destra liberale e che invece ha scelto una radicalizzazione delle posizioni che con il progetto originario di Futuro e Libertà nulla hanno a che spartire.
Potremmo agitare saccentemente il ditino, accompagnandolo con un legittimo “Ve lo avevamo detto”. Potremmo sogghignare di fronte a un risultato che non è una sconfitta ma una debacle, che non è una battuta d'arresto ma una bocciatura rotonda e totale di una proposta dissennata. Una bocciatura che, in un partito maturo e solido, dovrebbe far riflettere. Innanzitutto i capipopolo senza popolo o i guru senza adepti che si erano illusi di ottenere chissà quale risultato eclatante, capace persino di condizionare la linea nazionale di Fli. Sì, perché ora è troppo facile dire che si trattava di una provocazione culturale, quando fino a pochi giorni fa c'era chi parlava di “laboratorio”, di prove generali di progetti ben più ampi. Ebbene, l'elettorato di Latina ha detto no. E chi si sorprende o mostra delusione dimostra ancora una volta di non avere il polso della situazione del paese reale. La società italiana non è Facebook. La società italiana non è rappresentata da qualche decina di ammiratori acritici e dalle posizioni politiche un po' estreme e cieche, pronti a seguire pifferai magici di qualsivoglia specie fino alla vittoria finale della Rivoluzione. Lo devono capire coloro i quali hanno la piena responsabilità di questa mazzata tra capo e collo che chiude definitivamente la partita e stronca sul nascere i sogni politici dei Masaniello improvvisati.
Si torni a far politica vera, tra la gente. I rivoluzionari da tastiera, impegnati in una sorta di compulsione onanistica virtuale, convinti di rappresentare una fantomatica maggioritaria fetta di elettori di Fli e disposti a tutto pur di forzare il blocco e abbracciare derive dipietriste, manettare e populiste, si rassegnino. Futuro e Libertà, a Latina e in tutta Italia, deve essere la nuova destra liberale che non c'è e l'impegno di tutti deve andare in questa direzione, per rispetto nei confronti di chi ha creduto nel progetto. In caso contrario, qualcuno potrebbe pensare a mosse propagandistiche (fallimentari, peraltro) che in nome della ricerca ossessiva della visibilità mediatica sacrificano i sogni e l'entusiasmo di chi ingenuamente ci aveva creduto. I fasciocomunisti valgono l'1%, dunque, e se dicessimo che ci dispiace saremmo ipocriti. È il risultato che ci aspettavamo, è il risultato inevitabile di una spericolata manovra suicida. Meditate gente, meditate.

lunedì 16 maggio 2011

Eurofestival, il carrozzone trash premia un paese asiatico. E l’Italia è pronta a gufare

ilfattoquotidiano.it
15 maggio 2011

Sapete chi ha vinto l’Eurovision Song Contest, vale a dire il festival della canzone europea? Un paese asiatico, ovviamente, e più precisamente l’Azerbaijan. Stranezze di un carrozzone ultratrash che fa impazzire il continente e che finalmente ha imbarcato di nuovo l’Italia. Sì, perché quest’anno c’eravamo anche noi, con la Rai che ha deciso di rientrare nell’organizzazione di quello che una volta chiamavamo l’Eurofestival, 13 anni dopo la traumatica partecipazione dei Jalisse (piazzatisi addirittura al quarto posto). Visto che l’ultima presenza italiana era stata così scarsa, quest’anno abbiamo deciso di presentare una canzone raffinata (Follia d’amore di Raphael Gualazzi, trionfatore tra i giovani a Sanremo) per puntare alla qualità più che al risultato. Abbiamo fatto gli snob, convinti che ci saremmo piazzati a metà classifica, visto che il carrozzone ultratrash dell’Eurofestival premia canzoni appiattite al pop commerciale internazionale. E invece, sorpresa delle sorprese, Gualazzi è arrivato secondo, giusto dietro il duo azero.

Sulla vittoria del paese dell’Asia transcaucasica si sono scatenate polemiche feroci, a cominciare dal sito ufficiale della manifestazione. Centinaia di commenti velenosi e al limite del razzismo nei confronti di un trionfo per nulla annunciato e frutto, come ogni anno del resto, di scambi di voti tra paesi confinanti, di strane commistioni musicali e geopolitiche che trasformano puntualmente l’Eurovision Song Contest in una sorta di Risiko paillettato e kitsch. E allora il blocco ex sovietico si produce in un giro di valzer di votazioni di favore che ovviamente, visto che il voto della Georgia o dell’Armenia vale quanto quello di Italia o Germania, finisce per avvantaggiare i partecipanti di quell’area. La Grecia vota per Cipro, Cipro vota per la Grecia; il Portogallo vota per la Spagna, la Spagna vota per il Portogallo; la Slovenia per la Bosnia e la Bosnia per la Slovenia. E così via, ad libitum, a dimostrare che un buon vicinato vale più di qualsiasi talento musicale. L’Italia ha ricevuto il pieno di voti da San Marino e Albania, ovviamente, mentre i 12 punti di casa nostra sono andati a sorpresa alla Romania (non lo dite ai sindaci sceriffi della Lega, per carità!).

L’anno prossimo, dunque, l’Europa si sposta in Asia per celebrare la sua festa della musica. Sì, perché uno dei privilegi del paese che vince è quello di ospitare l’edizione successiva. Baku 2012, insomma, anche se su Facebook molti fan italiani hanno cominciato a gufare. C’è chi spera in un po’ di instabilità politica, chi nelle casse vuote degli organizzatori azeri. A dimostrazione, come dicevamo, che l’Eurovision Song Contest non c’entra davvero nulla con la musica, ma diventa un gioco geopolitico “de noantri” a uso e consumo delle masse nazionalpopolari d’Europa. E quindi capita anche di leggere un commento sorpreso e commosso di un fan macedone che ringrazia incredulo la Grecia per i 3 punti ottenuti (le relazioni tra i due paesi non sono affatto facili, visto che Atene non vuole mollare il brand “Macedonia” e Skopje è ancora costretta a usare la bizzarra denominazione ufficiale di Ex repubblica jugoslava di Macedonia). E due anni fa aveva destato sorpresa e scalpore lo scambio di voti altissimi tra Turchia e Armenia, due paesi che certo non vanno d’amore e d’accordo.

Tutto questo, e molto altro, è l’Eurovision Song Contest. Un carrozzone, tutto lustrini e paillettes, qualitativamente non certo degno della migliore tradizione musicale. Ma almeno è un happening continentale che tiene incollati alla tv milioni di persone e lo spettacolo è congegnato in maniera tale da far stare con il fiato sospeso in attesa di scoprire il vincitore. Snobismo di maniera a parte, il ritorno dell’Italia non è poi uno scandalo così grave. La Rai di soldi ne spreca tantissimi e nei modi peggiori. Qualche milioncino in più per regalarci una serata di svacco totale e di fuga dalla pesante quotidianità non sarà la fine del mondo. Appuntamento all’anno prossimo a Baku, allora. A meno che le gufate italiane non complichino l’organizzazione in terra azera. E a quel punto toccherebbe a noi. Non lo dite a voce alta, però. Qualche megalomane potrebbe proporre di organizzarlo a Lampedusa, magari nel Salone delle feste di un casinò nuovo di zecca…

domenica 15 maggio 2011

Spes contra spem, per una stagione di diritti



FareitaliaMag
14 maggio 2011

intervista a Dario Vese (Certi Diritti)

È giovane, Dario Vese. E a vederlo sembra un ragazzo come gli altri. Non diresti mai che, nonostante la giovane età, è già membro del comitato direttivo di Certi Diritti, l'associazione radicale che, con la consueta terminologia complicata di via di Torre Argentina, si autodefinisce un “Centro di iniziativa politica nonviolenta, giuridica e di studio per la promozione e la tutela dei diritti civili, per la responsabilità e la libertà sessuale delle persone”. L'inganno dell'apparenza svanisce non appena Dario inizia a snocciolare con competenza e meticolosità dati, proposte di legge, fatti e misfatti di un'Italia che ancora non riesce a scrollarsi di dosso, nel 2011, il marchio infame dell'omofobia. Ma Dario è ottimista, nonostante tutto. E per cambiare le cose spera nell'Europa.

È di un paio di giorni fa l'ultimo episodio omofobico nel nostro paese: a Brindisi è stata negata la patente a un ragazzo gay per “disturbo dell'identità sessuale”. A raccontarlo all'estero ci ridono in faccia, eppure la situazione di casa nostra è questa. Davvero l'Italia è così indietro sulla lotta all'omofobia?
L'Italia è indietro. E lo è anche sulla lotta all'omofobia. La vicenda del ragazzo di Brindisi è solo uno degli episodi delle tante aggressioni fisiche e verbali, private e pubbliche, che le persone LGBT sono costrette a subire in questo Paese. L'aggressione di Paola Concia, a seguire i Giovanardi, i Buttiglione e, da non credere, 2.280 euro di ammenda a due ragazzi per essersi baciati davanti al Colosseo nel luglio 2007, per il giudice contrariamente “alla pubblica decenza”. Tutto questo alle porte del 17 maggio: giornata mondiale contro l'omofobia. Le celebrazioni governative in quel giorno? Quelle sì che faranno ridere.
È impossibile che ci sia una lotta all'omofobia se non c'è una reale uguaglianza dei diritti. La classe politica dovrebbe capire che fino a quando rimane indifferente, ponendo anche veti e offese, nei confronti di proposte legislative, che consentirebbero alle persone lesbiche e omosessuali di vedersi riconosciuti diritti e cittadinanza, non fa altro che alimentare pregiudizio e odio che spesso diventano anche violenza.

Eppure, nonostante i rischi che quotidianamente corrono gli omosessuali, il progetto di legge sull'omofobia è fermo in Parlamento. A che punto stiamo? E soprattutto, facciamo i nomi: quali partiti stanno ostacolando l'iter legislativo?
La calendarizzazione è per il 23 maggio e la proposta di legge è dell'onorevole Concia. La Camera dei Deputati quanto meno sarà obbligata a discuterne dopo ormai quasi 1000 giorni dalla prima proposta.
In verità la pdl Concia, l'estensione della legge Mancino e quant'altro sono ottimi strumenti, molto utili per il loro grande significato politico. Anche simbolico. E di questi tempi...
È bene però non illudersi su un'eliminazione dell'omofobia solo per un incremento delle pene. L'unica legge che può avere una qualche efficacia è quella approvata dalla Regione Liguria un paio di anni fa, presentata come proposta di legge anche alla Regione Lazio dai consiglieri della Lista Bonino-Pannella. Il contenuto della proposta è di grande efficacia sul piano sociale, educativo, assistenziale e della prevenzione. Perché è alla radice che bisogna agire. Il Governo, peraltro, si era opposto alla Legge Regionale n.52 del 2009 approvata dalla Liguria "perché la legge eccede dalle competenze regionali, perché solo lo Stato può decidere in materia di diritto civile". Il tutto puntualmente respinto dalla Corte Costituzionale. Oltre alle offese, anche i veti senza alcun fondamento giuridico.

Il ministro Carfagna ha preso posizioni diverse e a volte contrastanti in questi tre anni di governo. Come giudichi il suo operato sul tema dei diritti civili delle persone omosessuali? Cosa ha fatto e cosa non ha voluto o potuto fare?
La Ministra non ha presentato, contrariamente a quanto promesso, una proposta di legge governativa contro l'omofobia e la transfobia. Detto questo, lei è stata l'unica che ha lanciato una campagna ad hoc contro l'omofobia che tra l'altro, a breve, riparte. Insomma, anche se politicamente non condivido alcune posizioni proibizioniste, su tutte quella sulla prostituzione, va però riconosciuto un forte impegno anche tramite l'Unar, che dipende dal suo ministero e che sta facendo un importante lavoro in tutta Italia per monitorare la situazione sulle discriminazioni per intervenire laddove è necessario. Lo scorso anno quando siamo stati da Napolitano, per il 17 maggio, lei stessa ha ammesso di avere avuto in passato dei pregiudizi e di averli ora del tutto superati, grazie ad una maggiore conoscenza dei problemi. Infatti, basterebbe poco: dal politico al semplice cittadino dovrebbe valere l'einaudiano “conoscere per deliberare”, altrimenti parliamo del nulla.

Qualcuno ci suggerisce amaramente di consolarci pensando a casi ben più gravi, come quello ugandese. Nello Stato africano, dove recentemente è stato ucciso l'attivista gay David Kato, sta per essere approvata una durissima legge “antigay”. Ci puoi dire cosa prevede e cosa possiamo fare, dall'Italia, per tentare di bloccarla?
Nessuno può consolarsi sulla morte di qualcun altro. Queste dichiarazioni dimostrano il provincialismo di certi politici che pensano ancora secondo vecchi schemi ottocenteschi. Le rivoluzioni di questi mesi avrebbero già dovuto dimostrare anche agli scettici più ambiziosi che i diritti umani sono diritti di tutti, nessuno escluso, e che le libertà si difendono in prima persona. In Uganda il Parlamento stava per approvare il provvedimento che prevedeva la pena di morte per chi avesse commesso il reato di omosessualità. Per ora, tutto è finito. Il Parlamento, nella sua ultima seduta prima di nuove elezioni, non lo ha votato. Tutto è finito si fa per dire: nel codice penale, art. 145, gli atti omosessuali continuano ad essere gravemente perseguiti. E l'Uganda non è la sola nell'Africa subsahariana.

So che avete scritto, insieme ad Arcigay e Nessuno tocchi Caino, al ministro Frattini e al presidente Napolitano. Avete ricevuto risposta?
Insieme all'Associazione Luca Coscioni e a tutti i parlamentari radicali. Chiedevamo di intervenire attraverso tutti i canali diplomatici affinché venisse scongiurata l’approvazione del bill contro le persone omosessuali, frutto di propaganda e odio fondamentalista. Chiedevamo inoltre di allertare la nostra sede diplomatica a Kampala qualora esponenti della comunità lgbt ugandese avessero chiesto protezione. Alcune diplomazie occidentali, in testa gli Stati Uniti, avevano già minacciato che in caso di approvazione del testo avrebbero dato vita ad un embargo economico nei confronti dell’Uganda. Di questo è stato anche informato il Presidente ugandese Museveni nel tentativo di farlo desistere dalla firma del provvedimento. Ad ogni modo, non abbiamo ricevuto risposta. Nessuna risposta, come al solito. Infatti, a seguito dell'assassinio di David Kato Kisule, il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, il Segretario di Stato, Hillary Clinton, il Presidente del Parlamento Europeo, il Sindaco di Parigi, autorità di Governo di molti paesi di tutto il mondo occidentale hanno espresso forte condanna per il grave atto di violenza avvenuto in Uganda. In Italia, ad eccezione del Partito Radicale e di qualche altra associazione, un silenzio di indifferenza. Devastante.

Certi Diritti è molto impegnata nella causa ugandese, già prima dell'uccisione di David Kato. Ci vuoi ricordare chi era e cosa ha fatto di così grave per meritare la morte?
Nell'ottobre 2010 la rivista ugandese Rolling Stone pubblicò in prima pagina le foto di 100 attivisti omosessuali (o presunti tali) ugandesi chiedendone l'arresto. Tra le 100 foto vi era anche quella di David Kato Kisule, l'esponente più noto del movimento. In Uganda, come in altri paesi africani, il clima di odio contro le persone omosessuali è alimentato dal fondamentalismo religioso dei predicatori evangelisti che trovano terreno molto fertile tra la popolazione che vive nella miseria e nella disperazione. L'Alta Corte ugandese, in un ricorso presentato dagli attivisti dell'organizzazione Smug contro la rivista Rolling Stone, aveva dato ragione agli attivisti per i diritti delle persone lesbiche e gay condannando il giornale alla chiusura e al risarcimento dei danni causati alle persone omosessuali. Il compagno radicale David ha trascorso la propria vita da militante, combattendo per l'uguaglianza di uomini e donne, perseguitati a causa del loro orientamento sessuale fino al giorno del suo assassinio. La notizia della sua morte è arrivata al mondo il 27 gennaio scorso: giornata della memoria. Una memoria che non appartiene purtroppo al passato: esistono ancora persecuzioni, non più in virtù di un'appartenenza etnica, ma sempre più spesso in virtù di un orientamento sessuale o di un'identità di genere. Il nostro iscritto David era colpevole di essere omosessuale.

E il fondo in sua memoria che avete istituito cos'è? Come si può aiutare e come utilizzerete i soldi raccolti?
Insieme ad altre realtà lgbte, ugandesi e di tutta la comunità internazionale, ci siamo rivolti al governo ugandese per chiedere indagini imparziali sulla morte di David Kato Kisule. Indagini rigorose ed efficaci, in modo che ci siano i presupposti per un giusto processo in grado di far emergere la verità su quanto accaduto, su chi ha voluto e commesso quell’assassinio. Oggi che si è scampato il rischio della legge anti-gay, con più forza chiediamo di onorare la memoria di David, partecipando alla raccolta fondi. Invito tutti ad andare sulla sezione dedicata a David nel nostro sito http://www.certidiritti.it/. Noi ci impegniamo a non lasciare soli i nostri compagni ugandesi e a contribuire a questa battaglia di civiltà per un processo equo e veritiero, tanto più visti i tentativi di discredito
dell'ambasciatore ugandese presso la Commissione Europea, secondo il quale David sarebbe corresponsabile della sua morte.

Torniamo in Italia. Come ti spieghi l'incessante ripetersi di episodi omofobici? Cosa ci manca per diventare un paese civile?
Hannah Arendt diceva che la discriminazione è una grande arma sociale attraverso la quale si possono uccidere delle persone senza spargimento di sangue. Le coppie omosessuali hanno rilevanza costituzionale e non sono un mero fatto privato. Questo il pronunciamento della Corte Costituzionale nella sentenza 138/2010 alla quale siamo arrivati dopo una battaglia lunga e faticosa, frutto di un movimento di consapevolezza civica chiamato “Affermazione Civile”. Il Parlamento ha il dovere di legiferare in materia con una regolamentazione organica e generale, dunque non privatistica. Quello che dice la Corte Costituzionale è un vincolo per tutti. Per questo esistono le istituzioni in un paese democratico, e le istituzioni rispettano le sentenze. Questo è un altro segno della disgregazione delle nostre istituzioni. Cosa ci manca? Intanto il rispetto della legge. Poi avanti a seguire. A me hanno insegnato a camminare mettendo un passo dopo l'altro.

Quanto influiscono le dichiarazioni francamente incredibili di alcuni politici sulla costruzione di un substrato omofobico nel nostro paese?
Certi Diritti preferisce parlare di sessuofobia, perché la situazione evidentemente è molto più ampia di quanto si possa pensare. Sull'omofobia voglio essere chiaro. Di preoccupante non c'è tanto l'intellettuale Buttiglione, cacciato dalla Commissione europea per le sue posizioni clerico-fondamentaliste, o il suo compagno di sacrestia Giovanardi, ma l'ipocrisia che c'è nel distinguo tra omofobia e discriminazione. Mi spiego. Non è più consentito denunciare l'omofobia e praticare la discriminazione. A quelli che rifiutano di accordare diritti alle coppie omosessuali, va rifiutato il diritto di dire che sono determinati a lottare contro l'omofobia. Bisogna affermare chiaramente che opporsi ai diritti dei gay e delle lesbiche è già omofobia.

Ai gay italiani sarà mai permesso di essere persone normali?
Io non la metto in questi termini. L'attualità non si sceglie, si impone da sé. Ciò che si sceglie è la risposta che le si offre, l'accoglienza che le si riserva, lo spazio che le si crea. La legge deve essere in grado di recepirne le necessità di cambiamento. Se ciò non avviene entro i tempi fisiologicamente necessari, si determinano scompensi e contraddizioni, che il cittadino avverte come paradossi e privazioni di libertà. Non si tratta di gay, etero e quant'altro. Si tratta di cittadini impegnati in una lotta per la definizione legislativa di istituti idonei a dare forma agli affetti, alle esigenze e ai diritti dei cittadini, tutti, in un quadro di legalità ed eguaglianza. Noi infatti siamo un'associazione
lgbte, e la E sta per etero, come tanti della nostra associazione, e sta a ricordare che la lotta contro la segregazione razziale fu di Martin Luther King e della comunità afroamericana, ma fu poi un Parlamento di bianchi ad eliminare la segregazione con la legge, con il diritto. Come ricorda Marco Pannella, spes contra spem, siate speranza voi che non avete. Se qualcuno sente su di sé o sugli altri la privazione della libertà, si mobiliti.

Ci salverà l'Europa?
Derive nazionaliste e xenofobe a parte, l'Unione europea, con i Trattati di Nizza e di Lisbona, prevede tutele antidiscriminatorie anche riguardo l'orientamento sessuale. Certi Diritti ha già denunciato alla Commissione Europea che l'attuale situazione viola i diritti delle persone lgbt in quanto gli Stati membri compiono discriminazioni basate sull’orientamento sessuale nel non riconoscere i matrimoni e le partnership registrate delle coppie dello stesso sesso celebrate negli Stati membri, in violazione del mandato politico contenuto nei Trattati Ue e nella Carta dei diritti fondamentali. Certi Diritti incoraggia quindi la Commissione europea a proporre misure di mutuo riconoscimento dei documenti ed atti (ad esempio attraverso la soppressione dell’autenticazione, della legalizzazione e della postilla, un certificato europeo di stato civile e l’utilizzo di moduli europei plurilingue) e dei loro effetti (ad esempio attraverso il riconoscimento di pieno diritto). Insomma, una nuova fase di “Affermazione Civile” perché l'assurdo è che in Europa i confini non esistono per le merci, ma esistono per i diritti. Lottiamo per una libera circolazione dell'amore.